È opinione diffusa che tra i maggiori esponenti della difficoltà videoludica ci siano i giochi di From Software, da Demon’s Souls a Dark Souls, passando per Bloodborne e Sekiro, nonché tutti quei giochi che prendono spunto dallo stile souls declinandolo nelle più svariate versioni (i cosiddetti “souls-like”) e mantenendo, al contempo, le caratteristiche che più rappresentano il sottogenere di Miyazaki.
Sulle principali caratteristiche che rendono un gioco “come un souls” si può dibattere all’infinito, perciò non mi dilungherò. Tra le più riconoscibili ci sono una trama rarefatta raccontata attraverso indizi nel mondo di gioco, la divisione in aree interconnesse distinte da checkpoint (falò, lanterne, templi, ecc.), la perdita delle anime nel luogo della morte con possibilità di recuperarle e, soprattutto, la famosa difficoltà.
Sì, perché mentre alle varie caratteristiche si può aderire in maniera più o meno fedele all’originale (lo stesso Sekiro ha una trama più esplicita e non permette il recupero delle anime alla morte), un souls-like facile non sarebbe un souls-like. Facciamoci a capire, ognuno di noi può prendere in considerazione le caratteristiche che vuole e affibbiare a un gioco la definizione che preferisce, ma nell’immaginario collettivo “souls” è sinonimo di gioco hardcore, poiché si tratta di titoli molto impegnativi, dedicati a un pubblico che abbia voglia, tempo e pazienza di mettersi in discussione, imparare, migliorare.
Eppure, ragionando su Dark Souls (e stesso discorso vale per Bloodborne così come per numerosi souls-like), mi permetto di dire che le cose non sono proprio così. Ho completato tutti i giochi di From Software sopra elencati, a eccezione di Demon’s Souls, e ritengo che, tra questi, l’unico gioco veramente difficile sia Sekiro.
Sekiro: ogni tanto ti accorgi che la tua vita fa schifo.
Questo significa che ho finito gli altri come bevessi un bicchier d’acqua, in una mezz’oretta di tempo ogni due giorni e quasi senza mai morire? Ovviamente no, neanche per idea. Sono morto tante volte, ho imprecato senza ritegno trasformandomi in un essere riprovevole e ho, a più riprese, maledetto il gioco e chi l’ha inventato per l’inferno in cui mi ha “costretto” a lottare fino al culmine della disperazione più nera. Mi sono sentito oppresso, braccato, spaventato, terrorizzato all’idea di svoltare l’angolo e trovare una trappola, un boss, un ostacolo qualsiasi che mettesse a repentaglio la mia vita, vanificando la fatica fatta fin lì dall’ultimo falò; e ho tremato all’idea di perderne il frutto, quelle anime, tante, luminose, così importanti, la misura di tanto sforzo.
Sì, forse così è un po’ esagerato, ma è stata a tratti un’agonia videoludica non indifferente, con momenti di grande sconforto e picchi di soddisfazione nella sua forma più pura, un gaudio fanciullesco.
Eppure, oggi mi sento di dire: Dark Souls non è un gioco difficile. E non lo dico perché ho ormai superato l’ostacolo e posso fingere che mi abbia fatto il solletico, anzi, potrei dire che lo sia, estremamente difficile, e ciò magnificherebbe il mio traguardo. Ritengo che non sia un gioco difficile semplicemente per come è concepito. Andiamo per gradi.
Che cos’è un gioco?
Per Italo Calvino, che non parlava di videogiochi ovviamente, bensì di gioco enigmistico-linguistico, il gioco erano i vincoli imposti per raggiungere un obiettivo. Dato un certo oggetto del desiderio, si configurano come gioco tutte le strategie che possiamo adottare per ottenerlo tenendo conto di quelle che ci sono precluse, che stabiliscono il regolamento, e quindi la difficoltà del compito, in un’operazione di sottrazione delle possibilità.
In un cruciverba, il vincolo è che la parola cercata deve rientrare negli spazi messi a disposizione dallo schema, e deve incastrarsi con tutte le altre; ciò rende impossibile una risposta imprecisa, che non sia esattamente quella pensata dall’autore. Ad esempio, se data la definizione “sinonimo di lesto”, rispondiamo “veloce” anziché “rapido”, rispettiamo il vincolo del numero di lettere (in entrambi i casi, sei) ma ci accorgeremo dell’errore quando le parole verticali che si intersecano con “rapido” non faranno quadrare i conti.
Nel cubo di Rubik, occorre completare tutte le facce colorate, e se ne completiamo solo una o alcune senza tener conto della visione d’insieme, ci renderemo presto conto che il totale non torna. Il cubo di Rubik è un sistema in cui tutto si tiene, e ci sono esili margini di intervento: il vincolo è estremamente stringente.
Negli scacchi, i vincoli sono le mosse previste a ogni turno e il pattern di movimento consentito di ogni tipologia di pezzo sulla scacchiera.
Tutte le caselle raggiungibili dal cavallo, data una certa posizione di partenza. Un vincolo inaggirabile, come per tutti gli altri pezzi.
Ora, veniamo ai videogiochi. Anche in questo caso abbiamo un obiettivo, il completamento, e ci viene fornita una serie di strumenti per raggiungerlo. Attraverso il gameplay e le scelte di game design, ci ritroveremo di fronte una o più soluzioni per portare a termine il nostro compito e, a seconda di quanto stringente sarà il vincolo dato dagli sviluppatori, il gioco sarà più o meno flessibile alle nostre iniziative.
Non è detto che un gioco più vincolato sia anche più difficile, poiché la difficoltà risiede anche nella natura del gameplay, però un gioco che ci offrisse differenti soluzioni aprirebbe il fianco alla discussione sulla difficoltà delle stesse, in quanto alcuni approcci consentiti potrebbero, per alcuni giocatori, essere più efficaci per arrivare all’obiettivo rispetto ad altri.
Questo non è affatto un problema, anzi, è proprio la ragion d’essere della varietà di approcci. Se risolvo in stealth una situazione che tu non riesci a superare per i troppi nemici che ti aggrediscono, ho messo a frutto una risorsa intelligente che gli sviluppatori avevano considerato, e starà a te decidere se lo stealth ti può aiutare o se preferisci perseverare con l’offensiva a viso aperto. Se però, provando lo stealth, ti accorgi che si tratta di un espediente molto efficace e superi brillantemente quella fase di gioco così complicata, ritratterai la tua idea sulla difficoltà del gioco, convenendo che banalmente non avevi pensato alla soluzione più semplice. Tale soluzione, essendo la più efficace, può essere presa in esame per definire la difficoltà del gioco, più di quanto si possa prendere in esame un approccio più contorto. Questo perché la scelta del sistema più difficile dipende dalla poca avvedutezza del giocatore nell’interpretare l’obiettivo e gli strumenti a disposizione, e quindi a una sua errata percezione della complessità del compito.
Eppure era così facile… No, aspetta, qua c’è del genio!
C’è anche da dire che la difficoltà di un gioco potrebbe risiedere nel comprendere quale sia la strada più semplice, che talvolta non è sotto i nostri occhi bensì da trovare aguzzando l’ingegno, ma in un discorso più generale, la difficoltà di un gioco è da misurare nell’approccio più agevole che offre, poiché questo è compreso nelle possibilità offerte dal suo ideatore. Se decido di completare un cruciverba leggendo solo le definizioni orizzontali, il compito sarà più difficile perché non sto sfruttando una risorsa compresa nel patto tra me e il gioco. Può darsi che io non abbia capito il gioco, oppure che mi stia imponendo un vincolo volontariamente per rendere la sfida più interessante, ma quel cruciverba non è per tutti così difficile perché io ho deciso di non leggere le definizioni verticali.
Tornando a Dark Souls, perché non lo ritengo un gioco difficile, sebbene per me lo sia stato?
La risposta è molto semplice: il sistema di livellamento.
Nel giocare Dark Souls, ci troviamo a fare un patto con noi stessi, che decideremo eventualmente di rispettare o modificare, e cioè in quali condizioni e con quale frequenza salire di livello. La risorsa del grinding, infatti, è ciò che trasforma Dark Souls da gioco molto difficile a gioco facilissimo, per il semplice motivo che, con tanta pazienza e olio di gomito - leggasi livellando selvaggiamente quando e come si vuole - il gioco diventa estremamente facile. Ritrovarsi contro i più temibili boss della saga a un livello molto alto, frutto di ore e ore di raccolta di anime contro i più semplici mob, trasforma un combattimento potenzialmente ostico in una pratica svelta e indolore.
Ornstein e Smough, Il Re Senza Nome, Midir non sono difficili. Sono facilissimi, a patto di non porci limiti non richiesti dal gioco. Questo, di contro, ci offre tutte le risorse possibili (smisurate!) affinché il divario tra noi e il boss di turno sia senza storia, come se ci dicesse “tieni, se livelli puoi stendere tutti con una manciata di colpi. Se vuoi che il gioco sia più difficile, fai tu”. Dark Souls chiede direttamente a noi che esperienza di gioco desideriamo, lasciandoci piena gestione. È un cruciverba che ci incarica di disegnare le caselle, un cubo di Rubik in cui sia lecito staccare i colori e riattaccarli a nostro gusto.
Spendendo anime, si possono alzare le statistiche senza limiti. A quel punto, il gioco diventa una passeggiata.
A mio parere, questo è un limite di game design, e ben poco mi convince questa flessibilità secondo cui il gioco offrirebbe al giocatore la scelta della difficoltà. Il gioco è i suoi vincoli, e questi devono essere pensati dagli sviluppatori affinché il giocatore non sia lasciato a se stesso. Questo, di fronte alla difficoltà, alla frustrazione, al terrore, sarà portato ad abbassare la pretesa del gioco nei suoi confronti, e così facendo la sua esperienza sarà difforme da quella ideale pensata da chi il gioco lo ha concepito secondo determinate scelte. Di contro, si potrebbe dire che uno sviluppatore potrebbe prevedere ogni possibile esperienza e ritenerle tutte ugualmente valide, ma allora quale sarebbe l’identità, la scelta autoriale, il design del gioco?
Al trentottesimo “you died”, e a svariate migliaia di anime perse, il giocatore incontra volentieri la possibilità di livellare, in barba allo sport.
Un gioco difficile non dovrebbe essere affrontabile secondo un approccio che lo renda facile. Anche perché tutto ciò che il gioco offre è lecito, non si sta parlando di barare. Se anche cedessi alla tentazione di dire a un amico che si è rovinato il gioco salendo troppo di livello, avrei torto nel momento in cui lui mi chiedesse che cosa io intenda con “troppo”. Scacco matto. Non è lui a essersi rovinato il gioco, ma il gioco a essersi dispiegato a lui in uno dei suoi mille volti, che per me (o anche per lui) può essere un volto brutto, da evitare. Inoltre, con una possibilità di crescita che va da zero a infinito (in realtà a 713, ma facciamoci a capire), nessuno può stabilire, presuntuosamente, di aver giocato nella maniera ideale poiché tutte le maniere lo sono, se previste dal gioco, e non ci sono riferimenti per decidere chi si sia avvicinato di più all’esperienza pensata dagli sviluppatori.
Dark Souls è un gioco maestoso, ma ognuno di noi lo racconterà in modo diverso. In termini di difficoltà, non staremo mai parlando della stessa esperienza, a meno di non esserci imposti gli stessi vincoli, e anche in quel caso, chi ci dice che sia il modo giusto? Seguendo i vincoli imposti dal gioco, gli unici assoluti e non autodeterminati, Dark Souls non è un gioco difficile; siamo noi a disegnarlo così.