DISCLAIMER: il seguente articolo ha carattere narrativo e soggettivo. Non ha una tesi, non vuole averla, non dimostra e non recensisce obiettivamente niente. Se poi volessimo discutere di quale comunicazione sia ineludibilmente non-narrativa e non-personale, il disclaimer diventerebbe un altro articolo. Inoltre tutti i nomi con * sono nomi di fantasia.
Sono le 11 e 30 di un cinque agosto quando il mio patrigno mi annuncia che forse non ne può più del locale di famiglia. E’ stanco, è pieno di problemi di salute suoi e di mia madre, il personale è svogliato e litigioso, la poesia – fondamentale, nel campo della piccola ristorazione – sembra svanita. “A meno che non trovi qualcuno per gestirlo”. L’ho gestito in passato, ma eravamo in disaccordo su troppe cose. Pochissime in realtà. Ma troppe comunque. Le aziende di famiglia sono un casino. “Ma non intendi mica, se voglio tornarci io, no?”
Sono le 16 45 del 27 dello stesso mese. Penso da un po' a cosa fare. Forse anche FROM Software ha pensato bene a cosa fare, e ha deciso che se avesse fatto uscire Elden Ring: Shadow of the Erdtree prima o a ridosso di Armored Core VI, avrebbe venduto quest’ultimo forse alla nonna di Miyazaki e alla fidanzata di Yamamura. Evidentemente ci tengono molto che proviamo sto benedetto AC6, e un amico mi decanta le lodi della saga degli Armored Core da qualche anno. Perché no. Proviamoci. Ho sempre una brutta sensazione iniziale, quando inserisco un gioco FROM nella console – mi viene un fastidio come se fossi consapevole del fatto che ho davanti una pregiata e copiosa fonte di piacere, circondata da un guscio resistente di frustrazione e irritazione che è stato messo lì deliberatamente. Di sicuro un gioco più narrativo e liscio – un Horizon, un Final Fantasy XVI – è più gratificante e dopaminico dell’impresa a cui mi accingo.
Ho conosciuto Peppe Carvaglio* anni addietro, facevamo entrambi giurisprudenza. Ma non siamo mai stati particolarmente in contatto. Siamo diventati amici litigando sulle filosofie della Procedura Penale, dato che ho dovuto studiarla qualche mese fa. Per conto mio gli ho trasmesso conoscenze ben meno preziose, e cioè appunto un interesse per certi giochi, tra cui Elden Ring. Ne decanta le lodi quasi trasognato, scrivendomi: “Io che sono un perfezionista ossessivo, con questo gioco sto imparando il fallimento, la ritirata, le ripartenze… mi ha educato all’imperfezione”. Curioso sentirselo dire da uno che esercita come avvocato penalista – piuttosto bravo – e che combatte ben più serie battaglie cerebrali quasi ogni giorno; infatti ridimensiono il gioco e la mia figura di iniziatico. Però non resisto dal rincarare un po': “Questi autori mi hanno insegnato a lottare per piccoli miglioramenti da fallimento a fallimento. Me ne sono innamorato. Mi hanno cambiato la vita”. E’ la verità, anche. Ma c’è un filo di snobismo: mica tu che giocavi Uncharted e Assassin’s Creed, io volevo la gratificazione quella profonda, sudata, validata dal dolore. L’educazione all’errore e all’attrito come cifre distintive della vita, io me la sorbisco pure nell’intrattenimento. Però parlando con uno come Peppe mi inizia a sembrare un discorso un po' assurdo. Le battaglie di Peppe decidono la vita di diverse persone; ha davvero bisogno di tornare a casa e sentirsi atterrito perché per lui “Lupo Rosso di Radagon” è un boss temibile? E’ anche straniante osservare come Peppe, che non vive minimamente la community attorno ai videogiochi, non trova né intuitive ne scontate certe scelte, certe strade e certe strutture. Per lui Elden Ring – uno dei giochi più “facili” creati dalla FROM – è una montagna da scalare con le lacrime agli occhi e le mani spellate. Eppure, in qualche modo, la pensa comunque come me: vale la pena investire proprio i momenti di riposo per scalare quella montagna.
Su Rubicon c’è un mistero da svelare: il Coral. Tutti lo vogliono, nessuno sa con esattezza cosa sia. Rappresenta, di certo, molte cose: il progresso con la sua minacciosa inevitabilità contro il tentativo nobile e perdente di arginarlo in favore di una fragile familiarità – classica narrativa Miyazakiana; ma anche il potenziale umano e il suo esponenziale sviluppo, il punto di non ritorno (il Rubicone, appunto), il potere assolutamente distintivo di una specie di distruggere sé stessa e tutta la vita; e infine l’altro, l’incontro con ciò che è altro da noi, che ci contamina e ci stravolge, ma a al contempo ci attira e ci seduce per quanta terrificante alterità possa travolgerci. Come sempre, il gioco è un sapiente puzzle di detti e non detti, un labirinto di domande e risposte, come avrebbe detto Corto Maltese. Si capisce, e da subito, che il gameplay è sbalorditivo, e al netto di Yamamura e di un Sekiro per il quale ha sicuramente ricevuto i complimenti di Miayzaki-san, è assolutamente e indissolubilmente centrato sulle build e sulla impressionante libertà di manovra che ti apre in mappe tridimensionali che a loro volta invitano alla creatività di approccio. Bisogna però abbattere il tutorial boss - una specie di elicottero delle dimensioni di una portaerei – per accedere a questa libertà di costruzione. Poco male: qualche decina di tentativi ed eccolo andare giù. Potrebbe sembrare cattiveria, mettere un boss così feroce a inizio gioco: ma almeno il gioco ti mostra subito le sue carte e, anzi, ti chiede di spingerti oltre per aprire le possibilità variegate che saranno il tuo diletto. E’ la vittoria sudata, la gratificazione meritata, e forse è l’illusione di cui parlava Nietzsche per cui il valore di qualcosa è una traslazione di quanto quella cosa ci è costata. Sia come sia, ce lo siamo guadagnati: eccoci nel mondo di Armored Core. Eccoci a scalare avidamente la montagna, noi sì che non fuggiamo di fronte alla pietra ruvida e scoscesa che dovremo stringere per toccare la vetta. Ma quale vetta?
Il 29 di Agosto rimetto piede al Guaracha* da direttore del personale. I ragazzi sono contenti di rivedermi, e io sono felice di rivedere loro. Non venivo, se non raramente, da due anni, dato che me ne ero andato per una lite familiare. Le aziende di famiglia sono davvero un casino. Sono in imbarazzo: ho sbraitato che prima di rimetterci piede sarei morto o impazzito. Il tempo è davvero un grande medico. Tutto è un po' peggio di come lo ricordo: i conti confusissimi, le tensioni personali alle stelle, il menù un po' statico. C’è una contraddizione interna nell’essere direttore di un’azienda: sei uno della truppa, e non lo sei. L’azienda e i suoi dipendenti non possono che avere interessi opposti, eppure se uno dei due schieramenti patisce, a stretto giro patirà l’altro. Si è travolti da richieste differenti: chi di giorni di vacanza, o di riposo, o di permessi speciali, o di impegni improvvisi; ciascuno, dal suo punto di vista, ha ragione di chiedere quanto chiede; venti teste, una classe di liceo di bambini cresciuti. Ti cercano i rappresentanti: vogliono rifilarti la qualsiasi, vini, carni, formaggi, ogni prodotto che loro vendono, garantiscono, è fondamentale perché il tuo locale sia alla moda e fornito; e se non esiste dubbio sulla loro malafede, non è detto che uno possa o debba semplicemente mandarli al diavolo – anzi. C’è la contabilità di cui tenere conto, e qualcuno è pagato per spiegartela, ma la burocrazia fiscale lavora alacremente per essere sicuro che non capirai mai una ceppa, e non sai mai se sei davvero in regola oppure no. E c’è la cucina: dopotutto ho iniziato come cuoco, quindi meglio mettere il grembiule per far vedere qualche piatto nuovo, quando c’è tempo. Assam*, il ragazzo nuovo è entusiasta, e cucina molto meglio di me a vent’anni: lo voglio incoraggiare, quindi passerei più tempo in cucina. Ogni notte si chiude la cassa: e saprai se avete vinto, o perso, una delle venticinque partite che decidono i dodici gran tornei che determinano un anno buono, o tremendo. Se il cambiamento climatico o la pandemia si impegnano, anni tremendi senz’altro. C’è intesa con Assam, ma anche imbarazzo: lo avevo assunto io due anni fa, un mese prima di andarmene sbattendo la porta. Credo che sotto sotto mi reputi un coglione. Però avevo ragione ad assumerlo: in due anni si è dimostrato un asso.
Tocca dare ragione ad Hegel, per quanto per stile di pensiero è l’ultima cosa che vorrei fare: il padrone e il lavorante, nulla sono l’uno senza l’altro. Se avessi avuto il tempo di leggere Guerra e Pace, avrei saputo che Tolstoj descrive il generale Kutuzov come un grande generale – giacché invece di inseguire il mito dello stratega geniale e decisivo, si limita a seguire il flusso delle cose, e a dare l’idea che per quanto si venga sconfitti qui o lì o ci si ritiri o si vada in rotta, va tutto bene. Kutuzov non decide nulla, e forse lo sa (forse no, dato che ha un ritardo neurologico a seguito di una lesione cerebrale): ma trasmette sicurezza, e secondo Tolstoj data la mole immensa di dati, informazioni, incidenti, esigenze, decisioni, pretese, fatti bruti che compongo una guerra nel loro insieme, trasmettere sicurezza è tutto ciò che un generale sensato deve fare. Ironico che un uomo così abbia sconfitto l’egomane geniale per eccellenza, Napoleone Bonaparte. Non capita un giorno, al Guaracha, che non pensi a Kutuzov almeno una volta. Sì, davvero si viene investiti da una quantità irrefrenabile di dati. Sembra un assalto inesauribile, continuo. Non so se esiste un lavoro meno stressante, suppongo che siano tutti stressanti in modo diverso: quindi inutile sognare fughe salvifiche. La fatica mi verrebbe a stanare fino a Mosca, credo. Tanto vale combattere. O non combattere, direbbe Kutuzov. La metafora mi sfugge spesso di mano.
“Non hai idea della soddisfazione. Quella Belva Mannara-” ma mi sovrappongo a Peppe, correggendolo: “Belva Umana, Umana” e lui prosegue soddisfatto: “la Belva Umana di Farun Azzurra” e di nuovo io “Farum Azula” ma lui deve condividere la scarica di adrenalina: “è crepata, cazzo. Questo videogioco è un’esperienza come non ne ho mai fatte! La soddisfazione è completamente diversa!” Fortunatamente è un audio su whatsapp, e non mi sente mentre con tono professorale lo correggo puntigliosamente dall’alto della mia ceppa di un bel niente. “Te l’ho detto, la scuola di design di FROM è maestra di vita”. Maestra di vita, sì. Un po come io sono maestro di stronzate. Ma ancora mi stai a sentire?
E’ il 3 settembre. Capita spesso che vado su in appartamento mentre sotto casa il Guaracha sta sfornando Hugo Spritz e Mezcal Mary a tutto spiano, magari qualche Tarte Tatin salata e qualche inossidabile Maccheroncino alla Norma. Tutto regolare: è l’inizio della cena, mi fido dei ragazzi, li mollo per qualche ora. Tutto andrà liscio, credo, e se non andrà ne parleremo con calma poi. Nell’appartamento c’è silenzio, o al massimo il gatto che chiede la cena. Doccia, il caldo siciliano si lava via. E’ il mio momento. Sono su Rubicon. A sudarmi la mia gratificazione. “Le opzioni di build del tuo mecha si aprono a ventaglio, dopo Balteus”, mi hanno detto; nonché “La storia entra nel vivo e si fa appassionante il doppio dopo Balteus”. Con la coda dell’occhio ho visto un articolo: “Balteus Is The First Skill Check”. Bè, vediamo un po' di che si tratta.
“E questo cosa cazzo significa?”
Un assalto inesauribile, continuo, di dati di cui tenere conto - e tenerne conto è impossibile. Missili in tutte le direzioni. Sembra un fuoco d’artificio di siluri che, comunque, a mezz’aria si accorgono che esisto e convergono su di me come un fottuto fiume di metallo e fuoco. Non capisco letteralmente un accidente di cosa diavolo stia succedendo. Ma so una cosa: dietro al muro di missili in movimento c’è il mecha avversario, un modello P.C.A. chiamato Balteus. Ed ha attorno una barriera di energia. Senza abbattere quella, non lo danneggerò. In qualche modo devo accettare di prendere almeno parte dei missili in faccia, prima che convergano tutti. Ok. Scudo distrutto. Ha una specie di fucile che mi one-shotta, scopro. Rifare. Tuffarsi verso i missili, danni incassati, rompere lo scudo. One-shot. Fanculo. Rifare. Ti schivo quel dannato fucile. Scudo distrutto. C’è la dolce voce di una ragazza (?), Ayre, che mi guida. Conosco FROM e la sua ossessione quasi dantesca per la Beatrice che conduce alla salvezza – archetipo che viene continuamente stravolto e pervertito, ma mai abbandonato da Miyazaki&co – dunque sento che la storia entrerà nel vivo, con l’entrata in scena di Ayre, voglio che muoia questo bastardo, voglio andare avanti. E quando va giù lo scudo sento Ayre incoraggiarmi: siamo sul piede giusto! Come no: se perdi troppo tempo, lo scudo si riforma. One-shot. Rifare. Missili in faccia, sono da te, fucilata, mi hai mancato, giù lo scudo, missili, risorse si assottigliano. Troppi dati da considerare, tanto vale buttarsi. Sei in crisi, o stagger, o come minchia si chiama in questo gioco, ora ti macino. Anzi no: si riforma lo scudo, stavolta con uno scoppio di energia che mi manda nel mondo dei più. Rifare. Missili in faccia, sono da te, one-shot anzi no, giù lo scudo, missili ancora, il tuo fucile non prende nemmeno un raffreddore, stronzo. Crisi, scoppio di energia, lo sai che ho una roba simile anche io? Scoppio anche io, mezzo scudo è fuori, ah ma hai cambiato moveset? Due lanciafiamme che usa come spade. Sono più cotto e croccante della Cotoletta Stile Kentucky che qualcuno sta mangiando due piani più sotto al Guaracha. Fanno male, questi lanciafiamme? Ma vorrà dire che è passato ad una modalità corpo-a-corpo. Anzi no: missili a raggiera, ancora, e fucilate, e ora spara anche una fiammata che avvolge mezzo schermo. Basta pensarci su: tuffo in avanti, prendi danni, schivi fucilata, salti per evitare il fuoco. Sono un po' alte, queste fiamme. Manca il giusto seasoning di timo e paprika e pepe bianco e farei la felicità di una cucina dell’Alabama per quanto mi ha cucinato questo fottuto robottone che vorrei dire che ha un design orrendo che neanche i Trasformers nei miei natali da fanciullo degli anni ‘80, invece è fighissimo e mi secca ammetterlo. Cambio build diverse volte: lo so, ho capito la struttura del gioco. C’è una build, o più d’una, che lo fanno nero. Ma quali?
“Chi è lo stronzo che ha progettato questo boss demmerda!” Urlo “Questo è oggettivamente, dico oggettivamente, brutto design!” So che non è vero, ma sono troppo snervato. Andata giù la barriera tre volte, sopravvivendo allo scoppio, doveva diventare più facile. Fanculo. “Voglio sapere chi è, chi è lo stronzo, Yamamura!” Maestri di vita, seh.
“Come, te ne vai?” “In Germania, con mia moglie” mi dice Arif*. Del gruppo di ragazzi egiziani che è venuto a lavorare da noi, è stato il più problematico – il più orgoglioso, riottoso, s’incazza per un nonnulla – ma dopotutto tutto il suo gruppo di amici era con noi, si è sforzato di ambientarsi. In cinque anni è cresciuto, è diventato un punto di riferimento per i suoi amici, un personaggio affascinante per i clienti, un discreto conoscitore di vini. E’ sempre incazzoso, ma ormai lo considero una garanzia. Lo consideravo. “Sei sicuro?” “Sì, mi dispiace”. “Anche a me, sono appena tornato. Ma ok. Ci organizziamo. Quanto?” “Un mese”. Ci abbracciamo. Arif era davvero rappresentabile con la nota metafora di un dito in un certo orifizio, eppure mancherà a tutti. E sento che invecchio: questi ragazzi vengono qui con storie terribili, crescono nell’azienda – a volte per merito, a volte nonostante essa – e la loro vita va avanti, vanno via. In tredici anni un sacco di gente è andata via. “Però ti preparo lo knafeh”. “Tu lo fai buonissimo”. Che bugiardo: il mio knafeh fa pena rispetto a quello di sua moglie. Aspetta, realizzo nel momento nostalgico: siamo a ottobre, stiamo scoppiando di clienti. Ora mi manca un vice-caposala. Tutto improvvisamente è più difficile quando doveva diventare più facile.
“Erano le armi ad energia, stronzoide, quelle ti fanno male!” urlo allo schermo soddisfatto. Non ho ancora fatto fuori Balteus, no. Ma vedo che ci avviciniamo. Andrai giù, ripeto ridendo, andrai giù presto. E infatti il giorno dopo torno, tranquillo che torno. Colloquio con una nuova lavapiatti. “Hai la DID online?” chiedo in inglese, perché Rachel* è nigeriana. Non sa di che parlo. Non la ha. Trovo ingiusto non assumerla per un dettaglio burocratico però, quindi mi assicurerò con la Consulente Legale che non si possa fare senza (non si può, mi spiega, ma si scoprirà una settimana dopo che è falso) e inizierò una lunga pratica tra sindacati e CAF che, stimo, durerà una settimana. Sono un po' nervoso. Chiedo alla mia caposala Sandra* se posso salire un’oretta su e se prima mi fa un caffè; “tranquillo qui è tutto ok, ci vediamo dopo, il caffè non te lo faccio, sei già a cinque”. Non è vero, sono quattro, mi spazientisco, ma salgo; “Ah, e hai in mente chi sostituirebbe Arif?” “Mica facile” risponde lei, e io: “se sai di qualcuno fammi sapere”. Che nervi. E’ in casa un certo Balteus? Sì, è in casa. Salta in aria investendomi con una specie di scarica di pura soddisfazione. “Sei morto, bello mio! Bello che morto!” Esultanza solitaria.
C’è un sacco di roba in Armored Core VI dopo Balteus. Moltissime build davvero divertenti, con molte opzioni anche di mecha fashion. Un mondo e una atmosfera come sempre minimali ma avvincenti ed esteticamente riconoscibili. Personaggi con poche frasi e senza volto, ma un po' di cuore. Ancora qualche combattimento un po' irritante: il mecha Serie Iblis, o il boss finale del vero finale. Tutto davvero divertente, infiniti approcci, build approfondite. Ma niente mi ha dato il senso di montagna inaffrontabile di Balteus, quell’iniziale sensazione di impossibilità. Mi manca un po'. Vecchio Balty. Poco da fare comunque: anche a rifarlo, ora lo disintegro ad occhi chiusi. Quel momento è passato. Quel Balteus non esiste più. Quel momento di estasi in cui tocchi l’illusione di una vetta generata dall’illusione di una montagna, e senti che hai combattuto, e vinto. Lo sai che la montagna non esiste, ma in quel momento te ne scordi.
Perché mi manchi così, vecchio Balty? Perché nelle ore di respiro ti cerco, cerco la sensazione di schiacciante inferiorità che mi davi? Eppure, l’attrito nella vita non mi manca, ne voglio altro? Ma il trucco funziona solo una volta. La montagna è così soddisfacente perché scopri che puoi scalarla, puoi perché è delimitata, e lo è perché è finta. Un Everest di cartapesta. Quando ti ricordi che è solo un oggetto di scena, l’hai consumato. Un po' come il mistero del Coral e di Rubicon: la domanda ti apre la mente, non tanto la risposta. L’attrito vero è infinito, è la freccia del tempo verso l’entropia, verso la morte. Nel gioco, l’attrito è l’anticamera di una risposta, di una conclusione, di una soluzione. Una freccia del tempo verso l’ordine e la definizione. Il gioco finisce prima che sia finito tu. L’attrito vero no.
Non si trova chi sostituisca Arif. E in tre consulenti non si mettono d’accordo su quanto gli toccherebbe di TFR. Un Arif del passato si sarebbe incazzato come una bestia, è davvero cresciuto. Più calmo e gentile lo è per forza, se ha detto che il mio knafeh gli piaceva. “Che faccio, rimando le mie ferie intanto?” ipotizza Sandra. “Tanto non fai mai una sega, perciò sì” le rispondo; “signorsì” e io: “Ma fottiti”. Ridiamo. Ci conosciamo da dieci anni, abbiamo iniziato quasi insieme Sandra ed io.
Messaggio di Peppe sul cellulare. “Ma questo Margot, o Margit, è possibile batterlo?”E che cazzo, Peppe, sei a quaranta ore di gioco o cosa, ma che personaggio ti sei buildato? Ma lo saprà, l’avvocato Carvaglio, che vuol dire “buildato”? Ma in realtà ti invidio. Tu la vedi ancora la montagna. Io le ho finite. Chi mi da la mia dose di montagne ora?
“Io divento matto. Ma quando esce Shadow of the Erdtree?” sbotto guardando lo schermo.
“Ma che cazzo dici?” chiede Sandra.