Scrivere recensioni subito dopo l’uscita dei giochi è un compito ingrato, oltre che non richiesto, perché il frenetico chiacchiericcio può facilmente portare alla polarizzazione, sia nell’elogio sperticato che nella critica poco solida. Rileggere la mia recensione di Elden Ring a distanza di più di due anni dalla pubblicazione, fa subito capire che non ci si trova davanti a una buona recensione. L’urgenza di esprimere un’opinione controversa, per quanto sincera, porta spesso a ottenere l’effetto di risultare bastian contrario per partito preso, e un auspicato arricchimento della discussione su un’opera si trasforma in scherno e opposizione, inibendo il dibattito. Per questo, vista la recente uscita del DLC di Elden Ring, sento che sia opportuno ritornare su alcuni concetti di design, alcune critiche e alcuni punti di forza dell’ultimo gioco di Hidetaka Miyazaki e del team From Software. Stavolta con più distacco, più lucidità e più precisione. Anche nei toni. Il tentativo è quello di mettere in ordine tutte le idee e le critiche che si sono sedimentate nel corso di questi due anni e mezzo, e avere un pezzo quanto più possibile esaustivo sui difetti del gioco che non sia risentito o sbertucciante.
Proviamoci.
Combat stystem
Elden Ring è un action RPG in terza persona con una mappa open world. Per quanto riguarda la sua filosofia di design in termini di combat system, è l’erede diretto di Dark Souls III, sia per dinamismo dei combattimenti, velocità della schivata, animazioni di attacco e tempi di cura, sia per il modo in cui sono disegnati i pattern di attacco dei boss e dei nemici. Ingaggiare un combattimento in Elden Ring significa capire quali sono le finestre giuste per attaccare il nemico e curarsi senza farsi colpire a propria volta in una formula rifinita più volte a partire da Demon’s Souls. In questo Elden Ring smussa ancora meglio il sistema di Dark Souls III, principalmente per quanto riguarda la pulizia delle hitbox, che rendono i combattimenti più raffinati e più variabili: ad esempio, capita che la fine dell’animazione di un attacco del PG lo faccia trovare in una posizione di accovacciamento rispetto a un nemico che sta sferrando un attacco in diagonale. In questo caso, la precisione delle hitbox impedisce al nemico di colpirci, e offre una finestra per una schivata che nei giochi precedenti non ci sarebbe stata. Questa dinamica è molto frequente nell’uso dell’attacco in salto, che valorizza ancora di più la meccanica del salto introdotta in Elden Ring, una meccanica che più che fini esplorativi (pur presenti) dimostra i suoi effetti di design più interessanti, proprio in combattimento. La dinamica chiave su cui si innesta il combat system dei souls è sempre stata la schivata, più che l’attacco. L’attacco è sempre punibile, mentre una buona schivata non lo è, e anzi permette di sfruttare le finestre per attaccare senza essere colpiti. Da questo meccanismo dipende l’importanza della stamina, forse la statistica più rilevante nei souls. Uno dei problemi di DSIII era l’ampia generosità del gioco in termini di invincibility frames, ovvero i frame di animazione della schivata che garantiscono al giocatore di non subire danno. La generosità del gioco crea la possibilità di spammare schivate, esponendosi al rischio di finire la stamina, ma garantendo una relativa facilità nello schivare le combo dei boss. Relativa facilità comparata a quello che succede in ER. Una della novità più sostanziali introdotte in ER è infatti una coda di comandi più rigida, che soprattutto all’uscita del gioco, essendo i giocatori abituati a DSIII, ha avuto un impatto non da poco sull’esperienza di gameplay. Ogni mossa del giocatore è più importante in ER e la scelta di cosa fare, se sferrare un attacco o schivare e con quale tempismo, è ancora più rilevante che negli altri souls in un modo che ricorda la precisione richiesta nel tempismo di parata di Sekiro. Il sistema di combattimento di ER è strutturato in modo da punire sistematicamente quello che in gergo si chiama panic roll, ovvero lo spam di schivate che si fa presi dal panico. In ER il panico funziona molto meno che in DSIII, e avvicina ancora di più il gioco alla realizzazione dell’idea di design che sembra essere sempre stata l’ambizione di Miyazaki: punire l’overconfidence tanto quanto la codardia alla ricerca di un equilibrio tra rispetto del nemico e aggressività. In queste meccaniche più pulite e rigide, ER rappresenta un passo avanti che eredita molti punti di forza dei souls precedenti, e vi aggiunge la precisione delle meccaniche di Sekiro.
Ma nella stessa misura in cui ER smussa il combattimento e lo rende più variabile e raffinato, esaspera alcuni tratti di design dei pattern dei boss peggiori presenti in DSIII e Bloodborne. Un difetto di molti boss di DSIII e ancor prima di Bloodborne, era quello di avere intere sequenze di attacco in cui il giocatore era costretto a stare lontano dal boss, che eseguiva attacchi ad area, spesso con ampi raggi di azione. Questo era esasperato dalla presenza di boss molto grandi rispetto alle dimensioni del PG, che contribuivano anche a rendere la telecamera un ulteriore ostacolo. DSIII alternava idee di design geniali, che costringevano il PG in un corpo a corpo estremamente ritmato con i boss, a boss fight in cui per ogni colpo sferrato il giocatore era costretto a correre via per evitare gli attacchi del nemico. L’avventura iniziava con Gundyr il Giudice, che esemplificava un’idea di design da corpo a corpo, schiavate e colpi in una danza perfetta, ma subito dopo proponeva al giocatore un boss come Granbosco, che vomita acido ovunque costringendo il giocatore a stargli lontano senza poterlo colpire; il Saggio di Cristallo, che appare e scompare in punti diversi costringendoti a correre per l’area tutto il tempo; Aldritch, dotato di numerosi danni ad area da cui eri costretto a fuggire in continuazione aspettandone la fine per sferrare un attacco e poi ricominciare a correre; Midir e anche alcuni pattern del boss finale del gioco, l’Anima dei Tizzoni obbligano il giocatore a stare distanti e guardare come si scaricano le mosse del nemico.
Di contro, molti dei boss più belli di tutti i giochi di Miyazaki si trovano proprio in Dark Souls III, il cui coronamento è secondo me rappresentato dalla bossfight contro i Principi Gemelli. L’idea di design di un corpo a corpo ineludibile e instancabile è implementata dal fatto che Lorian scompare a appare continuamente, ma al contrario del Saggio di Cristallo, le sue apparizioni sono il più vicino possibile al giocatore. Questo forza il corpo a corpo e impedisce di fatto la fuga, costringendo il giocatore a giocare come Miyazaki pensa i combattimenti melee. Questa dualità in Dark Souls III era abbastanza bilanciata tra i vari boss del gioco. In Elden Ring, si ha la sensazione che sia stato esasperato solo uno dei due principi di design illustrati. Quello peggiore. Basti pensare alla seconda fase del boss finale, la Belva Ancestrale. Correre, correre, correre, colpire, correre di nuovo, schivare, correre, schivare frecce inseguitrici, correre, colpire. Lo stesso problema affligge Rennala, il Gigante di fuoco, gli Avatar dell’Albero Madre, I vermi ulcerati. Anche i boss migliori che ingaggiano combattimenti instancabilmente ritmati con il giocatore, su tutti Radagon e Godfrey, risentono in alcuni momenti degli stessi difetti degli altri.
Nel DLC questa situazione è ancora più grave e parossistica. Gaius è una boss fight in cui le corse per raggiungere il boss che scorrazza per l’arena a cavallo di un rinoceronte si alternano a infinte combo di anche 6-7 colpi al termine del quale si è fortunati se si riesce a sferrare un colpo. E via di nuovo alla rincorsa. Stesso dicasi per l’Ippopotamo d’Oro. Il boss finale non ha bisogno di commenti, chiunque lo abbia giocato sa che non è divertente. A meno di non voler considerare divertente il rischio di essere colpiti da attacchi ad area persistenti e a volte casuali o con una anticipazione di qualche millesimo di secondo, con raggi che piombano dal cielo a caso e una finestra di attacco per ogni minuto di schivate. Messmer e Rellana sono le bossfight più bilanciate, quelle che non a caso ricordano di più DSIII. Rellana è praticamente una riedizione di Sullyvan, a livello di moveset ed estetica, mentre Messmer, almeno nella prima fase, rappresenta per chi scrive l’apice di Elden Ring nelle bossfight, con attacchi leggibili per quanto complicati. Una vera sfida, senza inganni maleniani. Certo, risente dei difetti delle combo molto lunghe ma standosi sempre addosso ti da anche molte finestre di attacco.
Nel valutare il design del combat system bisogna tener conto sia delle migliorie introdotte sia di questi difetti che rendono il gioco più frustrante e noioso. Perché noioso? Perché la difesa offerta dalla schivata non ha valore in sé in ER. Per rendere una meccanica divertente da applicare per il giocatore bisogna trovare un equilibrio tra l’effetto che essa produce in termini di successo per il giocatore e la durata della sua applicazione. A fronte di una durata di applicazione che a volte arriva a essere anche di decine di colpi da schivare, una sola finestra di attacco come premio crea uno squilibrio che rende lo schivare estremamente noioso e costringe il giocatore a sottostare a una regole che viene percepita non come sfidante ma come ingiusta. A mio parere è fruttuoso un confronto con Sekiro, con il cui combat system quello di ER condivide più di quanto sembri, ma nel modo sbagliato. Come ho detto prima, la precisione dei tempi di schivate, cura e attacco assomiglia più a quella stringente di Sekiro che a quella degli altri souls. Ma il punto geniale del combat system di Sekiro, che rendeva le sue bossfight perfettamente bilanciate pur nell’abbondanza e lunghezza delle combo dei boss, era che la difesa funzionava come un attacco. Parare in Sekiro è una forma di attacco perché contribuisce a riempire la barra della postura, che è la vera vita dei boss. Sekiro riusciva nell’impresa di rendere interessante e divertente difendersi, missione che invece è totalmente mancata in ER. L’implementazione della sfida di Sekiro senza il reward della difensività compromette in modo irreparabile il gameplay.
Level Design
Quello che qualunque recensione di ER non ha fatto a meno di notare per quanto riguarda l’opera world è quanto Miyazaki non si sia omologato alle idee di design prevalenti nell’interfaccia e nelle meccaniche di questo tipo di level design. La maggior parte degli elogi al gioco si concentra proprio sull’abilità di combinare una grande vastità della mappa con la creazione di punti di interesse vari che garantissero un sempre rinnovato senso di scoperta. I recensori e i giocatori sono stati concordi nel riconoscere il motivo di questo compromesso felice nel non guidare il giocatore con una interfaccia aggressiva o didascalica, proponendo invece una sobria mappa di antica fattura. Queste impressioni sono giuste, ed è vero che l’open world di Elden Ring è più interessante, stimolante per l’esplorazione e più ricco di mistero della maggior parte degli open world moderni. Ma allo stesso tempo, credo che un difetto di molte recensioni sia stato quello di fermarsi all’elogio dell’open world di ER paragonandolo alla povertà dell’offerta sul mercato, piuttosto che giudicare l’open world del gioco nel merito delle possibilità realmente raggiunte. Il fatto che l’open world di ER sia meglio della maggior parte di tutti gli altri è assodato ma non dice ancora nulla sul suo valore nel gioco. Proviamo ad analizzarlo.
Sicuramente uno dei punti di forza dell’open world in generale è il senso di avventura che è facile inneschi, nel momento in cui la visione del mondo circostante proietta ambizioni, obiettivi e sfide che nascono naturalmente nella mente del giocatore alla vista di palesi punti di interesse. In questo Miyazaki è stato abile a fidarsi della predisposizione dei giocatori ad esplorare liberamente guidati da un’esperienza psicogeografica1 , senza appesantire di didascalismo l’interfaccia e senza rendere troppo espliciti i dialoghi con gli NPC che guidano verso determinati punti. Allo stesso tempo, forse, è stato meno abile di quello che avrebbe potuto.
Il senso di scoperta del mondo è sicuramente presente, ma l’esplorazione psicogeografica che sarebbe stata possibile data la vastità della mappa di gioco è minata alla base dalla scelta geografica nella collocazione delle aree. In Elden Ring ci sono 10 macroaree: Sepolcride, Caelid, Liurnia, Altopiano di Altus, Leyndell, i Campi Consacrati e il Sacro Albero di Miquella, più tre aree sotterranee. Il problema è che, a parte le tre aree sotterranee, le 7 in superficie dove si svolge la storia principale, sono giustapposte una dopo l’altra, in modo che sia impossibile arrivare da Liurnia all’Albero di Miquella, o dai Campi Consacrati a Caelid. La successione è ferrea e procede come una specie di compromesso tra open world e successione dei livelli e delle aree di Dark Souls III. Solo Sepolcride, la prima area esplorabile propone un bivio tra due aree, Caelid e Liurnia, ma Caelid è un vicolo cieco che non porta a un’area successiva. Il risultato è un open world che ha la paradossale natura di un corridoio, all’interno del quale ci sono dei bivi, ma che comunque impone una successione determinata al modo in cui si affrontano le varie aree del gioco. Per avere un contraltare, pensate invece alla struttura concentrica dell’open world di Zelda: Breath of the Wild, ampiamente citato come principale referente per l’open world di ER nella maggior parte delle recensioni. Il punto di forza dell’open world di Zelda è il fatto che la direzione verso cui procede l’avventura non è impostata in un corridoio, perché la fine del gioco non si trova alla fine di una mappa allungata (come in ER), ma al centro di una mappa che è più o meno circolare.
In Zelda fin dall’inizio puoi accedere all’area finale senza passare per tutte le altre aree di gioco, ma in Elden Ring questo è impossibile. Il senso di scala del gioco sembra quindi fine a sé stesso e non implica una libertà di esplorazione così varia come quella di Zelda. La successione dell’esplorazione delle aree sarà più o meno sempre la stessa in Elden Ring per tutti i giocatori (un’eccezione a questa progressione imposta è il prematuro arrivo a Villa Vulcano se si viene rapiti da una delle Vergini a Liurnia, ma comunque non offre uno sbocco a tutta l’area ma solo al legacy dungeon). Un altro difetto che emerge come effetto collaterale della mole della mappa sono le caverne, le catacombe e le miniere, che presto diventano estremamente ripetitive, e non fanno che rinforzare l’idea di una vastità fine a sé stessa che non veicola contenuti esplorativi rilevanti, anche considerando che il meglio dell’esplorazione, Elden Ring lo offre quando ritorna alla formula di level design impostata da Dark Souls, ovvero nei legacy dungeon.
Il motivo più lampante a sostegno della scelta di questa progressione imposta mascherata da open world è ovviamente il bilanciamento del gioco. Quando progetti un mondo così grande il cui proposito è quello di offrire grande libertà esplorativa, il problema principale è come calibrare la difficoltà in modo da non riproporre dei lock che sono solo più leggeri ma rimangono tali, e allo stesso tempo offrire un tipo di sfida ai giocatori che è connaturato alla strategia narrativa dei souls.
Un discorso diverso invece è necessario fare a proposito del level design del DLC. La mappa più compatta e più densa rappresenta un netto passo avanti rispetto a quella del gioco base. La sua densità permette infatti di poter implementare il meccanismo di interconnessione tridimensionale della mappa del primo Dark Souls, dei dungeon di DSIII e dei Legacy di ER stesso, nell’open world. Una montagna che non si può scalare vale come un “Non si apre da questo lato” all’interno di un castello. La mappa quindi guida il giocatore con i suoi lock ambientali, costringendo a una esplorazione che risulta molto più appagante di quella del gioco base, e che non necessita di premi in termini di oggetti o consumabili. Un difetto del gioco base è che a giustificazione dell’enorme mole della mappa, essa è costellata di oggetti inutili per ricompensare l’esplorazione dei giocatori, ma in modo del tutto banale e posticcio (un discorso simile a quello fatto da Wesa a proposito dei semi Korogu in Zelda). Nel DLC mi è sembrata molto meno abusata questa tattica giustificatoria. L’esplorazione assume un valore in sé stessa e la maggiore densità fa sì che essa si giustifichi nella scoperta di nuove aree di gioco. Quando alla fine di un’esplorazione il reward è un oggetto, invece, è quasi sempre una svolta importante a livello di gameplay o di lore. Il DLC è pieno di talismani potentissimi, versioni +2 o +3 di quelli del gioco base, e di incantesimi, miracoli ed NPC che danno informazioni di lore cruciali.
![All Elden Ring Shadow Of The Erdtree Map Fragment locations ... All Elden Ring Shadow Of The Erdtree Map Fragment locations ...](https://substackcdn.com/image/fetch/w_1456,c_limit,f_auto,q_auto:good,fl_progressive:steep/https%3A%2F%2Fsubstack-post-media.s3.amazonaws.com%2Fpublic%2Fimages%2F3a523b4f-0cd3-42d9-8664-40520793ba13_1920x1080.jpeg)
I lock ambientali rendono l’esplorazione estremamente organica, paradossalmente più “guidata” che nel gioco base, ma allo stesso tempo più appagante, perché molto contorta, costringendo a fare enormi giri per arrivare in un punto che possiamo vedere fin dall’inizio. Questo dà un senso di necessità all’esplorazione e rende la scoperta funzionale al completamento del gioco. Al corridoio dritto e largo del gioco Base si contrappone il contorto e multistrato. Ci sono comunque dei problemi anche nel level design del DLC, come la presenza di ampie aree praticamente vuote ed estremamente grandi, le odiose caverne e le catacombe, e la presenza di un enigma insensato dietro il quale è nascosta l’area più suggestiva e il momento più commovente di Elden Ring (quello in cui si scoprono le origini del personaggio più interessante del gioco, Marika).
Bilanciamento
Elden Ring usa probabilmente il più banale degli espedienti per mantenere l’esperienza di gioco bilanciata e offrire un livello di sfida che non sia azzoppato dalla libertà di esplorazione: la relativa linearità del corridoio open world, di cui abbiamo parlato fino ad ora. Ma, per proseguire la linea argomentativa usata fino ad ora, è utile vedere come altri giochi implementino idee di design alternative per risolvere gli stessi problemi che si presentano al progettista in ER. Come sostiene anche Mark Brown di GMTK nel suo video sul game world di Elden Ring, ci sono vari modi per tenere l’esperienza bilanciata tra sfida e libertà. Lui cita il caso di Assassin’s Creed, dove il livello dei nemici scala in base a quello del giocatore, il caso di Zelda: BotW, in cui i nemici si rafforzano ciclicamente man mano che si gioca anche nelle prime aree di gioco, il caso di Hollow Knight nel cui finale il giocatore deve tornare nella prima area di gioco, che però è cambiata ed è popolata ora da nemici più forti per offrire la sfida adatta all’endgame. Tutti i problemi del level design di ER si possono leggere come problemi derivanti da una difficoltà di bilanciamento. Il corridoione e il conseguente svuotamento dell’esperienza open world dipendono dalla necessità di imporre una progressione controllata dai designer in larga parte, che così garantisca il livello di sfida pensato dai designer di fase in fase.
Trama e Lore
Ormai, anni di run sui souls devono aver chiarito la differenza tra trama e lore. La trama è quello che di fatto accade durante il playthrough, la successione degli eventi durante la partita del giocatore. La lore è il retroterra mitico che può o no emergere durante la partita a seconda dell’attenzione del giocatore. La forza della lore è che come meccanismo narrativo, trae la sua forza proprio dall’oscurità che è connaturata alla sua frammentarietà. L’incertezza che il meccanismo di spezzettamento e ricomposizione implica è forse la cosa più interessante successa nel mondo dei videogiochi a livello narrativo, e ad essere rilevante è ormai più la forma che il contenuto della frammentarietà, che contribuisce per altro a rendere impenetrabile e ostile il mondo di gioco anche al di là della resistenza del gameplay. I mondi di Miyazaki oppongono resistenza a essere compresi e questo conferisce buona parte dell’effetto di sospensione dell’incredulità nel riconoscerli come mondi a tutti gli effetti, perché come il mondo reale non hanno interesse a essere capiti. Seguendo questa estetica dell’incertezza, la lore di Elden Ring si conferma sempre interessante negli interrogativi paradossali che suscita, primo fra tutti quello della dualità irrisolta tra Marika e Radagon.
Ma anche per la lore, un difetto emerge nel compromesso tra il modo in cui deve essere diluita in un mondo tanto vasto e la possibilità che non si perda in anfratti che è possibile il giocatore non esplorerà data la mole di cose da fare. Questo compromesso si traduce in una maggiore enfasi di molti dialoghi sui punti rilevanti che Miyazaki volesse i giocatori cogliessero. Le ripetizioni e le spiegazioni sono più discorsive rispetto agli altri souls e gli NPC sono meno reticenti. Sir Gideon Ofnir e il Papa-Tartaruga sono i più felici di aprirsi con il giocatore circa i segreti del mondo in un modo che in passato sarebbe sembrato fin troppo esplicito. La trama, d’altro canto ha altri problemi. L’obiettivo dichiarato fin dall’inizio in Elden Ring è reclamare il trono ancestrale e divenire Elden Lord. Questo è lo scopo del giocatore e del personaggio che controlla. Di fatto il finale raggiungibile nel modo più facile è proprio quello in cui si diviene Elden Lord e questo rappresenta una netta inversione di tendenza dal punto di vista filosofico rispetto ai finali anticlimatici degli altri Souls. Uno dei punti più importanti in cui Miyazaki aveva sempre innestato i toni più grotteschi e ironici per commentare le ambizioni di grandezza degli esseri umani, costante filosofica delle sue opere, erano proprio i finali, che opponevano ai sogni di grandezza spacciati durante il playthrough, la rivelazione impietosa di una realtà senza speranze. Nel veicolare questa sensazione di decadenza uno degli strumenti più efficaci di cui la narrativa si serviva era il ribaltamento dell’eroismo trionfalistico tipico dell’epica, motivo per cui si possono leggere i souls come delle grandi anti-epos. A mancare in Elden Ring è proprio questa sovversione mitica. Al contrario, nel gioco la strada è climatica verso la successione al trono.
Un discorso diverso, ancora una volta, richiede il DLC. La lore e la trama del DLC sono più dense e più facili da seguire, arricchiscono di profondità personaggi di cui sapevamo già, come la suddetta Marika, a cui è riservato il momento più intenso di scoperta narrativa, e riescono a rendere suggestivi e interessanti personaggi nuovi, come Messmer, la Madre di Dita o la gilda di seguaci di Miquella.
Per quanto riguarda la scoperta riguardo a Marika, nel DLC, dopo aver risolto un enigma davanti a una delle statue di Marika del gioco, ci troviamo in un area estremamente colorata, un prato fiorito, tenuto nascosto dalle storture del resto del mondo corrotto e decaduto del Regno delle Ombre, quasi un Eden primordiale. Sulla destra si intravede un’altura, che nasconde un piccolo villaggio. Non più di qualche capanna ormai distrutta e abbandonata: è il villaggio degli sciamani. Al centro della piana una luce dorata di cui non si capisce la provenienza e che persiste a ogni ora del giorno con la stessa intensità, colpisce un piccolo alberello, un albero madre minore, ai piedi del quale troviamo un incantesimo.
Secret incantation of Queen Marika. Only the kindness of gold, without Order. Creates a small, illusory Erdtree that continuously restores the HP of nearby allies. Marika bathed the village of her home in gold, knowing full well that there was no one to heal.
Su di una collina poco più avanti nel villaggio, davanti a una statua che apre le braccia in segno di benevolenza, infine, troviamo un talismano. Una ciocca di capelli di Marika stessa.
A braid of golden hair, cut loose. Queen Marika's offering to the Grandmother. Boosts holy damage negation by the utmost. What was her prayer? Her wish, her confession? There is no one left to answer, and Marika never returned home again.
Mentre l’esplorazione procede, e passo passo si trovano questi due oggetti in questa atmosfera crepuscolare, delle note in sottofondo scandiscono malinconicamente il sogno di un passato perduto per sempre: sono le note del menu iniziale, nonché della bossfight finale del gioco base, ma private della loro enfasi epica. Solo lo scheletro a marcare la differenza che separa i sogni di gloria di una divinità e le sue origini umili. Il modo in cui è orchestrata la scoperta di questi due oggetti ha l’impatto scenografico più potente che Miyazaki abbia mai concepito. La collateralità di questo villaggio, la sua insignificanza, il fatto che è distrutto e dimenticato e che allo stesso tempo è stato protetto da Marika, nascosto dietro un enigma folle, custodito da due Sentinelle dell’Albero inviate a guardia. In questo momento emerge tutta la sensibilità poetica di Miyazaki, capace di mostrare l’umanità di personaggi terribili senza timore di giustificarli, con quella neutralità divina che è funzione delle precisione e della complessità che forse solo nelle narrazioni riusciamo a sopportare. E nessuno saprà mai quali fossero le ragioni di Marika. Almeno su questo abbiamo una certezza: ironica, perché una certezza di perenne ambiguità.
Un altro personaggio chiave del DLC è Miquella, ovviamente. Un personaggio che da un lato riscatta la piattezza retorica tipica dell’epica del gioco base, ma dall’altra è deludente. Andiamo con ordine. Ho detto che il gioco base soffre dell’impianto lineare di un’epica trionfalistica. Il giocatore deve diventare Elden Lord, succedere al trono ancestrale, a parte due finali che sovvertono questo ordine, ma che sono ugualmente epici e gloriosi pur nella loro carica distruttiva (siamo lontani dai toni mesti e anticlimatici dei finali di DSIII e Bloodborne). Il finale del DLC riesce in parte a cambiare le carte in tavola e problematizzare il percorso regale dell’ascensione al trono del giocatore. Miquella è un personaggio positivo. Vuole creare un’era della compassione, riscattare il mondo e renderlo un posto più gentile. Per questo si spoglia della sua divinità e diventa un essere incorporeo nel Regno delle Ombre. Il suo personaggio, visto che sembra chiaro che Miyazaki abbia finito le idee, ricorda molto per intenti e pallore etereo, la ragazzina padrona di Gael in DSIII che dipinge un quadro. Descrive il mondo che sta sognando con parole simili a quelle di Miquella:
I wonder when Uncle Gael intends his return.
I hope the new painting will be to him a gentle home.
My thanks, Ashen One.
I will assuredly finish the painting.
Of a cold, dark, and very gentle place.
One day, it will make someone a goodly home.
Il punto è che il gioco ci obbliga a scontrarci con Miquella nella bossfight finale. Il gioco quindi implicitamente obbliga uno sdoppiamento nel giocatore: da un lato considera il mondo di Miquella come un’opzione migliore del mondo di Marika, dall’altro, è obbligato a frapporsi tra Miquella e la sua ambizione impedendo la nascita di un mondo migliore. Questo meccanismo rende il gioco molto meno RPG di quello che era fino a quel momento. Il Tarnished ha il destino segnato, a prescindere dalle scelte di ruolo che fa il player. Questa scelta mi ha molto colpito perché tendo ad apprezzare maggiormente la stringenza delle scelte di design quando mettono in moto meccanismi paradossali piuttosto che la libertà e l’assenza di limiti per il giocatore. L’inevitabilità del combattimento finale del DLC rimette la storia principale in prospettiva e fa emergere con forza il fatto che siamo delle pedine nelle mani di Marika e non faremo che eseguire la sua volontà. A conferma di questo, le pochissime grazie che indicano la via nel DLC (lasciate da Marika come guida), puntano tutte verso la boss fight con Miquella.
A fronte di questo cortocircuito tra narrativa e gameplay, tra obbligo di design e partecipazione morale alla storia, trovo totalmente insensata la scelta di usare Radhan come ultimo boss, non per il fatto in sé, ma perché, come spesso fa Miyazaki nei finali dei suoi giochi, introdurre un nuovo, enorme fatto di lore sulla chiusura della storia risulta totalmente alienante nei confronti della sospensione dell’incredulità. Non ha senso disseminare il gioco di così tanti indizi e dettagli e non sfruttarli a proprio vantaggio alla fine del gioco creando il senso di necessità degli eventi che conflagrano in una scelta che li ripercorre tutti. No. Miyazaki sceglie di introdurre una nuova svolta, aggiungendo altra carne al fuoco senza dare al giocatore il tempo di digerirla e come se tutto quello che viene prima non fosse abbastanza per tirare fuori un finale solido. E così Radhan è il consorte promesso di Miquella, e il tutto viene detto solo una volta, senza preparazioni, senza far sentire la gravità narrativa di quello che accade. Il risultato è posticcio e grossolano, ed è un po’ il simbolo della dualità che ho usato per commentare il gioco nel corso di questa critica.2
Un gioco divertente e con tante buone idee almeno quanto è noioso e pieno di idee sbagliate.
Guy Debord, scrive a proposito del metodo psicogeografico: “Per fare una deriva, andate in giro a piedi senza meta od orario. Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta. Un modo per agevolarlo è camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l'alto, in modo da portare al centro del campo visivo l'architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari.” (Théorie de la dérive, in Les Lèvres nues, n. 9, Bruxelles, novembre 1956)
Per approfondire il modo in cui questa esperienza viene implementata in alcuni giochi consiglio questo video:
Questa è la mia interpretazione della lore, non è detto che sia corretta, ma è il meglio che sia riuscito a tirare fuori senza vedere ore di video di spiegazioni.