Armored Core VI ha di Miyazaki il senso di fine del mondo e dei tempi, un’atmosmera melanconica di solitudine, in cui l’umano più non è. Però il suo cuore pulsante è lo scontro letale e frenetico, tecnico, preciso e denso, tipico del designer Masaru Yamamura, già conosciuto per Sekiro e per aver messo pure lo zampino in Bloodborne.
Forse quello che è riuscito meglio a questa opera è la totale immedesimazione che mi ha fatto provare, tanto che non riesco più a dire se il mio pad è differente dalla scocca di pilotaggio dell’Armored Core. Forse la sua difficoltà (non proprio ben bilanciata) è un banco di prova per la vita, e solo in videogiochi così possiamo vivere il focus totale del samurai o del guerriero durante un duello. Armored Core VI è la perfetta metafora del videogioco (per me): riuscire a farmi provare qualcosa che nella vita non avrei provato mai.
Le missioni di routine, quelle in cui dobbiamo distruggere obbiettivi o recuperare informazioni, non sono altro che banchi di prova per testare il nostro Armored Core e per potenziarlo. Il cuore del gioco è la singolar tenzone (non sempre singolar) contro i boss: cattiva, frenetica, tecnica, vivificante. C'è una sorta di onore incomunicato in questi scontri, forse un qualcosa di cavalleresco: non importerà, quindi, di chi sono al servizio, di quale fazione o corporazione, l'importante è la vittoria, la dimostrazione del mio valore in battaglia, a tu per tu con il mio avversario. Relitti rugginosi, vittime di melanconie inutili che si affrontano su un pianeta morto, ucciso dall'avidità umana e dal suo disonore. Forse riporteremo la vita, là dove si è ritirata, solo attraverso la violenza dello scontro cavalleresco.
Le fasi dello scontro in AC sono tre: studio, tattica, vittoria. Affronto il nemico, lo studio, perdo, continuo così finché non ho capito, fino a che non ho compreso il da farsi, allora metto in piedi la mia tattica, entro nell’assemblaggio e modifico il mio mech: che arma mi serve? Da mischia? A distanza? Cinetica? A energia? Setaccio i pezzi, come un collezionista il suo gunpla, monto, smonto, provo e riprovo fino a trovare la soluzione giusta. Ora posso affrontare il mio avversario, lo scontro è diventato più facile, ma questo non vuol dire che non faticherò. Sfiderò il mio avversario ancora e ancora. Mi hanno rubato il nome, ma, forse, in realtà, non l’ho mai avuto, lo ricerco nella battaglia.
Non ho un nome, ho tante sigle e pseudonimi con cui vengo chiamato, o, meglio dire, apostrofato: C4-621, G-13, Raven, Turista ecc ecc… sono, quasi, inesistente. Approdo nell'esistenza solo durante lo scontro feroce sul campo di battaglia. Sono un mercenario che si rifugia nei fiumi impetuosi dello scontro. Raven - nemmeno so se quel nome è veramente mio, se l’ho rubato a chi prima di me ha tentato la via della battaglia - mi hanno detto essere un nome sinonimo di libertà, di libero arbitrio; ma non esiste libertà su Rubicon 3, non esiste individualità. Il mio “io” è schiacciato dalle corporazioni e dalle presenze del pianeta stesso. Forse non ho una vera e propria volontà. Forse a muovermi è un istinto primordiale che mi ha imprigionato nell’atavica legge del più forte, a cui devo dimostrare di essere ancora di carne pulsante e sangue bollente, non solo di freddo metallo. L'unico momento in cui sono, in cui esisto come individuo, è lo scontro, la battaglia, la sfida, la giostra cavalleresca. Non è un caso se io stesso a un certo punto ho smesso di seguire la trama e i suoi intrighi, esattamente come al protagonista non mi interessava, volevo solo scendere sul campo e misurare la mia abilità. La ragione e il torto, la giustizia e l'ingiustizia non mi interessavano più: volevo solo dimostrare il mio valore nello scontro. Volevo dimostrare la mia vitalità nella morte.
Ho trovato la mia epica, ho metaforizzato lo scontro sferragliante tra mech, non occorreva, forse, nemmeno una trama così precisa e direzionata. Meglio il significato che ho dato io: un duello tra individualità alla ricerca dell’annullamento.
E, quindi, nella mia solitudine rinchiuso in un torace di metallo, in cui l’unico contatto con l'umano è unicamente demandato a comunicazioni via radio, echi di voci metalliche ovattate, noiose, inconcludenti, insignificanti, posso avvicinarmi all'altro solo incrociando la “spada” con il mio avversario, solo sul campo di battaglia, solo attraverso la violenza del duello. Sento il sapore dell'acciaio nella bocca, il sangue pulsa nelle vene, i miei riflessi sono quelli di una bestia. Vivo nella morte.
In un mondo in cui tutto sembra sempre sul punto di scomparire e tutto sembra essere giunto alla fine dei tempi, anche la mia stessa vita è al limitar della catastrofe, sull’orlo del baratro; al di là il gratificante nulla… o solo un'altra battaglia, solo un'altra guerra, e forse, poi, finalmente sarò libero.
Combatto per la libertà o perché combattendo mi sento libero?
Combatterò così duramente che gli stessi dei della guerra tremeranno alla mia vista, distoglieranno lo sguardo di fronte a tanta morte, sarò invisibile a chi si è sottratto alla mistica della battaglia. Piccola luce lontana, indistinguibile, esplosa al calare delle tenebre, alla fine di una stella e all'inizio dell’oscuro nulla, sarò scomparso in cerca di un altro duello: l’ultimo, quello perfetto, quello che mi donerà la morte, se avrò fortuna. Errante, nel vuoto siderale, cerco un altro scontro, mentre nel resto dell'universo imperverserà la guerra, la morte, la fine.
Ora non mi resta che l’ennesimo duello sotto il rosso tramonto di Rubicon 3, le mie gambe affondano nella cenere della guerra. Rubicon ha il colore della mia anima: rosso come il sangue, cinereo come il metallo; impossibile sottrarsi al suo richiamo: combatti!