Nel mio articolo precedente mi sono posto una domanda: l’arte videoludica è propensa ad avere spessore e significato, o è più propensa a sprecarlo? Indubbiamente l’assetto della gaming industry indirizza allo spreco. Dopotutto, ricerche di marketing e di trending possono analizzare e ricombinare di tutto, ma non produrre lo spessore artistico – si riesce a stento a capire cosa sia, figuriamoci a produrlo con ragionevole certezza. Spesso noi giocatori ci troviamo a urlare allo schermo: “Ma non potevi assumere uno sceneggiatore bravo?” (come appunto ho fatto io con Steelrising), ma questa è un’ingenuità: nessuno sa con esattezza cosa sia bello e cosa no, cosa costituisca una bella scrittura e cosa no. Qualcuno risponderà: li troverebbero gli autori, se li andassero a cercare tra gli indie, tra chi ha scritto Braid e To The Moon; facile dirlo a posteriori. Noi vediamo i Braid e i To The Moon che ce l’hanno fatta, non l’esercito di autori indie mancati, riconsegnati all’oblio. Definire affidabilmente cosa faccia sì che un prodotto ci tocchi, ci meravigli, ci interroghi, ci formi, è forse impossibile, e tentativi didascalici di riuscirci per forza – di “educare” il lettore, spettatore, fruitore – spesso risultano goffi e irritanti. Anche per questo è così restia una grossa produzione a puntare tutto su questo, e d’altro canto è infantile pensare che, di conseguenza, chiunque lavori alla narrativa di una grossa produzione lo faccia da prezzolato, e conscio di non starci mettendo niente di autentico e sentito. Final Fantasy 16 entra in questo discorso proprio a questo punto: cos’è una storia scritta bene, o significativa, o toccante? Cosa fa il salto dall’intrattenimento all’arte, e arriva a darti qualcosa di prezioso? Per me è impossibile parlare di questo gioco e valutarlo senza parlare della sua narrativa.
C’è l’aspetto videoludico, certo. Non stiamo giudicando un romanzo. Bellissimo combat system, opera di un maestro del settore (Suzuki di Devil May Cry e Dragon’s Dogma) che riesce a essere tutto sommato divertente pad alla mano malgrado la spinta forzatissima di difficoltà verso il basso faccia di tutto per rovinarlo e togliergli senso (che senso hanno i proiettili elementali se non c’è debolezza elementale? Che senso hanno le performance rapide o sceniche se non ti viene dato un punteggio in punti-abilità o altro? Che senso hanno i companion se puoi impartire ordini solo ad uno tra loro? Che senso hanno i livelli di difficoltà se quello normale è bloccato per la prima partita?). Quest design assolutamente inescusabile da professionisti come quelli coinvolti tra cui l’ormai leggendario Yoshida: parliamo di fetch quest che sarebbero state imbarazzanti dieci anni fa e mangiano la polvere dai minigiochi scemi di Final Fantasy 7, 8, 9 (giochi di più di vent’anni fa) e che proposti nello stesso anno di Tears of the Kingdom (di cui Yoshida è fan! WTF) sono da denuncia; c’è chi osserva che le ministorie delle quest sono scritte benissimo (non è vero: solo alcune, altre sono scritte bene ma non benissimo, altre sono meh) ma questo è in realtà è un difetto, perché ti obbliga per avere scene anche molto interessanti a giocarti delle quest penose. C’è chi loda i miniboss opzionali (le cosiddette “cacce”) che sono sì divertenti e relativamente sfidanti, ma allora ti chiedi perché non li hanno messi nelle side-quest per rendere meno insulse le quest e meno insignificanti le cacce: per dire che il gioco ha l’una e l’altra? Paradossalmente alcune delle quest migliori sono quelle dove senza nemmeno uscire dall’HUB vai, parli, ti godi la scena, e basta: ti viene da ringraziare… e per i motivi sbagliati.
Se si vuole discutere di quanto mantenga una componente strategica da GdR, facciamo presto: nì, dato che puoi farti diverse build ma non c’è certo di mezzo una profondità strategica (o meglio ancora: c’è, ma perché curarsene?). Se si vuole discutere di quanto sia un Final Fantasy, facciamo di nuovo presto: sì, dato che chi decide cosa sia un Final Fantasy ha deciso che lo è. Non c’è leveling (di nuovo, o meglio: c’è, ma solo in apparenza, ed era il caso di non metterlo proprio) né grinding né farming, e questo sarebbe un bene – ma allora cosa ti dà il gioco per ricompensare il tuo lavoro? Le ricompense per ciò che fai sono tonnellate di materiali che letteralmente non hanno uso nel gioco, e ad epoca di Elden Ring anche questo è un errore difficile non solo da scusare ma anche da capire. Regia, recitazione, estetica, spettacolarità e sonoro sono vere pietre miliari, in quelle il gioco ha probabilmente settato uno standard con cui gli altri giochi dovranno confrontarsi d’ora in poi. Tanto più stupefacente pensare che le colonne sonore, vero collante di tutto, sono opera di un Soken che lavorava dall’ospedale lottando contro il cancro: non cambia la qualità delle musiche, sia chiaro, ma lascia stupefatti. Citando il commento di un bravo recensore, Aligi Comandini detto il Pregianza, si ha a che fare con un titolo piacevole ma si ha la sensazione che ci sia proprio un tetto massimo di qualità di Square-Enix, che sia proprio incapace, ormai, di sfuggire a strafalcioni di desolante mediocrità. Ma, si dirà, che passo avanti rispetto agli ultimi dieci anni di Final Fantasy! E’ vero, tanta cura salta all’occhio – ripetiamo, in quanto a spettacolo visivo e sonoro, il gioco da una pista a quasi tutto – rispetto a tanta passata mancanza di cura che ancora brucia; e ancor più quando il gioco ti colpisce con la cura che ha, ti stordisce pensando alla cura che spesso non ha. Viene da lodarla, questa cura. Ma per i motivi sbagliati.
Si potrebbe scusare tutto questo – e non si deve, non si deve – dicendo che tutto sommato è il gioco con cui Square-Enix vuol far tornare Final Fantasy un marchio mainstream. E’ un gioco pensato per il casual gamer, o per (cito un caso che ho a portata di mano) la professoressa italiana trapiantata in Pennsylvania che amava la serie da ragazzina, e che a fine giornata vuol solo godersi una cara vecchia storia emotional a tema high fantasy senza troppi sbatti: amava la serie per questo, dopotutto, e la ama ancora, e delle nostre lagnanze da nerdoni non gli frega, giustamente, una benemerita. C’è di male a fare giochi per questo target? Ovvio che no. Non giocando Final Fantasy 16 pad alla mano si potrebbe immaginare una giustificazione di questo tipo. Ma: no. E non solo perché la nostra fanciulla impegnata che insegna allo York College è la stessa che si è finita tutti gli altri Final Fantasy e che oggi ha meno tempo, non meno neuroni. Ma perché i vecchi giochi della stessa serie sapevano prendere il casual gamer lasciando le sfide segrete più brutali per gli altri. Sapevano creare sistemi (moderatamente) complessi da padroneggiare, ma senza che il gioco ti obbligasse a fermarti se non eri un asso. Ehi, si dirà: lo fa anche questo gioco. Dopotutto, in classico stile JRPG, se sei bravo lo finisci in fretta e in modo divertente e interattivo, se sei brocco lo finisci comunque solo che ci metti più tempo e i combattimenti si fanno ripetitivi – come nei vecchi giochi. Qui non c’è la scappatoia del leveling/farming/grinding, ma comunque il sistema ti permette di cavartela e non ti ferma mai del tutto. Di nuovo: in teoria sì, se hai giocato pad alla mano no. La difficoltà è davvero troppo bassa, troppo per un gioco che peraltro ti fa iniziare con 4 accessori opzionali “per l’accessibilità”, cioè che rendono il gioco capace di giocarsi da solo; troppo bassa per un gioco che ti dice espressamente in apertura che puoi giocare a “facile” e “storia” e che la modalità normale è un premio da guadagnarti solo finito il gioco. A quel punto, che sia uno dei Final Fantasy più corti della storia diventa un pregio: ma per i motivi sbagliati.
Ryota Suzuki ha definito questo combat system “il suo capolavoro” (e di altri? Si vedono influenze del combattimento ad area-effect tipico degli MMO e della mobilità alla Kingdom Hearts). Tocca dargli ragione. Che questo gioco sia divertente da giocare lo si deve tutto a lui e sembra quasi che l’intero titolo gli lavori contro con alacre solerzia per rendere il gioco divertente quanto una sassata nei denti malgrado il combat system. Quindi il “capolavoro” spicca ancor di più… per i motivi sbagliati.
Ma, dirà qualcuno: non hai parlato della storia, e hai aperto l’articolo dicendo che ne avresti parlato come punto principale. Certo, come detto, è impossibile valutare questo gioco senza la storia. Come molti amici e fan di vecchia data con cui ho parlato, la storia risulta – non per tutti, ma per tanti – convincente, e in diversi momenti toccante. E’ un vero enigma perché lo sia, però. Del perché mi abbia coinvolto e commosso ho davvero dovuto discutere con me stesso, semmai questa discussione abbia senso farla, se non sia totale soggettività e tutto sommato non sia inutile anche parlarne con altri. Si potrebbe liquidare il tutto con: bè, ti ha toccato perché ti ha toccato, è del tutto personale, e bona lè (niente di sbagliato in effetti). Ma sono davvero sinceramente convinto che sia impossibile valutare la storia in maniera obiettiva e che, pure, bisogna valutarla. La si può trovare esaltante, o del tutto insulsa: dipende. Dipende talmente tanto che ne parlerò in un altro articolo. Eppure è per quell’ineffabile, quella sensazione inquantificabile, difficile da argomentare, assurda da misurare, che tutto sommato questo gioco l’ho giocato volentieri. Per i motivi giusti, credo.
E qui finisce la recensione. Voto: boh, qualcosa tra 5,5 e 3 a cui dovete aggiungere la storia, che però potete farla valere da 2 a 0. O forse 3, se siete cresciuti con gli stessi anime con cui sono cresciuto io? Non lo so. Che minchia sono sti voti dopotutto.