Che cos’è un Souls-Like? Prima di cercare di rispondere a questa domanda dobbiamo porcene un’altra: che cosa sono i Souls? A quanto pare (vedi Wikipedia), i Souls propriamente detti sono una serie di videogiochi realizzati da From Software fra il 2009 e il 2016 legati fra loro non necessariamente da un filo di trama ma da alcune caratteristiche distintive. Parliamo di Demon’s Souls, Dark Souls, Dark Souls 2 e Dark Souls 3.
Individuare queste caratteristiche significa capire cosa deve avere un gioco per essere considerato Souls-Like, ovvero “tipo un Souls, come un Souls”, e lo spessore, la capacità di essere significative di queste caratteristiche ci dirà se questa distinzione sia in qualche modo utile (come comunità di videogiocatori ne abbiamo sentito il bisogno e questo già testimonia in suo favore).
Souls-Lite sarà invece il gioco che avrà solo alcune delle caratteristiche che riusciremo a trovare, un “quasi Souls”. È difficile immaginare un gioco che sia definibile solamente in questo modo e quindi dubito che questa sia una categoria strettamente necessaria, tuttavia la tassonomia videoludica è un equilibrio di sottoinsiemi che si intersecano fra loro per sopperire da un lato a una intrinseca imprecisione definitoria e dall’altro alla necessità di orientarsi da parte dei consumatori.
Prima di iniziare, però, abbiamo un altro problema da risolvere: quello dei Souls-Like è notoriamente considerato un sottogenere, ma lo è rispetto al genere Action o rispetto al genere Action-RPG? In altre parole, è la componente RPG costitutiva dei Souls-Like? E cosa definisce gli RPG in ambito videoludico? La domanda è interessante soprattutto se consideriamo che il termine “action” è così generico da non costituire, né risolvere, alcun problema (sarà infatti una scaturigine inesauribile di sottogeneri), ci serve giusto per dividere i giochi in tempo reale da quelli a turni turni.
Personalmente, trovo importante partire dal presupposto che non esiste un nome più impreciso di quello di “role playing game” applicato ai videogiochi. Gli RPG videoludici sono infatti tutto meno che titoli dove si giochi di ruolo, cosa possibile eventualmente solo in un mmorpg nel caso di interazione (anche solo vocale) fra giocatori umani, siccome l’operare fra le scelte prescritte di un titolo single player non è in nessun modo assimilabile al giocare di ruolo. Giocare di ruolo è infatti un atto teatrale di comunicazione fra giocatori/attori che sospendono l’incredulità su di un mondo condiviso (fornito loro da un autore terzo) entro il quale recitano una parte improvvisando da un soggetto di cui sono di solito gli ideatori (il personaggio) e costruendo insieme una narrazione, mentre sarà il master, rettore del mondo di gioco, l’unica figura che potrà eventualmente essere sostituita da una scrittura, per altro non necessariamente informatica (basti pensare a molti giochi da tavolo).
Detto questo, non si vede come un videogioco single player possa essere chiamato RPG. Tuttavia, questo termine permane per via della sua origine che è quella dei giochi di ruolo cartacei (come Dungeons & Dragons) dai quali già dagli ‘70 i videogame hanno mutuato molti altri aspetti che non ineriscono però il giocare di ruolo propriamente detto. In altre parole, i videogiochi hanno preso tutto, compreso il nome, dai giochi di ruolo meno che il giocare di ruolo.
Detto questo, è dubbio quali delle caratteristiche attribuite di solito ai giochi di ruolo videoludici siano realmente distintive del genere siccome né un certo tipo di storie o di ambientazione, né la presenza di una mappa delle aree di gioco, né una certa tipologia di combattimenti, né la presenza e gestione di un inventario sono esclusive dei videogiochi RPG e non possono quindi bastare a definirli. Ognuno di questi elementi, infatti, può essere riscontrato in misura variabile in opere appartenenti ad altri generi e quindi capiamo bene come per rispondere alla nostra domanda (se sia la componente RPG costitutiva dei Souls-Like) dobbiamo prima individuare almeno una caratteristica che sia distintiva degli RPG videoludici in modo univoco. A mio avviso, questa caratteristica, quella che ci fa dire “RPG” quando un videogioco la possiede, è la possibilità di far salire di livello l’avatar mediante l’ottenimento di punti esperienza elargiti dal gioco sconfiggendo nemici o completando missioni. Nei videogiochi, dove si può livellare parliamo di RPG.
Sembra che abbiamo la nostra risposta, non è vero?
Nei Souls si può livellare, ci sono i punti esperienza (oltre che un’ambientazione fantasy, gestione dell’inventario, caratteristiche e altri parametri numerici come il peso degli oggetti e altri aspetti ancora da scheda di D&D), quindi non c’è dubbio che, quando parliamo dei quattro Souls propriamente detti parliamo di Action-Rpg. Però, la domanda non era esattamente questa. Chiedendomi se la componente RPG sia costitutiva dei Souls-Like intendevo domandarmi se sia inevitabile che un gioco, per essere considerato di questo genere (e non di quella serie) debba possederla necessariamente. In che misura, infatti, la presenza dei punti esperienza (che, influendo sulle caratteristiche, va ad agire a cascata su un’infinità di parametri dell’avatar) può essere costitutiva di un videogioco skill-based, cioè basato sull’abilità del giocatore a livello di gameplay? Considerando che la possibilità di livellare non è necessaria affinché si abbia costruzione e gestione dello sviluppo del personaggio (la cosiddetta “build”, che può anche darsi semplicemente mediante il reperimento di oggetti e potenziamenti e relative scelte strategiche di equipaggiamento) quale funzione ricopre nei Souls e nel genere cui danno luogo? È la componente RPG una caratteristica imprescindibile o potrebbe addirittura essere un difetto? E come possiamo stabilirlo?
In un videogioco, la possibilità di livellare ha un impatto differente a seconda della disponibilità dei punti esperienza, intesi come risorsa che l’opera mette a disposizione. Dove è possibile ottenerne a piacimento, cioè dove è possibile quello che comunemente viene chiamato “grinding” (il livellare selvaggio e ripetitivo) la presenza dei punti esperienza, lungi dall’essere una strettoia strategica per la costruzione del personaggio, diventa un modo indiretto di regolazione del livello di difficoltà, fino al paradosso dell’overlevel, autentico segno di un design pigro, ossia la possibilità, mediante l’esecuzione per un tempo sufficiente di azioni ripetitive, di essere troppo forti rispetto alle sfide che il gioco ci pone. Qualora invece i punti esperienza fossero una risorsa limitata avremmo la necessità di un completismo strategicamente inteso, laddove mancare di raccoglierne potrebbe minare le nostre chance di riuscita nell’impresa videoludica.
Che cosa succede nei Souls? I punti esperienza (le anime) sono virtualmente illimitati, tuttavia il gioco propone sfide basate sull’abilità a livello di gameplay e il livellare può attenuare la difficoltà solo in parte, di fatto realizzando un ibrido che non salverà il giocatore che crederà di cavarsela livellando dalla necessità di giocare bene ma finirà col richiederglielo meno spesso e meno a fondo, di fatto rallentando la sua comunque inevitabile comprensione più profonda delle meccaniche di gameplay e relativa esecuzione (nel caso, sia chiaro, intenda portare a termine il gioco e non intenda abusare delle evocazioni in suo soccorso). In altre parole, nei Souls la presenza della possibilità di livellare costituisce un annacquamento, sia pure non così grave, del gameplay e delle sue sfide senza essere inevitabile in un’ottica di sviluppo del personaggio.
Naturalmente, qui occorre rispondere a un’obiezione che solitamente viene fatta dai fan di un titolo ogni volta che vengono poste critiche come questa. L'obiezione è, semplificando: è meglio così, perché il giocatore può scegliere se giocare bene o se giocare male. Questa obiezione, semplicemente, trascura l’aspetto più importante di un videogioco: il design. Compito del game designer non è rendere possibile giocare nel modo ideale a un videogioco, bensì renderlo inevitabile e rendere quindi, di conseguenza, impossibile giocare nel modo “sbagliato”. In altre parole, il modo sbagliato di giocare è quello che il gioco non consente, siccome tutti i modi di giocare che invece rende possibili devono essere stati considerati dal designer e sono quindi tutti giusti perché tutti consentiti. Se è possibile rompere un gioco o se è possibile giocarlo in modo noioso senza approfondire tutte le sue meccaniche la colpa non è dei giocatori ma di chi ha sviluppato il gioco senza avere cura di rendere impossibili alcuni approcci. Come spiega molto bene il video di Game Makers Toolkit che vi linko in descrizione, una delle responsabilità del game designer è quella di proteggere i giocatori da loro stessi (parole di Sid Meier), ovverosia di impedire loro di rendere un gioco poco divertente o semplicemente di snaturarlo. Come giocatore, non devo sforzarmi di trovare il modo giusto di giocare a un videogioco e non posso trovare un modo sbagliato di farlo: semplicemente, ogni modo di giocare un videogioco è giusto siccome è (o dovrebbe essere) intenzionale da parte degli sviluppatori. Responsabilizzare i videogiocatori per il modo di giocare significa, in poche parole, non avere idea di che cosa sia un videogioco.
Fortunatamente, i Souls non possono essere rotti al punto da poter essere completati senza imparare a giocare, tuttavia portano con sé una contraddizione interna che, a livello di design costituisce un difetto: esistono modi di giocare (livellare ossessivamente, evocare sempre) che adulterano l’esperienza di gioco e il significato della stessa. Come abbiamo detto, il fatto che questi approcci esistano li rende assolutamente legittimi, tuttavia ciò mette in luce un difetto dei Souls che, proprio in quanto tale, a mio modo di vedere non può costituire un elemento distintivo affinché si parli di Souls-Like.
Quindi, sì, i Souls sono Action-RPG ma, no, la componente RPG non deve a mio avviso essere considerata costitutiva del genere Souls-Like e quindi non è un requisito necessario affinché un titolo possa essere definito tale.
Bene, possiamo proseguire, ovviamente ponendoci un’altra domanda: i Souls-Like devono essere difficili? Essendo la valutazione di che cosa sia difficile irrimediabilmente soggettiva (ciascuno di noi è diverso e ha voluto e potuto sviluppare abilità diverse nella vita) forse basta dire che i Souls sono giochi che richiedono la disposizione all’apprendimento, mediante un attento trial and error, di un modo di gioco e delle sue peculiarità e che possono essere frustranti per il giocatore che a questo apprendimento non sia disposto. E questa è certamente una caratteristica che trasferirei al genere Souls-Like siccome parte integrante della pervasività della morte che vedremo tra poco e che considero una delle caratteristiche distintive del sottogenere.
Sia ben chiaro anche qui che la disposizione all'apprendimento di un modo di giocare non è una responsabilità del giocatore (nel senso che egli non è tenuto ad accettare la sfida) quanto piuttosto qualcosa che spetta agli sviluppatori suscitare. In prima battuta, è il gioco che deve conquistare il giocatore e non viceversa, risultando degno della sfida che propone. Ovviamente, starà agli sviluppatori decidere a quale target ambire, cioè che genere di sfida proporre a chi. Giocatori differenti accoglieranno sfide differenti e ne rigetteranno altre.
Fatte tutte queste precisazioni, che sono la premessa della mia proposta definitoria, è arrivato il momento di sottoporvi quelli che considero i tratti distintivi del sottogenere Souls-Like e che molto hanno a che vedere con un nome che ho evitato di proposito di fare fino a ora, quello, va da sé, di Hidetaka Miyazaki, la comprensione della cui poetica e il suo effettivo godimento costituisce a mio modo di vedere la più profonda sfida imbastita dalle sue opere.
Voglio partire da una sensazione, dal feeling indistinto e certamente poco argomentato che assale il giocatore al suo primo approccio con un Souls e che, quasi per reverse engineering, un Souls-Like deve consapevolmente restituire.
Parlo di quel senso di smarrimento e di minaccia insondabile, insormontabile e immanente in cui il giocatore si trova letteralmente gettato all’inizio della sua impresa, come fosse un risveglio, senza memoria, in un incubo. Wink. Wink.
Partiamo dall’assenza della mappa, elemento da non sottovalutare e anzi fondamentale alla costruzione non solo metaforica dello smarrimento che dicevo. Come se non potesse risvegliarsi, come se non fosse fino in fondo presente a se stesso, l'avatar di un Souls-Like non prende nota, non segna i punti cospicui sul suo cammino e demanda al giocatore lo sforzo di orizzontarsi, in tutti i sensi. Non bastasse, oltre a una mappa a mancare è una direzione precisa, siccome fin da subito esiste la possibilità di incontrare dei bivi rispetto ai quali la scarsità di indicazioni renderà la scelta una scommessa fatale.
Tuttavia, “anche senza risposte bisogna comunque proseguire”. L’architettura dell’area di gioco sarà sì labirintica (nel senso di disorientante alla prima run) ma sarà pure interconnessa: offrirà cioè, attraverso l’esperienza e l’esplorazione, molteplici scorciatoie, collegamenti imprevedibili fra aree che si pensavano distanti e infine una chiarezza di primo acchito inattingibile sulla sua struttura complessiva. Sto descrivendo Metroid, il capolavoro a 8 bit di Gunpey Yokoi, datato 1986? Sto descrivendo i primi dungeon crawler, che già dagli anni ‘70 costringevano il giocatore a disegnarsi la mappa da solo? Sì e no.
Nei Souls (e nei titoli che vorranno dirsi Souls-Like), a mio avviso, lo smarrimento richiede l’immersione in un ambiente che sia tridimensionale come lo è quello reale proprio perché non corrisponde al mero perdersi, che pure è necessario, bensì al sentirsi perduti in un mondo che è inquietante perché potrebbe essere vero: l’ambientazione non è più la metafora di una ambientazione. Nella tridimensionalità risiede il realismo dei souls che non è da intendersi, ovviamente, come fotorealismo ma come ricalcante l’esperienza del muoversi in un ambiente verosimile per via delle sue proporzioni reali. Non solo la tridimensionalità consente, da un punto di vista del design, di orientarsi per punti cospicui visibili anche a grandi distanze e via via identificabili man mano che si procede nell’esplorazione (si supera quindi il limite imposto dai giochi bidimensionali che costringono o all’arcaico uso di carta e penna o al rassicurante automapping), ma è un elemento portante dell’immersione che regge lo smarrimento: un gioco bidimensionale non può essere un Souls-Like (sarà tuttalpiù un metroidvania etichettabile come Souls-Lite) perché metaforizza e stilizza ciò che un Souls invece vuole riprodurre così com’è: la profondità dell’osservazione (elemento che fa dell’area di gioco di Dark Souls, tecnicamente open world, un capolavoro in sé della storia videoludica e che riempie di speranza la tragicomica attesa di Elden Ring, con la sua promessa di un open world, qui come lo si intende oggi, che risponda a queste stesse regole).
Allo smarrimento si accompagna la sensazione di essere sopraffatti al cospetto di una sfida insormontabile su più livelli (non ultimo quello interpretativo, che vedremo dopo). Questo feeling opprimente è suscitato anche da quello che per me è un altro aspetto distintivo di questa tipologia di giochi, ossia l’accesso immediato (inconsapevolmente incauto, la scelta fatale dinanzi a bivi ignoti di cui dicevo) a sfide sproporzionate rispetto alle capacità sia dell’avatar che del giocatore.
La possibilità di mettere piede facilmente nel posto sbagliato e di scoprirlo sulla propria pelle in modo terribile è parte integrante del timore reverenziale che un Souls sa incutere in chi lo affronti per la prima volta e contribuisce a quella pervasività della morte che, sempre secondo me, è un altro tassello distintivo di questi titoli.
Il timore reverenziale è rafforzato anche da quella che ritengo la meccanica di gioco autenticamente definitoria di un sottogenere che, sul versante del gameplay, può anche variare molto: la stamina. In un Souls-Like, a proposito di feeling opprimente, agire ha un costo, la fatica è autentica e nessuna mossa è gratuita. La gestione in tempo reale di un qualche tipo di indicatore che registri l’affaticamento momentaneo del personaggio è il fulcro dell’acuta attenzione a quel che si fa che fonda tanto la sfida di gioco quanto la sua atmosfera (i due aspetti, che sono risvolti della medesima esperienza, risulteranno fusi in una coerenza d’acciaio da questo elemento fondativo).
La morte pervade i Souls. Essa è, naturalmente, l’errore che segue i tentativi che costituiscono lo spietato processo di apprendimento cui sarà disposto il giocatore target di queste opere (un processo caratterizzato da checkpoint spesso molto distanti o ben nascosti, da boss fight talvolta assai esigenti e dalla possibilità diabolica di un solo recupero delle anime perdute venendo uccisi). Morire, fallire dolorosamente, fa parte del gameplay ed è il modo che ha il gioco per marchiare a fuoco le sue lezioni in questo ambito. Giocare con la morte alle calcagna, aggirarsi per un mondo sconosciuto sapendo che qualunque nemico, se sottovalutato, può ucciderci è un modo molto intelligente di acuire l’attenzione del giocatore e di rendere indimenticabile l’esperienza.
Beh, se sarà attento, il giocatore noterà facilmente che la morte non è solo quella che lo attende in caso di un approccio troppo incauto ma è anche quella che lo circonda in ogni direzione. Il mondo di gioco di un Souls è un mondo morente nel quale si esita a pronunciare la parola vita anche per le creature senzienti e attive. La vita, nei Souls, non è quella che conosciamo ma una sua deformazione ambigua quanto le risate degli npc (a loro volta simili a ombre spettrali che sanno e non sanno di esserlo) e la morte appare come uno stadio già raggiunto, come se l’incubo consistesse nell’attraversarla fingendosi vivi o credendosi inutilmente tali. Una morte che rassomiglia allo stato terminale dell’umanità e che, cingendolo e penetrandolo, consegna al giocatore una sensazione paradossale di impotenza rispetto alla sfida stessa cui è chiamato.
In questo senso, la condizione dell’avatar di non morto, quasi morto o comunque non vivo sarà funzionale a ciò che davvero lo distingue: l’essere immemore, privo di una scrittura pregressa, una tabula rasa a suo discapito, un’entità smarrita che come fosse appena rinata deve imparare ogni cosa del mondo alieno che la accoglie, proprio come il giocatore chiamato a riempire questo guscio vuoto immergendosi in esso.
Anche da un punto di vista narrativo, i Souls impongono stilemi propri, siccome l’avatar e il giocatore che lo muove saranno ben lungi dal vivere un’impresa eroica e neppure sarà concesso loro il centro di una trama propriamente detta: essi sono posti alla fine della storia, agli sgoccioli della vicenda del mondo, in calce a millenni di eventi cui devono cercare di dare un senso mediante una difficoltosa ricostruzione. In quest’ottica, la componente architettonica rende tangibili e perlustrabili le testimonianze di un mondo in rovina, in cui le strutture giocano un ruolo fondamentale nel dispiegare i frammenti di una terra desolata. Le logiche dell’ambientazione, già eternate in epoche pregresse, appaiono oltre la comprensione dello smarrito che non può sovvertirle, ma solo piegarsi a esse. La sensazione è quella di essere gli strumenti di un gioco più grande di noi cui ci tocca, sì, provvedere un ultimo tassello ma rispetto al quale non abbiamo scampo. Non bastasse, il senso di questa impresa residuale sarà quanto mai elusivo siccome un Souls è, tipicamente, un’opera restia allo spiegarsi e al rivelare i propri segreti a buon mercato. Sulla base delle esperienze giovanili di Miyazaki con le sue prime letture in inglese (delle quali non comprendeva larghe parti che ricostruiva con l’immaginazione), un Souls non fornisce tutti gli elementi che sarebbero necessari alla sua piena comprensione, costringendo il giocatore a uno sforzo interpretativo non inferiore a quello richiesto dal gameplay (e anche qui, anzi ancora di più, l’impresa potrà essere collaborativa, in una sorta di interpretazione comunitaria che a sua volta caratterizza queste opere ex post, sancendone la rilevanza).
Le lacune intenzionali della componente narrativa, spesso estrapolata da brandelli di lore rinvenibili perlustrando il mondo di gioco (narrazione implicita) o interpretando elementi ambientali (narrazione silenziosa), si rivelano subdole (e quindi sfidanti) anche su di un altro livello, quello della menzogna. Ciascuna testimonianza, che sia dialogica o provenga dalla descrizione di un oggetto, può essere mendace, falsa, fuorviante o volta a manipolare il giocatore più credulo portando lo scopo stesso della sua impresa a risultargli ambiguo quando non proprio indecifrabile.
Tipico dei Souls sarà infatti presentare la possibilità di terminare il gioco senza averci capito niente per via non solo di quanto appena detto ma anche della presenza massiccia di percorsi laterali (e relativi segreti) molto ben nascosti e non necessari al raggiungimento dei titoli di coda ma che risulteranno determinanti per la comprensione dell’opera.
Un ultimo elemento distintivo che voglio mettere in luce, estremamente coerente con i precedenti, è quello del finale di un Souls, che possiamo discutere benissimo senza fare nessuno spoiler specifico. Tipicamente, avremo un finale beffardo, enigmatico, lontano dal senso di appagamento che dovrebbe dare il venire a capo di un’impresa così impegnativa (appagamento che il gioco sa elargire, eccome, quando si riesce a superare, a livello di gameplay, un nemico molto tosto).
L’anonimato dell’avatar permane, senza memoria né redenzione e anche nella riuscita dell’impresa non c’è gloria ad attenderlo, non c’è trionfo comunemente inteso, ma solo lo scoccare impietoso delle regole universali cui si è prestato. Persino nella scelta tra finali multipli, nella decisione di quale tassello apporre, come dicevo, alla fine della storia, resta la sensazione di essere stati giocati (ma come, non dovremmo essere noi i giocatori?), incastrati da un ingranaggio che non può essere cambiato ma al massimo conosciuto (o forse dovrei dire intuito).
Benché abbia terminato di spiegare quelle che considero le caratteristiche distintive dei Souls, la cui presenza mi pare necessaria affinché si possa parlare di Souls-Like, non ho certo finito di pormi e porvi delle domande. Una, a questo punto, mi pare sorga spontanea: sono i Souls (e: devono essere i Souls-Like) intrinsecamente giochi horror? Direi certamente che non lo sono nel senso tradizionale che vede alcuni videogiochi adottare gli stilemi cinematografici del genere (i Souls non parlano quel linguaggio) ma se pure non apparentemente lo sono a mio avviso in un senso più profondo: la poetica lovecraftiana, in particolare, e le suggestioni che è capace di suscitare costituisce una delle ispirazioni fondamentali di questi giochi (che per certi versi ne rappresentano l’espressione migliore), il che è del tutto palese nel capostipite Demon’s Souls e in Bloodborne (non a caso i due titoli conservano residui dei profondi legami che avrebbero dovuto avere).
E così, ma era inevitabile, abbiamo nominato l’elefante nella stanza. Se Demon’s Souls è il capostipite ancora assai grezzo nelle sue potenzialità su molti dei livelli presi in esame (Miyazaki in quel caso recuperò e stravolse un progetto già avviato) e se Dark Souls è certamente il titolo di riferimento fra i quattro Souls e primo grande capolavoro del loro creatore, Bloodborne risulta escluso dal novero per una a mio avviso del tutto superficiale questione di nomenclatura quando, come chiaro da quanto elencato finora, rappresenta, sotto molti aspetti decisivi, il vero apice della produzione di Miyazaki e risulterà quasi un’assurdità doverlo considerare semplicemente il Souls-Like per eccellenza.
Ma queste sono le trappole in cui finiamo per cadere ogni volta che prendiamo troppo sul serio le categorie che ci siamo dati e non c’è tassonomia che non sia debole agli ornitorinchi. Spero quindi che sia chiaro, alla fine di questo video, quale fosse il mio vero scopo. Non spaccare il capello in quattro, ma raccontare dal mio punto di vista l’estetica di uno dei più grandi creativi degli ultimi vent’anni. Oltre che, inutile negarlo, esorcizzare l’attesa.
(questo articolo è il testo del video qui sopra, che ho pubblicato su WesaChannel il 17 novembre 2020)