“Canon”, coerenza e retcon nelle serie
Libertà autoriale e cambiamenti in corsa, l'autore ha sempre ragione?
Quando si parla del valore di un’opera c’è un tema che non perde mai smalto nei dibattiti tra i fan di molti diversi franchise, sempre impegnati a remare a favore o contro un prodotto: quand’è che un’opera è “canon”/“canonica”, cioè, quando gli eventi che si verificano nel corso della sua storia sono da considerarsi “ufficialmente” parte della storyline della saga in esame? Questa domanda, tuttavia, resiste solo perché si è radicato un equivoco sul concetto di base.
La risposta all’interrogativo, di per sé, è molto semplice: un’opera è canonica quando il detentore del diritto di pubblicazione dice che lo è. Il canone è dettato da chi detiene quei diritti, pertanto un sequel non previsto, scritto da un altro autore, che uscisse fra 20 anni proseguendo la storia di un videogioco di oggi sarebbe canon tanto quanto il primo capitolo. Non esiste soggettività, non esiste discussione: ciò che fa parte di un franchise è deciso su carta da chi può disporne legalmente.
Quindi dobbiamo accettare come parte di una serie tutto ciò che ne porta il marchio commerciale? Sì. Ma dobbiamo farlo acriticamente? Ovviamente no. Il punto è che la questione “canonico o non canonico” è di carattere prettamente editoriale e legale, non ha nulla a che vedere con il contenuto e la qualità delle opere in questione. Quanto un’opera sia canonica è un fatto extradiegetico e non ha quindi senso usarlo come parametro quando si parla di questioni del tutto diegetiche, come gli sviluppi della trama o la crescita dei personaggi.
Partiamo dal principio: un’opera nasce quando un autore ha qualcosa da dire e vuole dargli forma. Una volta che ha definito ciò che vuole comunicare all’utenza finale, seleziona il materiale che sarà effettivamente parte del suo lavoro, scarta altro, eventualmente taglia il superfluo e rifinisce il tutto. A quel punto, quando ritiene la propria opera conclusa, questa viene pubblicata e tale opera rimarà per sempre com’è. Attenzione: non significa che l’autore non abbia tutto il diritto di cambiare idea su qualsiasi cosa e di riscrivere la propria opera in un secondo momento, anzi, sarebbe demenziale esigerlo. L’opera pubblicata, tuttavia, non cambierà mai più: se l’autore ne scriverà un’altra versione, sarà un’altra opera e ne se parlerà separatamente. Se anche Tolkien in persona tornasse in vita e riscrivesse “Il Signore degli Anelli” con eventi e personaggi completamente diversi, dicendoci che quella è la sua opera finale e coronamento della sua carriera, non potrebbe mai esigere che, nell’analizzare “Il Signore degli Anelli” del 1955, noi ci si attenga a quanto narrato nella nuova opera.
Dato che viviamo nel mondo reale, però, dobbiamo ricordare che esiste anche un’altra possibilità di “genesi” per un’opera, quella più comune in ambito editoriale e industriale, cioè quella della scrittura “passo dopo passo”, quella in cui si aggiungono porzioni di trama finché l’azienda ritiene di pubblicare e incassare. Sono pochissimi gli autori che possono permettersi di lavorare a una storia intera prima della pubblicazione dei suoi primi capitoli. Non è “colpa” di chi la scrive: a causa delle logiche di mercato (che non sono il male del mondo ma ciò che ci consente di godere di quelle storie), l’autore si trova molto spesso a dover rimaneggiare vecchio materiale per sviluppare nuove idee da materiale vecchio.
Nessuno è immune a questo problema: anche un acclamato game designer e director come Hideo Kojima ha dovuto gestire la cosa, scrivendo la trama dei suoi “Metal Gear Solid”. È noto che ogni gioco avrebbe dovuto essere l’ultimo della saga e che si sono aggiunti via via altri capitoli. Questi sono “scadenti”? Niente affatto, anzi. Questi capitoli sono tutti “perfettamente coerenti” con i precedenti? No: Kojima non pensava di dover usare ancora certe idee, quindi queste hanno dovuto essere riadattate e stiracchiate affinché diventassero basi per i nuovi sviluppi. Alcune volte è andata bene, altre meno. Occasionalmente, questo ha dato vita a delle vere e proprie retcon, cioè cambiamenti che un’opera attua sui propri capitoli precedenti e che devono essere “prese per buone”. Anche le retcon sono qualcosa che dipende fortemente dalla capacità dello scrittore di farvi ricorso: ce ne sono di sopportabili, che non intaccano elementi centrali della storia oppure che ne offrono un’altra versione, compatibile con il resto della narrazione, e ci sono invece quelle che rendono il racconto non più credibile, che demoliscono punti fermi senza i quali la storia non avrebbe mai potuto svolgersi come si è svolta. Rimaniamo su Tolkien e pensiamo a un sequel che, con una retcon, negasse che l’Anello ha il potere di corrompere chi lo porta: non è possibile e non è “accettabile”, perché se così fosse “Il Signore degli Anelli” non sarebbe mai andato com’è andato.
Quindi, coerenza e canonicità sono due cose diverse. Una fan fiction ben scritta può essere del tutto coerente con l’opera alla quale si ispira, ma non è canonica. Allo stesso modo, un’opera canonica potrebbe essere mal scritta, risultare incoerente con le altre opere della stessa serie anche più della fan fiction, nondimeno rimarrà canonica mentre quella dell’appassionato non lo sarà mai (a meno di non vedersi riconoscere come tale dai detentori dei diritti). “Ma come si fa a parlare di un universo narrativo se le sue parti sono in conflitto e si contraddicono a vicenda”? In casi simili bisogna farsi una ragione dell’essere di fronte a una saga mal scritta. La narrativa non è la realtà, ogni scrittore è fallibile, non sempre “tutto quadra” e se non quadra, beh, è andata male, pazienza.
Sembrerà forse presunzione affermare che un autore possa non avere sempre l’ultima parola nel merito di ciò che ha scritto, tuttavia non c’è proprio niente di strano. Sono caduti in questa trappola anche autori di opere pop famosissime, giustamente celebrate e che saranno ricordate per sempre. Un esempio proveniente dal mondo dei manga è “Hokuto No Ken” (“Ken il Guerriero”). Il suo prequel, uscito molti anni dopo, si basa su presupposti così diversi che le due opere non possono coesistere nello stesso universo narrativo (anche se ci sono fan pronti a giurare che non sia così, al lavoro da anni per incastrare il tutto). Questo deriva dal fatto che, nel frattempo, era trascorso molto tempo: un autore di successo non passa le giornate a rinfrescarsi la memoria come invece fanno quegli appassionati che ne parlano così regolarmente e così a lungo da diventarne esperti cultori, spesso a livelli che sfiorano il patologico.
Il dilemma è senza uscita: sono rarissimi i casi in cui anche una singola storia viene ordita nella sua completezza fin dalle prime battute e, a dire il vero, nessuno può fisicamente scrivere una storia “tutta insieme”, inizierà da una parte e finirà da un’altra, anche se svolgesse l’intero lavoro in un’ora potrebbe trovarsi a inciampare su ciò che ha scritto 10 minuti prima. Quindi, che cosa deve interessare a noi appassionati, utenti finali di un’opera? Dovremmo giudicare irrilevante tutto ciò che non era compreso nella prima opera perché “ripensato”? Dovremmo ignorare le incoerenze di una storia solo in virtù del fatto che sia canonica? Dipende da che cosa si sta analizzando.
Se ci interessa l’evoluzione di quell’autore sul piano professionale o filosofico, la coerenza dell’opera è secondaria rispetto al contenuto dei diversi lavori. Se parliamo degli eventi “interni” alla trama e all’universo narrativo, è la canonicità a non interessarci poiché eventi fra loro in contrasto non possono coesistere. Se invece stiamo esaminando il contenuto di un’opera pensata per essere autoconclusiva, non ci interesserà molto dei sequel e dei prequel né sul piano della canonicità né su quello della coerenza, perché l’autore scrivendo quell’opera ha inteso dare e dire tutto ciò che voleva in quella singola istanza e il resto sarà, nel migliore dei casi, inutile.
Consapevoli di ciò, una sola cosa può (e dovrebbe) essere richiesta agli scrittori e cioè il rispetto del patto narrativo: siamo pronti, in quanto appassionati di racconti fantastici, a capire le regole del gioco accettando sbavature e retcon dove non eccessive. Allo stesso modo, però, le storture vanno riconosciute: l’autore che si rende conto delle proprie modifiche ne guadagna in esperienza, l’appassionato che accetta serenamente di amare opere imperfette ne guadagna in lucidità e in autonomia di pensiero.
Va però ricordata un’ultima cosa, cioè che l’autore rimane un autore e il fruitore delle sue opere rimane un fruitore: lasciamo liberi gli autori di essere autori e gli artisti di essere artisti. Costringere una mente a lavorare nella direzione che desideriamo anziché in quella che sente propria non farà che frustrare quella mente e dare a noi prodotti non soddisfacenti. Insistendo in modo miope e infantile, non faremo altro che rappresentare la parte negativa di quelle “logiche di mercato” che spesso amiamo accusare. Impariamo a premiare il coraggio di offrire qualcosa di diverso, un rischio enorme per uno scrittore che lavora nel mercato di oggi, e sarà sempre più probabile che quel “qualcosa” sia denso di significato e quindi degno della nostra attenzione.