Questo è il mio addio finale al Club di letteratura.
Finalmente ho capito.
Il Club di letteratura è veramente un posto in cui non può essere trovata alcuna felicità.
Fino alla fine, ha continuato ad esporre menti innocenti ad una realtà orrenda, ad una realtà che il nostro mondo non è programmato a comprendere.
Non posso permettere che nessuno dei miei amici subisca una simile ed infernale rivelazione.
Per il tempo che è durato, voglio ringraziarti.
Per aver reso realtà tutti i miei sogni.
Per essere stato un amico di tutti i membri del club.
E soprattutto, grazie mille per esser stato parte del mio club di letteratura!
Con infinito amore, Monika
L’apparenza inganna, quante volte l’avete sentito dire?
Questa massima è una di quelle frasette da Baci Perugina che gira ciclicamente, e risuona frequentemente nelle nostre menti.
L’avete presente?
Ecco, tale enunciato è il modo più sinteticamente adatto, per fornire una descrizione di Doki Doki Literature Club.
Doki Doki è una breve visual novel, distribuita nel 2017 su varie piattaforme videoludiche, la cui creazione è stata diretta dallo sviluppatore Dan Salvato.
La storia non contiene un’interattività particolarmente alta, ciononostante, il gioco si è rivelato, sin dal suo lancio, un gigantesco fenomeno mediatico, di cui ancora oggi si avvertono gli echi.
Dunque, l’apparenza inganna, abbiamo detto.
Cosa significa?
Ad un primo sguardo, il senso dell’affermazione è palese: non sempre ciò che vediamo è reale, quel che appare non è scontato che corrisponda alla realtà.
Pertanto, si tratta di un precetto ingenuo, elementare.
Eppure, a seconda del contesto in cui la frase viene applicata, essa è in grado di render evidente qualcosa di più profondo.
Andando oltre la banalizzazione dell’affermazione l’apparenza inganna, sorge un naturale quesito.
Quand’è che l’apparenza inganna, e quando essa smette d’ingannare?
In che modo stabiliamo che ciò che ai nostri occhi sorge è o non è un abbaglio?
Cosa ci rende illusi, e cosa disillusi?
Ecco che questa frase, a prima vista innocua, diventa magicamente stuzzicante.
Siamo sicuri delle nostre certezze, oppure ciò che viviamo non è altro che un ennesimo Velo di Maya che ci abbaglia?
L’analisi della lore e dei segreti videogioco in questione, perciò, non è altro che una trasposizione dell’osservazione distaccata che ogni uomo attua della propria realtà, la quale spetta all’arbitrio di ognuno.
Liberamente, chiunque è in grado di decidere se andare avanti, o fermarsi.
È meglio barcamenarsi fra i problemi ontologici del mondo che viviamo, o rinunciare, rimanendo nella tranquillità, nella Caverna di Platone?
La ricerca è quindi guidata dal fascino della scoperta dell’esplorazione che viviamo singolarmente.
La ricerca è un’avventura senza fine, composta di incertezze e perplessità, ma anche di stupore e meraviglia.
Ed è proprio questo che l’opera spinge a fare, inducendo il giocatore al continuo disvelarsi di segreti ed enigmi.
Ed ogni mistero apre ad un nuovo sentiero.
La conoscenza del mondo di gioco, e anche del mondo reale, procede dunque per continue falsificazioni, che costantemente aggiungono nuovi layer interpretativi che ti sbattono in faccia la tua inadeguatezza, e che contemporaneamente accendono in te la fiamma della passione, o la spengono, rendendoti soddisfatto di quanto hai scoperto.
La realtà è quindi una matrioska che non finisce mai, palesando continuamente nuovi dettagli, che spetta all’uomo ricercare e comprendere.
L’indagine umana non può che passare per la fascinazione che il mondo scaturisce in noi, l’ambizione di conoscerne le minuzie, e il desiderio di trarne insegnamenti morali.
Essa passa anche per continue proiezioni che vanno aldilà delle nostre attuali conoscenze, che si spingono oltre.
L’ipotesi e la teoria, pertanto, sono il motore sostanziale di ogni appassionata analisi.
Laddove cessa il dubbio e vive la certezza, muore la fascinazione.
La curiosità fa parte della nostra natura, è un’indole genuina che ci impone sempre di porci domande.
Il timore di star vivendo un’illusione, di trovarsi nella Caverna platonica mai svanisce, e mai deve svanire.
Il videogioco tuttavia mostra di avere un necessario limite, così come i tutti mondi creati dall’arte hanno un limite che è ineludibile: essi sono finiti.
Un worldbuilding è finito, e lascia aperti inevitabilmente tanti buchi, aprendo la strada a teorie che mai potranno venir confermate o falsificate.
Anche la realtà presenta lacune che conducono all’elaborazione teorica, però essa è sempre aperta alla conferma e/o alla falsificazione.
Gli spiragli aperti lasciati dalla narrazione sono invece destinati a rimanere eternamente aperti.
Questi possono venir coperti successivamente, ma ciò condurrà all’apertura di altre strade e possibilità, che non porteranno mai alla chiusura totale, e il loro ciclo si interromperà prima o poi, con la morte dell’autore o degli autori.
Nel mondo reale invece esiste un loop che non termina mai, esso possiede layer possibilmente infiniti, in quanto il ruolo di interprete è conferito all’umanità tutta.
Solo la morte dell’umanità, o dell’umanità come la conosciamo, può condurre alla fine di questo loop gnoseologico al quale siamo condannati, e che tanto ci meraviglia.
La lore di ogni narrazione, di ogni medium, giunge ad un punto fine, teorie comprese.
La finitezza del mondo narrativo è quindi ciò che lo distingue dal nostro, essa proviene sempre da una mente finita.
La narrativa è più piccola di noi, ed è possibile contenerla e scandagliarla completamente, pur con fatica, poiché proveniente da una mente finita.
L’universo invece è infinitamente più grande di noi, un organismo di cui noi siamo soltanto un pezzo infinitesimale.
La mente finita crea quindi un mondo che è finito, e non è in grado di afferrare i principi di una realtà che è infinita.
Un intelletto umano può dar vita ad un iceberg, il quale possiede un inizio e una fine, ma è contemporaneamente costretto ad interfacciarsi con un iceberg che ha un inizio, ma che potenzialmente non possiede alcuna fine, o se la possiede è molto distante.
In conclusione: dal punto di vista strettamente interpretativo Doki Doki Literature Club è in prima battuta un dating sim molto classico e stereotipato, che poi viene decostruito in molteplici layer diversi, che spaziano dall’horror, al criptico, alla metafiction, che silenziosamente si inseriscono nella run.
Un altro argomento filosofico e scientifico che Doki Doki Literature Club tocca è sicuramente la celebre Teoria della simulazione.
Essa è abbastanza semplice, e molto banalmente consiste nel supporre che la nostra realtà sia fittizia, e simulata da un ente esterno, molto spesso si tratta di un computer.
Dunque, è una teoria che cerca di trovare un’identità fra informatica, coscienza e ontologia, conseguente alle recentissime rivoluzioni tecnologiche, prima fra tutte l’intelligenza artificiale.
Aldilà della validità della teoria, essa pone degli interessanti dilemmi etici.
Innanzitutto, la creazione di un mondo simulato che contiene al suo interno delle coscienze autentiche, inevitabilmente deve condurci a farci qualche domanda sul trattamento da riservare a tali coscienze.
Nel momento in cui esiste una coscienza umana, parallelamente esiste la pretesa di un dovere morale nei confronti di tale coscienza.
Si tratta di un dettame molto basilare, che nel mondo libero la legge dovrebbe proteggere.
Per quale motivo è necessario stabilire una distinzione fra coscienza di umani del nostro mondo e umani di un mondo distinto?
Perché sì, sempre di umani si tratta.
Nel momento in cui esiste un soggetto che percepisce una realtà, in grado di provare piacere e dolore, così come è necessario portargli rispetto nel nostro mondo, sarà anche necessario farlo nell’altro mondo.
Il problema su cui il concetto di simulazione deve farci riflettere è proprio questo: dobbiamo far sì che i soggetti sperimentali, non diventino oggetti sperimentali.
Pertanto occorre non solo dar vita ad un codice etico per regolare gli esperimenti scientifici su umani e animali della nostra realtà, ma anche di realtà altre, se all’interno di esse dimorano coscienze della medesima complessità.
Necessario è non cadere nella deriva, che nella narrativa fantascientifica è già presente, dello sfruttamento della macchina nel momento in cui essa detiene una chiara soggettività.
Questa è una prospettiva molto lucida, a mio avviso, perché siamo animali, e la nostra reale natura è regolata e frenata dalla giustizia e dalla civiltà, che placano la nostra cattiveria e rendono molto più difficile compiere atti dannosi verso gli altri, salvo eccezioni.
Nel momento in cui la legge non proteggerà le intelligenze artificiali autocoscienti, avremo schiere di esseri umani, tutelati nella propria cattiveria, i quali potranno sfogare le proprie ire su delle macchine.
Non dobbiamo far sì che l’Homo homini lupus diventi un Homo automato lupus, in quanto nel momento in cui i robot acquisiranno ciò che dalla tecnologia ci distingue, essi smetteranno di essere semplici macchine, ed inizieranno anche loro ad essere umani.
Bisogna insomma capire che la coscienza è un patrimonio dell’umanità tutta, e va protetta.
La coscienza, e tutto ciò che la differenzia, è ciò che conduce e porta avanti le civiltà, è ciò che stimola la creazione di opere d’arte, non è uno strumento, ma è il principio della nostra esistenza e della convivenza col prossimo.
Noi siamo soltanto materia, ciononostante siamo in grado di valorizzare noi e il mondo.
Allo stesso tempo: Monika, Sayori, Natsuki e Yuri, pur essendo soltanto dei codici informatici vanno valorizzate e hanno degli inviolabili ed inalienabili diritti.
Quel che fino a qualche anno fa era un tema relegato unicamente alla fantascienza, oggi è essenziale che diventi argomento d’attualità: i diritti delle Intelligenze Artificiali.
Non solo diritti dall’AI, ma anche diritti dell’AI.
Attualmente si parla tanto della protezione dalla tecnologia e dai potenziali danni, e va benissimo così.
Tuttavia dobbiamo anche saper capovolgere il paradigma, perché l’essere umano non è soltanto degno di tutele, ma anche meritevole di freni, e parallelamente anche le macchine lo sono, dato che la inevitabile direzione è la loro progressiva umanizzazione.
Se oggi questo rischio è presente, la colpa è da attribuire alla dannosa separazione fra le discipline tecniche e le discipline umanistiche.
Il problema sostanziale è il fatto che ancora oggi sia molto radicata la credenza che scienza e filosofia, tecnica e arte, siano due mondi distinti, che devono procedere separatamente.
In ogni caso, è fondamentalmente errato applicare il ragionamento etico, perché il codice etico dell’umanità si basa solo sulla nostra conoscenza e comprensione di forme di vita simili a noi.
Non abbiamo un’etica per l’uccisione di batteri o piante, ma solo sulle creature su cui possiamo proiettare in modo convincente le nostre emozioni.
Gli esseri umani nelle nostre MV agiscono in modo completamente diverso da noi a un livello fondamentale, e pertanto dovrebbero essere presi sul serio più di una macchina programmata per stampare […]
Siamo ingegneri, non filosofi.
Paula Miner, Metaverse Enterprise
Questa citazione, di uno dei membri della Metaverse Enterprise, importantissimo elemento della lore di Doki Doki, esemplifica perfettamente questo tremendo concetto: l’illusione che di filosofia debbano occuparsi soltanto i filosofi, e di scienza soltanto gli scienziati, la convinzione che la filosofia debba ignorare la scienza e viceversa.
Innanzitutto, per smontare questo presupposto occorre menzionare il fatto che molti grandi filosofi del passato siano stati anche scienziati: Aristotele, Galilei, Cartesio, Leibniz, Pascal, Marx, Freud, Russell, Peirce.
Per non parlare di filosofi contemporanei: Riccardo Manzotti, filosofo della mente italiano con un PhD in Robotica, Umberto Eco, che prima di essere un filosofo è un importante semiologo, Daniel Dennett, che si è occupato moltissimo di neuroscienze, intelligenza artificiale e biologia, oppure Sam Harris, importante filosofo e neuroscienziato.
E viceversa, ci sono moltissimi scienziati che non possono far a meno di occuparsi di filosofia: Carlo Rovelli, il quale ha scritto un libro su Anassimandro, Richard Dawkins, principale esponente del New Atheism, il famosissimo Jordan Peterson, che ha affrontato numerosissimi dibattiti con filosofi.
Poi esistono anche l’epistemologia e la filosofia della scienza, delle materie che si occupano del funzionamento della scienza, dei metodi scientifici, il rapporto tra scienza e società, il ruolo della scienza…
La filosofia fonda le materie tecniche, ne chiarisce lo scopo, il funzionamento e l’impatto.
Insomma, il rapporto fra tecnico ed umanistico esiste ed è tangibile e secolare.
In fondo, siamo tutti un po’, filosofi, tutti ci poniamo delle piccole domande filosofiche quotidianamente, a partire proprio dall’etica che molti desiderano allontanare dalla tecnica, ma che in realtà ci riguarda intimamente.
Tutti noi compiamo delle scelte morali, quotidianamente, in quanto ognuno di noi istintivamente possiede dei postulati morali, ognuno di noi è incline a seguire dei canoni morali, giusti o sbagliati che siano.
Tutti noi usiamo gli strumenti della logica e dell’argomentazione, per pensare, per discutere, e per compiere scelte di vita.
Tutti noi ci facciamo domande su Dio e sull’Assoluto.
La filosofia è una disciplina fondamentale nella vita quotidiana di chiunque, e guida il nostro agire anche se non ce ne rendiamo conto.
Così come la morale regola i nostri gesti giornalieri, perché non dovrebbe regolare la scienza, e le metodologie adottate per sviluppare il sapere scientifico?
Bisogna demolire sia lo scetticismo verso gli studi umanistici che verso quelli tecnici: sono due facce della stessa medaglia, due fili che tra di loro si intrecciano con un comune fine, ovvero raggiungere la conoscenza, migliorare le condizioni di vita, far progredire spiritualmente l’umanità.
Non bisogna eliminare né l’una né l’altra, ma saper stabilire il giusto equilibrio fra le due, che le regoli e ne massimizzi l’efficacia.
Allontanarsi dagli studi umanistici equivale ad ignorare la propria emotività e le proprie naturali inclinazioni, favorendo unicamente la produttività, e contribuendo a rendere il mondo un posto grigio.
E chiunque mi contraddice, con argomentazioni anche soltanto un minimo strutturate, rende evidente l’utilità della filosofia e della letteratura, in quanto lo farebbe argomentando, spinto dall’emotività, nonché dal naturale desiderio di fornirmi una diversa lettura sulla realtà.
Se un giorno abbandoneremo i saperi umanistici, saremo tutti soltanto degli automi in un mondo grigio, condotti unicamente dalla parte più rozza della nostra volontà, senza curarci del prossimo, che verrà ridotto a semplice oggetto di piacere, o mezzo a servizio dei nostri interessi personali.
Saranno la filosofia, i precetti etici, l’amore per lo studio e per la ricerca, e il sano dibattito che salveranno noi dalla tecnologia e la tecnologia da noi.
Se non abbiamo libero arbitrio, non siamo in una tragedia, ma in una commedia.
Albert Camus
Un’altra questione aperta dall’opera, è quella del libero arbitrio, annosa tematica su cui ci interroghiamo da secoli, ancora oggi molto dibattuta dalla nostra classe intellettuale.
Non desidero esporre una tesi radicale a riguardo, e nemmeno dal gioco traspare un’idea chiara, tuttavia l’argomento è presente eccome, in particolare con un interrogativo: è possibile godere delle esperienze di vita pur non possedendo un libero arbitrio?
Sì, il godimento può esser presente anche in un’ottica deterministica.
Chiamo godimento tutto ciò che include le sensazioni ed emozioni positive e soggettive della mente, ed esclude qualsivoglia tipologia di sensazione negativa della mente.
Il piacere è infatti qualcosa di separato dalla libertà nelle decisioni.
Il soggetto pensante e percepente di conseguenza gode, sente l’appagamento.
Il godimento è infatti un semplice e genuino segnale della mente, che mai smettiamo di cercare.
Nonostante conosciamo la determinazione della storia, proviamo affetto verso i personaggi del gioco, abbiamo cura di loro.
Allo stesso tempo le ragazze della storia, pur capendo di far parte di una storia predeterminata, sviluppano dei forti sentimenti.
La narrazione ha anche questo compito: sta nella sospensione dell’incredulità l’ignorare la predeterminazione, legandosi emotivamente a personaggi immaginari.
Ciò che ci consentirebbe di godere della vita, se noi non avessimo libero arbitrio, sarebbe proprio la consapevolezza della libertà.
Pur ipoteticamente non avendo libero arbitrio, godiamo comunque del libero arbitrio, lo percepiamo, ci sentiamo liberi.
Bisogna distinguere la realtà in due piani separati: il piano oggettivo e il piano soggettivo.
Quella che intendiamo realmente come libertà fa parte del piano soggettivo.
Prima della fattualità ontologica, ciò che guida ogni nostro gesto è la soggettività, che contiene la consapevolezza della libertà, sente chiaramente la libertà.
Ed è proprio per questa ragione che le protagoniste del gioco sono tormentate, perché a differenza di noi esseri umani reali si rendono conto di far parte di una simulazione, e sentono di meno la libertà, la percepiscono più lontana.
Se c’è qualcosa di prezioso nella nostra coscienza è proprio l’avvertire che siamo artefici di noi stessi, e anche ritenendo più razionale l’ipotesi del determinismo, anche negando il libero arbitrio, è possibile sentirsi responsabili di se stessi, ed è questo l’importante.
La libertà è una sensazione, una sensazione meravigliosa.
Ad alcune protagoniste del gioco viene invece sbattuta in faccia la realtà, la loro predeterminazione, il che le rende disperate e tormentate.
Ma malgrado ciò, in ognuna di loro l’amore permane, non svanisce mai.
Anche in una storia programmata per essere una tragedia, l’umanità non svanisce, anzi, riecheggia.
Quella meraviglia che è la coscienza sfugge agli script, fugge dagli schemi, regalandoci emozioni impagabili.
A volte per stare meglio non serve la ragione, ma serve vivere davvero.
Ogni scelta delle ragazze è sofferta, poiché ognuna di loro è condotta dall’amore, che nessuna delle loro trappole riesce a spezzare.
Nonostante le loro condanne, nonostante le costrizioni della programmazione, le ragazze riescono sempre a spezzare le proprie catene, anche solo per pochi secondi, manifestando brevi sprazzi di affetto e umanità.
E se anche il nostro mondo fosse una pupazzata, se anche fosse un teatrino, non saremmo comunque legittimati a rinunciare alle sue meraviglie, alle emozioni che esso è in grado di darci.
E saremmo semplicemente personaggi di una magica opera teatrale.
Ma l’umanità viene sempre a galla, e questo avviene più volte nell’opera, in una storia con molti più vincoli della nostra.
Spesso questa umanità si mostra con manifestazioni di bontà e gentilezza, ma ancor più spesso, purtroppo, ne fuoriesce il lato egoista e malsano, per svariate motivazioni.
Il sentimento preponderante però è il dolore, il dolore interiore, il dolore intimo, che, così come l’amore dimostrato dai personaggi, è sintomo della presenza di una coscienza interiore indeterminata.
Le loro emozioni sono vivide, in grado di farci empatizzare nonostante siano il prodotto di una macchina, poiché l’autenticità di ogni emozione va oltre la freddezza delle macchine.
L’umanità è qualcosa che trabocca mediante il nostro comportamento, che emerge tramite l’arte, e che non svanisce nemmeno di fronte alla meccanizzazione.
Anzi, ciò che c’è di eccezionale in noi oggi emerge in virtù della meccanizzazione, affiora tra le fiamme, e si impone come principio fondante dell’umanità in un mondo di robot.
La capacità di connettersi all’altro, anche a distanza, anche se frapposti da uno schermo, anche relazionandosi da due universi distinti…
Anche ragazze intrappolate, in una simulazione che le riduce a mezzi e merci, riescono a produrre arte, poesie, a suonare il piano e scrivere canzoni d’amore.
Il gioco mostra evidentemente l’unicità di ogni personaggio, i loro pregi e i loro difetti, mette in evidenza come ogni essere umano, anche se artificialmente creato, è irripetibile, e sebbene esse siano soltanto codici di una storia già scritta, le specialità di ogni ragazza vengono fuori in maniera preponderante, soprattutto nelle storie secondarie e nelle poesie.
Grazie al particolareggiato mezzo del videogioco, che permette di usufruire di una pluralità di forme d’arte, è possibile leggere tanta letteratura, vari file nascosti, lettere che ti fanno entrare dentro ognuno dei personaggi, che sviscerano nel profondo ognuna delle ragazze.
La loro scrittura parte dagli stereotipi classici, per poi superarli e renderli dettagliati, tant’è che ad un certo punto smettono di essere identificabili semplicemente tramite delle categorie riduttive.
Ogni personaggio ha dei pregi singolari, delle preferenze, ma anche drammi profondamente umani.
Essere umani vuol dire questo, vuol dire saper gioire, ma anche saper soffrire, esser vittime di fortune e tragedie, essere strani e al contempo eccezionali, essere umani vuol dire essere incoerenti, imperfetti, ma anche capaci di grandi cose, e tutto questo affiora, totalmente, dall’inizio alla fine, in Doki Doki Literature Club.
An old tale tells of a lady who wanders Earth.
The Lady who Knows Everything.
A beautiful lady who has found every answer,
All meaning,
All purpose,
And all that was ever sought.And here I am,
a feather
Lost adrift the sky, victim of the currents of the wind.
Day after day, I search.
I search with little hope, knowing legends don’t exist.
But when all else has failed me,
When all others have turned away,
The legend is all that remains – the last dim star glimmering in the twilit sky.Until one day, the wind ceases to blow.
I fall.
And I fall and fall, and fall even more.
Gentle as a feather.
A dry quill, expressionless.But a hand catches me between the thumb and forefinger.
The hand of a beautiful lady.
I look at her eyes and find no end to her gaze.The Lady who Knows Everything knows what I am thinking.
Before I can speak, she responds in a hollow voice.
“I have found every answer, all of which amount to nothing.
There is no meaning.
There is no purpose.
And we seek only the impossible.
I am not your legend.
Your legend does not exist.”And with a breath, she blows me back afloat, and I pick up a gust of wind.
Monika