Per comprendere i videogiochi e discuterne con maggiore consapevolezza dobbiamo prima di tutto ricordarci che chiamiamo ugualmente videogiochi prodotti profondamente diversi fra loro e, soprattutto, che accomuniamo sotto il termine videogiocatori persone altrettanto diverse che chiedono cose diversissime alle opere di cui fruiscono. I motivi per cui una persona decide di videogiocare sono vari e interessantissimi, siccome ci consentono di capire meglio le differenze nell’offerta ludica e di fare luce sulla vacuità di molte discussioni intorno al medium che, spesso, partono dal presupposto inconsapevole di mettere insieme mele e pere.
1
Il primo motivo per videogiocare, fra quelli che ho trovato utili per sviluppare questo discorso, è la sfida.
I videogiochi offrono una sfida basata su regole certe e conoscibili alla quale ci si può allenare a piacimento collezionando tutti gli errori di cui si ha bisogno per migliorarsi: il contrario della vita, l’opacità delle cui regole e l’asimmetria delle cui sfide la caratterizza al punto da richiedere non di rado una tenacia con tratti di martirio per affrontarla. È quindi comprensibile l’amore per la sfida videoludica (e per quella ludica in generale) come tensione verso una competizione giusta, verso il piacere dato dalla certezza di battersi equamente (incidentalmente, senza rischiare la pelle). In questo, il codice che costituisce il gioco fornisce un’esperienza unica nel suo genere e appagante in quanto tale. Tuttavia, di quale sfida stiamo parlando? Verso chi? Soprattutto: è la sfida contro una scrittura di codice una competizione contro un avversario o piuttosto la risoluzione, sempre e comunque, di un puzzle, cioè la ricostruzione della sequenza di azioni necessaria a ottenere la vittoria e la sua conseguente esecuzione? La domanda, evidentemente, è retorica. Per quanto difficile e sfaccettata, la sfida offerta dal “computer” in un videogioco è, ad oggi e per ovvie ragioni di design, in qualche modo intelligibile e commisurata alle possibilità del giocatore target (e anche i giochi più difficili, salvo quelli che appunto definiamo errori di design, sono pensati per essere battuti siccome hanno comunque un fine commerciale - benché nell’epoca d’oro degli arcade spesso il fine commerciale corrispondesse a una quasi imbattibilità dei giochi siccome era questa maggiormente redditizia in un’ottica di coin operator). In single player, il più frenetico dei picchiaduro, all’osso, non differisce da uno strategico a turni se non per la rapidità richiesta nell’esecuzione delle mosse. In questo senso, la sfida offerta da un videogioco (se isolata dal resto delle componenti che lo costituiscono) si presenta come un esercizio enigmistico. Davvero, lo studio di un puzzle non è la stessa cosa di una sfida con un avversario umano e non è neppure detto che rappresenti il territorio ideale per la cosiddetta sfida con se stessi siccome essa si inasprisce, e non poco, quando entra in scena l’altro e lì conosce la vera prova dell’autocontrollo e della padronanza di sé.
È superfluo dire che i videogiochi provvedono anche a questo aspetto, grazie alla componente multiplayer pvp, attraverso la quale il codice di gioco è al servizio della creatività e dell’imprevedibilità (tali almeno per una mente umana) della mente umana. Qui la sfida è meno leggibile, si ha una componente di opacità controllata che rende la competizione più difficile e selettiva pur senza sfuggire alle regole di equità garantite dal codice. Nel pvp si realizza il sogno di una competizione giusta ma reale, che richiede una capacità di adattamento maggiore facendo entrare in gioco un concetto fondamentale (e profondamente umano) come quello di “metagioco”, ovverosia un livello di lettura strategica della competizione che va oltre la performance in sé ma che riguarda la preparazione della stessa. Il “meta”, la cui comprensione oscilla fra la conoscenza più profonda e la divinazione fortuita, altro non è che la moda del momento applicata al mondo di gioco, ciò che si ritiene (e si rileva) vada maggiormente in voga fra le migliaia di avversari possibili e rispetto a cui ciascuno farà la propria scommessa strategica sperando di “romperlo”. Metaludica, chiaramente, è anche la lettura dell'avversario nel fuoco della competizione che, non potendo contare sulla ricostruzione di una regola codificata come esito ideale, tende a una riduzione dell’umano mai davvero possibile e sempre rettificata ma strumentale al darsi un piano d’azione.
Gioco e metagioco, dati e percezioni, strategia e adrenalina si fondono nel player versus player realizzando, per chi la cercasse, una sfida che, come si suol dire, può dare dipendenza.
2
Ora voglio discutere il secondo dei motivi per videogiocare che mi interessano: il divertimento. Torneremo da qui al discorso appena interrotto.
Quello di divertimento è un concetto onnipresente nel mondo dei videogiochi eppure estremamente sfuggente, sfocato, buono per tutte le stagioni. In questi casi, senza sognarsi che possano esistere definizioni definitive, secondo me è buona misura partire dal dizionario per capire almeno indicativamente di che cosa parliamo quando parliamo di divertimento, considerando che è un requisito cui molti si appellano.
Dal vocabolario Treccani possiamo estrapolare qualche accezione buona per i nostri scopi. Prima di tutto una che viene definita antiquata e che sinceramente mi pare assai interessante: divertimento come allontanamento o, anche, digressione. Viene poi definito come quanto serve a sollevare l’animo dalle fatiche del lavoro e ad allontanare il pensiero dalle preoccupazioni quotidiane; quindi, passatempo, spasso, e talora anche piacere che distoglie da attività più serie. Infine, il godimento stesso procurato da uno spasso.
Digressione, piacere che distoglie… interessante. Cerco allora la parola “distrazione”, altro termine non di rado applicato ai giochi e trovo, fra le altre, queste accezioni: stato del pensiero rivolto altrove, e perciò assente dalla realtà attuale e circostante; quanto contribuisce a distrarre la mente impedendo di svolgere proficuamente la propria attività; svago, occupazione piacevole che dia riposo alla mente o rappresenti un diversivo dalle abitudini quotidiane.
Sfogliando il dizionario abbiamo attraversato concetti secondo me importanti per capire cosa spinge alcune persone a fruire dei videogiochi. Il divertimento come digressione, diversivo, a tutti gli effetti uno stacco piacevole dalla realtà dalla quale, va da sé, cercheremo di staccarci piacevolmente se le riconosceremo un qualche difetto di piacevolezza.
Il divertimento è quindi, fra le altre cose, la ricerca del godimento in un altrove irreale - e ditemi voi se questo non è un concetto videoludico. I videogiochi sono eccome fornitura di altrove disponibili all’uso, di occupazioni che tanto più sapranno coinvolgere quanto più potranno, grazie alle peculiarità del medium, immergere la nostra mente nella loro diversione.
Purtroppo, e come sempre, la realtà esiste. Quel che è peggio, non esiste altro.
In altre parole, il divertimento ha un costo.
Una parola che abbiamo appena letto sul dizionario e che è fondamentale per il discorso che sto facendo è passatempo, un termine che ci rimanda al padre di tutti i nostri limiti: il tempo che la realtà ci impone.
A volte un gioco viene descritto come un modo per ammazzare il tempo, il che è certamente un’immagine efficace ma non saremo noi ad ammazzare lui e questo qualcosa conta. Altrettanto, si parla talvolta di “scacciapensieri”, attività che può lenire dolori reali ma ha delle conseguenze (vedremo alla fine quei giochi che definirei invece “aizzapensieri”).
La ricerca del divertimento ha quindi a mio avviso molto a che vedere con il legittimo, comprensibile e a chiunque ben noto desiderio di distrarsi dalla realtà e dalle sue inevitabili asprezze il cui evitamento è già di per sé una piacevolezza.
Abbiamo quindi varcato le soglie dell’escapismo, nobile arte ben nota al videogiocatore scafato (se i videogiochi fossero una medaglia, sull’altra faccia avremmo la realtà). La tensione verso un altro mondo possibile (che qui e ora non lo è), verso altre vite vissute (che qui e ora ci sono negate), verso esperienze precluse che l’arte digitale dischiude a iosa, fornendoci più altrove di quanti mai potremo visitarne, è la ragione più o meno consapevole che spinge molti a stringere un controller. In un certo senso, moltiplicare le nostre vite forse non ingannerà la morte ma confonderà quella reale fra le tante, ridimensionandone la perdita.
Chiaramente, la fuga ideale è quella che riesce senza farsi acchiappare, quindi una fuga che non finisce mai, e maledizione se i videogiochi non sono capaci di rispondere anche a questo inconfessabile desiderio! Di più, sembrano fatti apposta.
3
A questo punto non c’è quasi bisogno di dire che il terzo motivo per videogiocare è la dipendenza, elemento che voglio discutere senza scomodare la chimica che le soggiace né la medicina che la definisce e tratta, bensì come persona che l’ha sperimentata.
Semplicemente, da videogiocatore so bene che i videogiochi possono darci un senso di dipendenza che deriva, da un lato, dalla loro fulminea immediatezza di fruizione (sono sempre disponibili) e, dall’altro, dalla loro capacità di offrire una distrazione senza fine, così che ciò che nasceva come occasionale diventi facilmente sistemico: una costante (e consistente nel tempo) soddisfazione immediata che si fa abitudine e standard.
Si tratta di qualcosa che subentra nella nostra vita senza che ce ne rendiamo davvero conto, cioè senza difese consapevoli, ma non di rado è qualcosa che cerchiamo coscientemente una volta che l’abbiamo esperito. Non bastasse, l’assuefazione a questo meccanismo può dare luogo alla compulsività della fruizione che molti di noi conoscono o hanno conosciuto (spesso è qualcosa che ci rende scontrosamente asociali, poiché possiamo arrivare a detestare le distrazioni dalla distrazione cui ci siamo votati).
Tuttavia, la realtà esiste e dimenticare il tempo costa caro anche nel caso di divagazioni “free to play”.
In questo senso, per evitare che si faccia di tutta l’erba un fascio demonizzando il medium, in passato ho introdotto il concetto di gioco senza fondo, ovverosia quel gioco costruito in modo da suscitare dipendenza.
Un gioco senza fondo è prima di tutto un gioco accessibile senza sforzo e che quindi può essere giocato in ogni momento. A un videogioco, che è il nostro esempio ma non è detto che sia l’unico, puoi giocare letteralmente tutto il giorno tutti i giorni mentre non si può dire lo stesso dell’attività sportiva o ludica che richieda l’incontro reale con altri giocatori - insomma non valgono il calcetto o i giochi da tavolo multigiocatore.
Secondo tratto fondamentale del gioco senza fondo è che presenta una porta d’ingresso e nessuna porta d’uscita (non può essere finito o risolto, la vittoria è sempre parziale o temporanea).
Questo secondo tratto può essere presente in molti giochi diversi ma trova, e ci colleghiamo al primo punto del video, la sua realizzazione più frequente ed efficace nei giochi competitivi online.
La competizione online, sapientemente regolata dagli sviluppatori che sanno come intervenire quando ristagna o quando si sbilancia (e se non sanno farlo, ci pensa la concorrenza) è il teatro ideale del giocare sempre anche grazie a una percezione sociale estremamente importante: l’investimento ci pare giustificato perché ne vediamo uno analogo fatto dagli altri giocatori. I multiplayer online si reggono su ragioni comunitarie che, oltre alla componente di sfida ed eventualmente di socializzazione, consistono anche in quello che potremmo definire un gigantesco mal comune mezzo gaudio.
Ma come “male”? Che cosa c’è di male?
Veniamo al terzo tratto fondamentale perché si parli di giochi senza fondo: l’assenza di una ricompensa proporzionata all'investimento.
Qui il più grande inganno consiste nella gratuità della gran parte dei giochi senza fondo, o comunque nel loro costo assai accessibile. In questo modo, il gioco senza fondo si presenta come conveniente, come qualcosa di vantaggioso: tantissime ore di divertimento in cambio di niente. Di solito, non ci si sofferma su quel “tantissime ore” come se fosse qualcosa di problematico, ci si vede piuttosto la vera ragione per accettare lo scambio (e questa è precisamente l’assenza di difese consapevoli che dicevo prima). La sottovalutazione del tempo e della realtà, che si concreta in un irriflesso deficit di amor proprio, porta spesso a cedere porzioni enormi della propria vita come se fosse nulla - o come se fosse reversibile.
Quella che manca, di solito, è la comprensione del fatto che scialare migliaia di ore senza ritorno è ben lungi dal non pagare nulla: è l’esatto contrario. Non solo il tempo è denaro e quindi un tempo male investito è una perdita economica enorme, ma il tempo è, per fortuna, anche molto altro, molto altro (formazione, socializzazione fisica, progettualità e così via) cui si rinuncia in cambio, nella maggior parte dei casi, di una montagna di competenze (quelle richieste dal gioco) che non hanno altra applicazione o riconoscimento al di fuori di esso (e questa è una ragione per cui chi si perde in un gioco senza fondo percepisce come sconveniente smettere di giocare, siccome la sua bravura è confinata lì e si rivelerebbe per ciò che è uscendo dal gioco). Nell’adattarci attivamente alle regole interne (codificate o metaludiche che siano) del gioco senza fondo compiamo un movimento uguale e contrario rispetto alla realtà che cessiamo di frequentare, divenendo, presso di essa, alla lettera dei disadattati.
A questo punto interviene l’obiezione relativa agli eSports che paiono giustificare, eccome!, la dedizione al gioco senza fondo in quanto requisito per una carriera altamente remunerativa. È certamente vero che il successo a livello competitivo in un gioco senza fondo ne rappresenta in qualche modo una rottura dello schema, consegnando al campione una remunerazione tale da più che giustificare l’investimento fatto. Tuttavia, per la quasi totalità dei giocatori la presenza delle figure che ce l’hanno fatta, viste come modelli da seguire, contribuirà soltanto a fornire un’altra giustificazione all’investimento a fondo perduto di cui sopra. Il gioco senza fondo, infatti, a differenza dello sport reale, non finisce col liquidarti alla saltuarietà hobbistica se non sei un fenomeno, ma continua a offrirti l’accesso sempre disponibile e nessuna porta d’uscita.
In questo senso, la differenza fra il calcio e League of Legends consiste nel fatto che il calcio si offre come attività pervasiva solo a un professionista, mentre il giocatore medio di LOL può fare del gioco un’ossessione, come fanno i campioni, anche senza nessun risultato a giustificarlo.
I giochi senza fondo risultano facilmente in una dipendenza anche per un altro aspetto che di solito recano e che è la loro ragion d’essere per chi li sviluppa: il sistema delle lootbox e delle microtransazioni in game. Infatti, non sono gratuiti sotto nessun punto di vista (lo fossero, non esisterebbero).
La dipendenza da questa tipologia di giochi, infatti, li rende l’unico orizzonte per chi ci si perde, e quindi un posto dove ha senso spendere denaro (tipicamente, senza ammettere di farlo o minimizzando le cifre reali).
In particolare, il sistema delle lootbox (l’apertura di casse o bustine virtuali dal contenuto casuale, che può essere resa più frequente pagando) è equiparabile al gioco d’azzardo. Nominalmente, perché si parli di gioco d’azzardo dovrebbe essere presente la possibilità (ovviamente, sempre remota e rarissima) di vincere più denaro di quanto se ne spenda - e quindi le lootbox non consistendo in un premio in denaro non rientrerebbero in quella definizione, tuttavia i premi delle lootbox hanno certamente un valore economico (sancito dalle spese che suscitano e dal reale valore in soldi di account che recano oggetti rari e che vengono venduti in ottica speculativa) ed esistono ricompense meno frequenti di altre che sono il motivo della spesa siccome vengono valutate da chi spende come soddisfacenti similmente alla vincita maggiore della spesa nel gioco d’azzardo. Di fatto non è vero che dalla lootbox non escono soldi veri, escono ma attraverso passaggi indiretti che servono a coprire la reale natura di questo altro elemento di assuefazione.
4
Il quarto motivo per videogiocare che voglio discutere è la meraviglia, la ricerca del godimento estetico che un’opera d’arte sa dare e che si risolve in un arricchimento personale, in un tempo bene investito, in nuovo elemento del proprio bagaglio culturale.
Meravigliare come stupire, sorprendere, suscitare una riflessione, mostrare una visione sconosciuta, colpire duro una certezza, comunque e in qualche modo non lasciare stare, dare alla nostra mente nuovo materiale per la sua incessante costruzione.
Videogiocare può essere, nel caso migliore, un’attività intellettuale che, stante la ricchezza senza pari di questo medium, può godere di tantissimi livelli di realizzazione.
Naturalmente, il termine gioco, di per sé nobile, non gode di buona reputazione nel dibattito pubblico, venendo solitamente associato a un’attività sostanzialmente infantile e i videogiochi, per questo e per il vasto spettro che ricoprono (che comprende i Giochi Senza Fondo), portano con sé questa reputazione. Non a caso, si usa il termine Opera Multimediale Interattiva nel tentativo di comunicare cosa i videogiochi possono davvero essere nel caso dei loro esiti più ambiziosi e culturalmente rilevanti.
I videogiochi sono una forma espressiva senza precedenti e in costante evoluzione, legati come sono a doppio filo allo sviluppo della tecnologia (un legame, questo, ben più profondo che presso qualunque altro medium).
Per un’artista, essi rappresentano l’ultima frontiera, la possibilità più forte di veicolare un contenuto e questo grazie all’immersione che prevedono. Le competenze creative cui può dare sfogo un videogioco (in una sinergia inesauribile) sono, banalmente, tutte. Non esiste un profilo professionale legato alla creatività che non abbia nei videogame la sua prossima sfida, il campo più esaltante da esplorare domani.
E questa, per un pubblico culturalmente affamato e curioso, è la garanzia di un’offerta in divenire che ha solo grattato la superficie del proprio potenziale (pur essendosi già prodotta in capolavori) e che costituisce, oltretutto, un campo di studi ancora nuovo e, per via della sua stessa natura, costantemente foriero di nuovi stimoli e nuove sfide interpretative (non meno entusiasmanti di quelle sul versante creativo e produttivo).
Il vero buon motivo per videogiocare è che i videogiochi sono il futuro della cultura umana (che già pervadono tramite la gamification delle nostre attività digitalizzate), il che fa del rifiuto di questo medium nella sua totalità un segno lampante di profonda ignoranza.
5
Ma non è finita qui. Esiste un quinto e ultimo motivo per videogiocare che voglio discutere, ossia il videogiocare stesso come attività imprenditoriale in sé e che può esserlo indipendentemente dalla finalità competitiva.
Grazie al successo delle piattaforme di streaming (che deriva dal precedente successo dei gameplay registrati), oggi videogiocare può essere fonte di guadagno siccome costituisce una nuova forma di intrattenimento. Come sa chiunque abbia frequentato le sale giochi fra gli anni ‘70 e i ‘90, oppure chiunque si sia ritrovato in casa con gli amici e abbia dovuto alternarsi con essi al controller, guardare videogiocare può essere estremamente coinvolgente e un prodotto coinvolgente, siccome cattura l’attenzione, ha un valore economico.
Il videogiocare dà quindi luogo a un prodotto video (che sia in diretta o registrato) che può essere fruito da un pubblico per ragioni di intrattenimento, di approfondimento o, in alcuni casi, come sostitutivo del videogiocare stesso nel caso di titoli per i quali si ha un interesse ma non l’intenzione, per qualunque ragione, di provarli in prima persona.
Ma come i giochi senza fondo tendono a farci dimenticare della realtà al punto da poterci danneggiare, così l’illusione di guadagnare denaro giocando (anche qui nutrita dai rarissimi casi di successo) può far dimenticare il fatto che la visibilità è una risorsa limitata, la cui scarsità sancisce che non ce n’è per tutti e che accedervi implica una competizione fra coloro che desiderano ottenerla.
In questo senso, le persone ancora poco dotate da un punto di vista critico possono pensare che sia facile, alla portata di tutti, in qualche modo automatico o, ancora peggio, dovuto, il guadagnare denaro semplicemente riprendendosi mentre si gioca. Costoro, come tutti quelli che credono che fare il content creator sia un modo facile di fare soldi, ignorano il fatto che qualcosa al pubblico va portato in cambio della sua attenzione: una capacità di risultare intrattenenti che può naturalmente declinarsi in molti modi, dai più nobili ai più beceri, ma che implica il fatto che prima di creare contenuti bisognerebbe curarsi di avere qualcosa da metterci dentro.
Il gameplay come contenuto online è il più facile da portare e quindi il più difficile da far emergere.
Conclusione
Questo mi porta alla reale conclusione che vorrei dare a questo video e che riguarda l’insieme delle persone che videogiocano, che sono a dir poco tantissime.
I videogiochi richiedono tempo, tanto tempo, e possono certamente valere quel tempo, ma non sono in nessun modo sostitutivi di altre cose che richiedono tempo e che altrettanto possono valere: istruzione, studio, vita reale ed esperienza nel mondo reale con persone reali. Difficilmente una persona carente in questi ambiti potrà disporre degli strumenti critici per giocare responsabilmente (e quindi non venire fagocitata dalle trappole della ludopatia) e per avere la chance di capire davvero i videogiochi o addirittura avere qualcosa da dire su di essi.
Come nessun altro medium, i videogiochi sono sfaccettati e come nessun altro medium essi sono esigenti. L’amor proprio e la cura di sé rimangono il vero biglietto d’ingresso per questo come per tutti gli altri mondi.
(questo articolo è il testo del video qui sopra, che ho pubblicato su WesaChannel il 10 dicembre 2020)