Ci sono alcuni videogiochi che riescono a lasciare il segno grazie ad una novelty particolarmente incisiva nel loro gameplay. Penso per esempio alla scalata libera in “Zelda: Breath of the Wild” oppure al sistema di posture in “Sekiro: Shadows Die Twice”.
In tempi recenti Darkest Dungeon (DD) è riuscito, pur dopo un primo rimbalzo, a ritagliarsi un posto tutto suo nel mio cuoricino videoludico. Ricordo che lo cominciai e droppai dopo poche ore. Troppo tosto, troppo ingiusto, troppo sbilanciato. Mi rimase però il pallino dell’occasione mancata, la sensazione che in qualche modo mi stessi perdendo qualcosa dietro una collina solo molto ripida. Forse era necessario uno sforzo di comprensione delle regole per poter godere di qualcosa di affine alle mie corde.
Così, fu amore a seconda vista. Del resto, non sono forse gli innamoramenti che si svelano col tempo ad essere quelli più preziosi?
DOVE ERAVAMO RIMASTI
Il primo titolo dello studio canadese Red Hook, datato 2016, propose un particolare take nel genere degli strategici a turni. Non solo la componente roguelike/lite (tornata prepotentemente alla ribalta nell’ultimo lustro), soprattutto l’introduzione della meccanica dello “stress mentale” dei personaggi - da dover gestire in parallelo alla classica barra della vita - rendeva speciale l’esperimento ludico confezionato da DD. Il suo funzionamento è presto detto, per chi non lo conoscesse. Durante le varie run i protagonisti del party reagiscono agli eventi di gioco trovandosi costantemente alle prese con la propria stabilità mentale. Superata una certa soglia, la meccanica risplende nel suo vero potenziale con lo “stress check”; l’eroe può reagire in maniera negativa (avvilendosi o impazzendo per esempio) oppure positiva (diventando coraggioso o determinato, tra gli altri status), andando a influire pesantemente sullo stato d’animo dei propri compagni. Se da una parte quest’ultima possibilità regala momenti di puro gasamento, con il personaggio che contro ogni pronostico diventa leader trascinatore del party, la reazione negativa può portare invece ad una situazione talmente ingestibile da limitare il comando che il giocatore ha del personaggio afflitto, il quale può non obbedire agli ordini impartiti via controller fino ad auto-infliggersi dei danni in preda alla pazzia. In casi estremi poi, laddove lo stress si accumuli ben oltre la soglia dello stress check, il personaggio subisce un attacco di cuore che lo porta immediatamente in bilico tra la vita e la morte, nonostante potesse trovarsi fino ad un attimo prima con la barra della vita piena.
Ho sempre trovato brillante la dinamica dello stress management per diversi motivi: non è solo flavour ma ha un forte impatto nel modo di giocare, restituisce degli avatar che reagiscono a ciò che succede intorno a loro e introduce un ulteriore strato di aleatorietà da dover padroneggiare per poter avere successo nella campagna.
Questo il core di DD, un titolo che mostrava però degli spigoli in grado di oscurare l’esperienza di gioco, se non negarla del tutto. Innanzitutto il gameplay è drastico nel suo essere punitivo, portando alla perdita definitiva di personaggi caduti in battaglia (magari dopo un sudato progresso), pronti per essere rimpiazzati da carne fresca sottolivellata. Ci sono altri videogiochi che hanno giocato con una punitività molto forte (penso a “Below”) venendo schiacciati dallo sbilanciamento di una sfida eccessiva, tanto da portare facilmente al drop tout-court. In secondo luogo, per quanto in DD fosse presente una progressione orizzontale in grado di far provare al giocatore la sensazione di star progredendo costantemente (le strutture dell’hub cittadino e le abilità degli eroi possono essere migliorate col tempo), questa era zavorrata da un grinding eccessivo. L’accumulo delle risorse necessarie per l’unlock delle diverse componenti dell’hub risultava davvero troppo lento.
Luci ed ombre quindi per la prima uscita di Red Hook. Per quel che concerne il sottoscritto, però, l’intensità degli aspetti positivi fu più che sufficiente per adombrare le perplessità sui lati negativi.
E’ di questi giorni l’uscita in early access in esclusiva su Epic Games Store (particolare che ha indispettito molti utenti PC) di Darkest Dungeon II. Purtroppo, essendo un console peasant, provvisto solo di un antiquato MacBook sul quale non riesce manco a girare Omori (Omori piddì), mi trovo costretto a ragionare su DDII vivisezionando run streammate su Twitch con la pretesa di poter comunque fornire delle valutazioni sensate, principalmente a causa della tipologia del gioco. In quanto RPG a turni credo infatti che buona parte degli aspetti possano anche essere valutati senza l’obbligatorietà della prova pad alla mano (discorso che sarebbe ovviamente diverso in caso di un titolo action per esempio).
Vediamo, quindi, che strada Red Hook ha deciso di intraprendere, nella sua personale dilogia sulla stabilità mentale applicata al gameplay.
TUTTI PER UNO, UNO PER TUTTI
Appena annunciato Darkest Dungeon II la prima cosa che ho pensato è stata come lo studio canadese avesse deciso di lavorare sullo stress system. Lo avrebbero lasciato intonso lavorando invece sul resto? Avrebbero aggiunto altri parametri da valutare OLTRE a quello e alla vita del personaggio? Lo avrebbero stravolto completamente?
Sono felice di poter rispondere con una via di mezzo tra la seconda e la terza opzione, sicuramente la strada più stimolante, prima di tutto per non rendere DDII un more of the same del primo capitolo. Red Hook non è rimasta a cullarsi nel dolce tepore della propria comfort zone ma ha voluto scombussolare gli schemi proponendo un sistema misto, in cui lo stress mentale diventa causa e effetto della nuova meccanica qui proposta: lo sviluppo del legame tra i personaggi del party. In una situazione di generale calma e tranquillità i piggì parleranno tra di loro generando sinergie positive, mentre con instabilità crescente si verificheranno episodi di frustrazione e accuse reciproche. In DDII, inoltre, lo stress check non è più il momento culmine in cui mettere alla prova la pasta di cui è fatto un avatar, bensì uno step che conduce inevitabilmente ad un meltdown. La conseguenza è solo negativa, col personaggio che non solo perde una fetta sostanziale di vita, ma che vede peggiorare drasticamente i rapporti con i propri compadres.
Il nuovo sistema di sinergie si basa dunque sulla maturazione delle relazioni tra i personaggi del party, grazie anche ad oggetti donati oppure ad azioni specifiche durante il combattimento, che possono essere più o meno gradite agli altri membri del gruppo. Un esempio. Se con il soldato decidiamo di compiere un’azione di protezione nei confronti di un altro membro del party, questo potrebbe ringraziarci permettendo di migliorare i rapporti tra i due. Per contro, potremmo uccidere un nemico precedentemente targettato da un altro socio del gruppo, il quale ci accuserà di avergli rubato la kill.
Come succedeva in DD con il sopra descritto “stress check”, anche in DDII si arriva ad un climax simile, nel quale si rivela tutta la potenza della meccanica. Succede così che la relazione tra due personaggi, se diventata particolarmente positiva o negativa, possa triggerare uno status condiviso (di amore o odio, di rispetto o sospetto) in grado di perturbare a valanga il gameplay, grazie ad azioni intraprese autonomamente dai personaggi coinvolti. Se una dottoressa della peste e un crociato finiscono per innamorarsi potrebbero curarsi l’un l’altra in mezzo ai turni. Ci potrebbe però essere un legame negativo di sospetto tra la tombaiola e il crociato che porta la prima ad aumentare lo stress del secondo. Nel mentre magari il soldato, che nutre un forte rispetto per la tombaiola, si aggiunge con un secondo hit ai suoi attacchi. Etc, etc, avete capito il gioco di domino su cui si basa il nuovo sistema misto di “stress + relazioni” imbastito da Red Hook.
Il rework che si intravede in questo early access è molto interessante soprattutto perchè si distacca dal precedente sistema “tutto o nulla”, in cui la reazione eroica o sconfortata marchiava indelebilmente il personaggio per quella run (a meno di rare eccezioni). Il nuovo stress management, al contrario, rende i combattimenti più dinamici e aggiunge tutta una serie di aiuti e costrizioni che sono innanzitutto divertenti da vivere durante la partita, ancora più che interessanti da gestire ed esplorare.
Tutto molto bello, ma i miei occhi, per quanto sbrodolanti ammmore, non possono non accorgersi di una criticità piuttosto evidente, già emersa tra gli angoli della community. Spesso durante la partita si arriva ad un effetto valanga in cui gli status positivi si chiamano a vicenda rendendo in qualche modo over-powered il team, mentre invece relazioni negative causano un domino di stress crescente, tanto da rendere quasi irrecuperabile la run.
Visto però il lavoro già fatto in passato con l’early access del primo capitolo, è molto probabile che la software house canadese nei prossimi mesi, a suon di patch e update, riesca a trovare la quadra, tanto da poter offrire infine un’esperienza maggiormente bilanciata al momento dell’esordio ufficiale sul mercato.
SUCCESS SO CLEARLY IN VIEW…OR IS IT MERELY A TRICK OF THE LIGHT?
Per quanto il focus dell’articolo voglia essere sul sistema dello stress (in quanto vero tratto caratterizzante del gioco), non posso esimermi dal menzionare anche gli altri aspetti del titolo, che si sono rivelati più sorprendenti del previsto, in un’ottica di quasi reboot del “franchise”.
Dal punto di vista grafico, l’evoluzione dello stile illustrativo allestito dall’art director Chris Bourassa (molto carico di spesse chine nere) ha dato vita 3D ai personaggi, che non sono più sprite bidimensionali ma gradevolissimi modelli a tutto tondo. Questo ha permesso non solo di avere animazioni fluide e “idle animations” personalizzate (in pratica nel momento in cui si seleziona un’abilità durante il turno del personaggio, questo cambierà posa in base alla mossa in procinto di compiere, una piccola chicca che conferisce però molto carattere alle azioni), ma anche una fotografia in grado di regalare nuovi giochi di illuminazione. Anche i mob sanno sorprendere allo stesso modo, rimarcando un’anima stilistica che vive sulla base di quanto proposto dal primo capitolo.
L’impostazione della campagna e delle run è dove forse si vede lo strappo maggiore dal primo DD. Se prima infatti avevamo un gruppo di personaggi e un insediamento cittadino da dover far crescere col tempo (sia in termini di quantità che di qualità, gli eroi partivano dal livello più basso e mano a mano acquisivano esperienza, le strutture offrivano attività di recupero stress e armeria sempre più efficaci), quindi degli elementi rogue-lite ben marcati, in DDII la componente rogue-like la fa da padrone. Ogni run resetta tutto, si riparte sempre dalla scelta di 4 membri base che dovranno intraprendere la campagna viaggiando su un calesse upgradabile, scegliendo chi o cosa affrontare in base alle diverse strade che si porranno davanti lungo il percorso. Di run in run, però, il giocatore riempirà una barra di progresso del proprio profilo che permetterà di sbloccare nuovi personaggi e abilità. In questo senso, quindi, Red Hook ha voluto andare in controtendenza rispetto a quanto proposto anche da se stessa in passato, ritornando un po’ alle radici del genere. Non sappiamo al momento se in futuro verranno introdotte meccaniche di progressione dell’infrastruttura più simili al primo capitolo.
Infine, dal punto di vista del gameplay stretto, sono da riportare altre novità interessanti. La “Death’s Door” (meccanica per la quale un personaggio non muore subito al raggiungimento di zero punti vita, ma ha una probabilità di sopravvivere a ulteriori colpi subiti) è stata introdotta anche per una buona dose di nemici, rendendo così ancora più incerto ogni combattimento. Gli status funzionano a gettone e non più a probabilità (quindi se si ha un “gettone” di protezione si è sicuri al 100% di non subire il colpo successivo, se si ha il “gettone” stealth si è certi di non essere targettati nel turno successivo, etc etc), le abilità di cura hanno un numero limitato di utilizzi in battaglia e infine alcuni incontri possono essere a round fissi, oltre i quali non è possibile proseguire il combattimento.
Nota a margine: il narratore è sempre doppiato dall’ormai leggendario (nella community di DD) Wayne June.
In conclusione, Red Hook mostra di non aver paura di inseguire nuove idee e nuovi stimoli, nell’ottica di poter offrire un’esperienza di gioco in grado sia di sorprendere il giocatore veterano, sia di incuriosire i nuovi arrivati, che verranno inevitabilmente bastonati prima di capire come sopravvivere alla combo di situazioni stressanti sia per il fisico che per la mente.
Giocare coi dadi può essere frustrante, vero, ma la sensazione di dominarne la rotolata per fare in modo che possa uscire il numero che vogliamo è l’essenza di titoli come Darkest Dungeon e il suo seguito non fa eccezione a questa regola. L’impressione è che Red Hook non abbia semplicemente voluto aumentare il numero di dadi in gioco, ma anche rendere più imprevedibile la superficie del panno verde su cui farli ruzzolare, stimolando così il giocatore a pensare a nuovi modi per lanciarli.