Nella sera del 28 febbraio, sul canale Twitch di Sabaku No Maiku si è giocata la parte conclusiva del DLC di The Witcher 3, Hearts of Stone.
Seguiranno lievi spoiler sulla storia del contenuto.
Il contesto è il seguente: Hearts of Stone è una sorta di leggenda cupa da Le mille e una notte, dalle forti vibes da folklore mediorientale. Geralt viene portato in un mondo onirico dalle tinte horror e un’entità gli pone un indovinello, dicendogli di trovare in quel mondo ciò che rappresenta la soluzione. Sabaku, esplorando approfonditamente l’area anche nelle sue vie secondarie (poste lì dai designer proprio per far perdere tempo e far entrare nel panico il giocatore in una fase con countdown), ha impiegato diversi tentativi prima di trovare l’interazione giusta per concludere la quest. Al termine ha voluto parlare con la sua community di alcuni aspetti di game design che, pur non intaccando la qualità complessiva dell’opera o del DLC, riteneva di dover criticare sul piano del game design, ovvero il fatto che fossero presenti elementi di design finalizzati a creare difficoltà artificiali rispetto al nucleo della sezione di gioco.
Non è mio interesse discutere qua del merito delle critiche, Hearts of Stone è un DLC che da solo, acquistato al prezzo di un gioco completo, avrebbe comunque eclissato la quasi totalità dei videogiochi fantasy RPG sulla piazza (anche a Sabaku è piaciuto moltissimo): la cosa davvero interessante è che, a un certo punto, in chat è emerso un “andiamo avanti, basta tecnicismi”. Sabaku ha osservato: “Se ‘basta tecnicismi’, fine del mio canale e del mio lavoro”.
Chiunque abbia parlato di videogiochi sul web, dai tempi dei forum fino a oggi, sa che alcuni titoli “godono” di una fanbase particolarmente devota (che rappresenta spesso il più grande ostacolo nell’avvicinarsi all’IP), un folto gruppo di persone che, essendosi emotivamente legate al videogioco di turno, hanno come riflesso condizionato la difesa della bandiera di fronte a qualsiasi reazione meno entusiasta della totale adorazione. Sabaku sta elogiando da settimane The Witcher 3 con parole riservabili a ben pochi titoli sul mercato, eppure neanche questo è sufficiente per evitare di sollevare vespai al minimo appunto.
Va notato che, molto spesso, questa “allergia alla critica” si manifesta in particolare per titoli con notevoli meriti. Pochi si scompongono sentendo elencare gli innumerevoli problemi di videogiochi come Lords of the Fallen o Forspoken, al contrario è molto complesso criticare The Witcher 3, Dark Souls, The Last of Us o Metal Gear Solid senza essere sommersi da gente costretta a convincersi che siamo noi a non aver capito, non il gioco ad avere un limite (sia mai). A volte, specialmente nel periodo successivo all’uscita, la reazione tende a coprire anche gli altri videogiochi dello stesso produttore: siccome Dark Souls è un gioco splendido, c’è da sudare le sette camicie prima di vedere (o meglio, di ammettere) quanto limitato sia Dark Souls 2 e quanto il team di sviluppo non abbia esattamente capito che cosa ha portato il primo al successo; siccome Skyrim offriva un’esperienza profondamente immersiva, si fatica a dire che Starfield non eccelle quanto ci si potrebbe aspettare da Bethesda. Questo accade per via di speranze riposte in un brand che, fino a quel momento, ci ha dato molto: trovarsi di fronte a qualcosa che non è all’altezza ci mette in imbarazzo, ma quell’imbarazzo dovrebbe essere accolto per evitare di sperare invano in futuro.
Parte del fenomeno deriva anche dalla necessità di estremizzare: un gioco o è orribile o è un capolavoro, le vie di mezzo sono faticose. Il resto arriva dal bias di conferma (ho amato questo gioco quindi è bellissimo) e da un certo senso di appartenenza tribale (faccio parte degli intenditori che hanno giocato questo titolo, guarda quanti siamo, ti sfido quindi a dire che non è perfetto). Tutto va a discapito dell’imparare e abituarsi a individuare problemi, poter sperare in titoli successivi migliori e anche capire meglio cosa ci piace e cosa no, evitando di buttare soldi sulla base del nome di un brand.
Chi parla di un determinato settore al di sopra della chiacchiera da bar , però, non può prescindere dai tecnicismi. Allo stesso modo chi segue contenuti divulgativi o di critica non solo deve aspettarseli, ma si presume sia lì per cercarli. Se così non è, allora si sta solo cercando una voce autorevole che confermi quanto facciamo bene ad amare un certo gioco. Lasciate che faccia la mia piccola parte per aiutare chi si trova in questa situazione: non serve nessuna voce autorevole per amare un gioco e non serve essere pirla per detestarne un altro. Spiegate le ali e lasciate che vi piaccia quel che vi piace. Una volta fatto pace con questo, sarete anche molto più in grado di sentir dire le cose peggiori in proposito senza scomporvi. I tecnicismi e il game design in senso lato sono ciò che rende un gioco quello che è. Senza persone a curarsi così tanto di quei tecnicismi, The Witcher 3 non sarebbe stato così dettagliato, non sarebbe stato così curato, non sarebbe stato così “vivo”. I giochi non vengono fuori belli quando si evita il tecnicismo ma quando lo si conosce e lo si applica. Per valutarli con un po’ di criterio, quindi, si deve parlare di tecnicismi.
Analisi critica e competenza, quando evidenziano quello che non funziona guastano la festa al fan e anche per questo ben venga l’averne sempre di più. L’unico soggetto che trae beneficio dalla fidelizzazione oltre la critica è il venditore. Dire “basta tecnicismi” è in primo luogo una bugia (tecnicismi atti a evidenziare pregi del gioco amato vengono sempre elogiati) e in secondo luogo una goffa difesa d’ufficio: significa “non infastidirmi con analisi che mi mostrano perché il gioco che amo non è perfetto”, significa essere dei testimonial non pagati, condizione ben più discutibile e degna di riflessione anche rispetto a quella in cui si trovano molti critici di oggi.
p.s.- Mike, tu che hai i numeri abitua per bene alle bacchettate su queste cose, che qua serve educazione 👺