Final Fantasy 16, pt2 di 2 / In Chad We Trust
Perché Clive Rosfield è l'eroe di cui avevo bisogno
WARNING: TOTALMENTE SPOILER DELLA STORYLINE DI FINAL FANTASY 16
Che senso ha scrivere una recensione con voto, senza voto? Forse per dire che l’apprezzamento della bellezza è qualcosa di soggettivo, e oggettificarlo con un numero è vana e malriposta ambizione, l’aspirazione descritta da Kant come soggettiva-universale. Ma il sentimento soggettivo non è necessariamente solipsismo o capriccio: si può parlare del sentimento, si può condividere. Non si può (né si vuole) convincere nessuno della bellezza, ma si può provare a comunicare quel quid pluris che innesca il “libero gioco delle facoltà” kantiano, per cui qualcosa inspiegabilmente interroga il nostro senso del bello, in modo diverso da semplicemente “gradevole”. Ha qualche sostanza, questo sentimento personalissimo, non argomentabile? E’ questo che fa fare il salto da intrattenimento ad arte? E per chi?
Partiamo dalla storia della storia. C’è chi dice che la trama sia un mischione di Game of Thrones, Attack on Titan e Gurren Lagann. Non proprio. In realtà, l’ispirazione principale di questo Final Fantasy è… Final Fantasy. Chi ha giocato i Final Fantasy Type 0, 12, 13 e 15 riconoscerà il ribaltamento del fulcro narrativo dei vecchi Final Fantasy 1-5: i cristalli. Non a caso uno dei molti sotto-brand di questo nuovo corso narrativo – di cui il 12 è parte tematicamente ma non nominalmente – era “la Fabula Nova Crystallis” con un pacchiano ricorso al latino (purtroppo marchio di fabbrica). L’idea viene da Nojima del fu-trio fu-geniale Nomura-Kitase-Nojima e ci ricorda che il vecchio Kazushige è stato comunque un autore di razza: nei primi cinque capitoli i cristalli erano oggetti naturali ma intrinsecamente divini, pilastri della creazione che garantivano prosperità, abbondanza, salute, energia, forza, a beneficio dell’umanità e senza nulla chiedere in cambio – erano l’idea oggettivata di un mondo a misura d’uomo. Nojima si domandò nei primi 2000: ma se fosse l’ossessivo antropocentrismo umano a farci credere qualcosa di così idilliaco? Se tendessimo a interpretare tutto ciò che viene dai cristalli come positivo in maniera ingenua, o addirittura ottusa, a volte controintuitiva persino? Se i cristalli fossero entità amorali, o anche negative, quale sarebbe la storia di protagonisti che cercano di convincere il mondo a rinunciare a ciò che gli ha garantito benessere, comodità e vita? E come si comporterebbero gli umani, ma soprattutto i loro governi, convivendo con questi dei-oggetto che forzano chiunque non voglia vivere nella miseria a combattere per averli per sé? Il tentativo di usare questa intrigante premessa ha prodotto alcuni giochi di buona fattura (FF12, FFT0) e un paio di disastri paradigmatici (FF13 e FF15) oltre alle crisi isteriche e ritiro dal lavoro di autori leggendari (Matsuno di Vagrant Story) o appassionati (Tabata sempre impegnato a salvare progetti che Nomura lascia a metà).
Perché tutta questa premessa? Perché se cancellassimo questi ultimi quindici anni e chiedessimo a qualcuno di scriverci una storia partendo da questa premessa, probabilmente avremmo Final Fantasy 16, letteralmente un insieme di punti topici di questo filone, solo che stavolta sono incollati col cemento invece che con lo sputo. In sostanza, Final Fantasy 16 è null’altro che il tentativo finalmente compiuto di mettere in scena dignitosamente la Fabula Nova Crystallis (sì: suona ridicolo per quante volte possa capitarvi di ripeterlo). Verrebbe da dire: ok, non un brutto setting, ma in sé niente per cui saltare dalla sedia.
Gli antagonisti? Dopotutto, nella Fabula Nova Crystallis (fa ancora ridere? Tranquilli normale) c’erano alcuni degli antagonisti più interessanti della serie: Vayne, gli Occuria, Aulstyne, i Fal’Cie, Caius, Ardyn, tutti hanno subito l’ingiusta onta di appartenere ad un’epoca di giochi discutibili se non brutti, ma erano affascinanti. Buttati nella monnezza come Libeccio di René Ferretti, ma affascinanti.
Gli antagonisti di Final Fantasy 16 partono tutti da premesse molto intriganti e anche quelli all’apparenza banali hanno più livelli di quanto appare; è un cast variegato, che tormenta gli eroi a più riprese attirandosi il giusto odio viscerale. Ma se vi interessa sapere cosa gli autori fanno con questi profili sulla carta interessanti, la risposta è “ben poco”. Nessuno di questi personaggi approfondisce i suoi temi o giunge a dire qualcosa di spessore su nessuno dei suoi rispettivi filoni, e non si capisce se la scrittura sta optando per uno show-don’t-tell o uno shonen don’t tell. Anzi: in certi momenti in cui la scrittura potrebbe farsi interessante e filosoficamente provocatoria, improvvisamente si banalizza e appiattisce; c’è per esempio un dio-Engineer alla Prometheus che butta considerazioni profonde su cosa sia l’identità e l’autocoscienza: esistono a sé stanti, o solo come riflesso della relazione con gli altri? Volontà e arbitrio esistono e hanno sostanza o sono il prodotto dell’equazione di comunicazioni più esperienze? E dunque le coscienze possono esistere da sole? Appena il discorso potrebbe farsi provocatorio e profondo, la scrittura si shonenizza accontentandosi dei personaggi che dichiarano che i loro legami non si spezzano facilmente. Si vede quasi fisicamente l’intervento della dirigenza della Square-Enix, che nella decade scorsa dichiarò candidamente: vogliamo vendere le nostre storie in Occidente e questo significa presentarle in maniera semplificata e appiattita per il vostro gusto (gulp!). Questo intento semplificatorio lo vedi proprio materializzarsi davanti a te e inserirsi nella scrittura con la delicatezza di una certa scena di Berserk che coinvolgeva un cavallo. In realtà, in parallelo quello che è stato fatto anche col combat system: poteva essere un filino strutturato, ma non sai mai che noi poveri gaijin rincoglioniti non l’avessimo gradito, come dopotutto non abbiamo gradito da Final Fantasy 6 fino al 12, o giochi ben più complessi e sfidanti di qualsiasi Final Fantasy… o quantomeno, ne sono convinti. Final Fantasy 16 vuole parlare di tante cose – di ecologia versus comodità, autodeterminazione contro quieto vivere, ghettizzazione, rapporto servo-padrone, dell’incontro di ossessioni personali e politiche, dell’angoscia dell’autocoscienza, della mancanza di scopo dell’esistenza – e in effetti ne parla anche, ma di nessuna di queste cose parla in modo particolarmente ficcante.
Quello che davvero colpisce e tocca di questa storia non sono i suoi temi, né i suoi antagonisti; ma i suoi protagonisti. E di nuovo sembrerebbe che non c’è granchè da plaudere a questo cast: è un gruppo di brave persone messe in circostanze tremende, e costrette a fare scelte difficili, ma che tutto sommato restano brave persone. Forse è il riassunto di come NON scrivere un cast di protagonisti. Ma qui entra in scena qualcosa che non dovrebbe: il contesto. Non dovrebbe entrarci, perché tutti sappiamo che un’opera andrebbe valutata come a sé stante. Star Wars Ep.11 non diventa più bello perché Star Wars Ep.12 è tremendo, dopotutto. Ma in questo caso ignorare il contesto è sostanzialmente impossibile, perché è il contesto della narrativa giapponese per ragazzi, il contesto con cui siamo cresciuti, e di cui Final Fantasy è sostanzialmente un esponente. Ora: la narrativa giapponese ha, da tre decadi a questa parte, ben pochi protagonisti che riescano a sfuggire ai suoi due archetipi di eroe: o lo “scimmiotto”, uno apparentemente tonto e goffo che vince l’amore di tutti con la purezza dei suoi sentimenti malgrado i limiti intellettivi; o l’eroe tragico, talentuoso, intelligente e affascinante ma tarato da grandissimi difetti personali e tragedie piuttosto irrealistiche che lo rendono un tormentato e, cosa importante, uno stronzo. Sono Goku e Vegeta, approdo finale banalizzato ed estremizzato e (per questo?) infinitamente imitato del dualismo atavico, del fil rouge che passò per Ken/Raoul e Pegasus/Phoenix. Insomma: o sei un cuore nobile, ma probabilmente sei un idiota; o sei un vero fico, e probabilmente sei un insopportabile egocentrico stronzoide. Tutto questo è molto surreale, e passati i venticinque è davvero difficile immedesimarsi o trovare interessanti dei personaggi che, crescendo, suonano fastidiosi e irrealistici, quasi urticanti. Eppure sono i personaggi del tuo immaginario pop.
Tutto questo è così distante da come sono scritti i personaggi di Final Fantasy 16, che si fa fatica a misurarlo. Clive Rosfield, diventato istantaneamente uno dei protagonisti più apprezzati della saga, è afflitto da problemi alquanto terreni e comprensibili, come un fratello minore malato, aspettative che non riesce a soddisfare, una madre che non lo ama, e una gentilezza che nella sua epoca è malvista; ma non li manifesta con monologhi drammatici, scenate assurde, comportamenti isterici: i suoi atti sono realistici altrettanto quanto le loro cause. Pur mutando molto nei tre periodi della storia (da 15 a 28 a 33 anni) mantiene – o meglio recupera – la sua natura fondamentalmente buona, a tratti tenera e sofferente; in particolare, in un’epoca in cui si fa tanto parlare di mascolinità tossica la rappresentazione dei personaggi maschili è davvero rinfrescante: si rappresenta dolcezza, empatia, premura e complicità tra amici maschi che rimangono comunque assertivi, sicuri, competenti, eroici contrariamente a una scrittura moderna (per il vero: soprattutto dei blockbuster occidentali) che s’immagina di strizzare furbescamente l’occhio alla politica rappresentando maschi imbelli al traino di donne sempre eccezionali. In generale, tutte le volte che abbiamo visto un protagonista di shonen/jrpg reagire in un modo che ci ha fatto chiedere chi è il coglione che reagirebbe a quel dato modo, ecco, in tutte quelle occasioni Clive reagisce come avrebbe reagito una persona normale con la storia e il carattere e i difetti di Clive, e lo stesso si può dire degli altri protagonisti; sembrano persone, non macchiette, e spesso la scrittura lo comunica con una frase interrotta, un’occhiata distolta, una spiegazione non data. C’entra molto il valore di produzione: le espressioni, le omissioni, gli sguardi, i sussulti, i singhiozzi, le urla disperate, i pianti silenziosi, sono ben serviti da grafica, sonoro e recitazione senza le quali la scrittura forse brillerebbe meno, ma bisogna riconoscere una delicatezza continua nel mandare avanti i personaggi, e una credibilità che ti entra nella pelle; non sono “edgy”, “sassy”, “gritty”, non sono facilmente racchiudibili in una combinazione di tropi narrativi, non sono angelici né maledetti, non sono infallibili né stupidi. Sono risoluti, ma a volte vacillano; sono indomiti, ma anche manipolabili; a volte tentano di capire e di pacificare, altre volte sono rabbiosi e violenti a seconda delle circostanze; sono innamorati, e fanno quello che fanno gli innamorati: scopano. Si vede questa delicatezza soprattutto nella (prima) storia d’amore gay di un Final Fantasy, in cui Dion Lesage, uno dei personaggi più interessanti, tragici e cool è (anche ma non solo) un omosessuale. Le scene col suo amante sono intense e significative, giocano un ruolo in un personaggio che non è definito dal suo orientamento né sta lì a fare rappresentanza, e fanno sembrare ridicole le gay romance di giochi (vedi Horizon: FW, che pure è un buon gioco) che chiaramente vogliono sbatterti in faccia la loro presunta modernità forzandoci dentro una storia d’amore con il tatto e la spontaneità di una carcassa di maiale sparata contro un presepe.
Si potrebbe scrivere un intero articolo sul perché la narrativa nipponica per adolescenti dove il sesso è continuamente alluso come prurigine ma nei fatti evitato con puritanesimo schizofrenico abbia sbarcato e sbancato proprio nell’Italia berlusconiana di Mediaset – ma basti dire che quando ti rendi conto che Clive e Jill fanno l’amore, forse lo hanno fatto altre volte, certamente lo faranno ancora, ti viene un senso di straniamento che ti fa porre meste domande sui tuoi anni di formazione.
Insomma, ti affezioni a questa marmaglia perché puoi credere che esistano. E a quel punto che il finale diventi un visual porn citazionista degli shonen più tamarri (davvero Gurren Lagann) non ti suona così male. Fa uno strano effetto di shock culturale vedere che a salvare il mondo volando in uno spazio iperonirico cosmico-spirituale di pura creazione e distruzione (attenzione: le ultime parole che avete letto non significano niente, e non per errore) è un tizio che tutto sommato ti somiglia, o potrebbe somigliarti. Uno che sta nello schermo di un televisore, ma che quando a te verrebbe di essere gentile, si comporta con gentilezza; quando ti verrebbe voglia di dare una mano, invece da dare una risposta da fascinosa testa di cazzo, risponde: come posso aiutare? Uno che quando gli chiedono come si sente, invece di volgere lo sguardo da bel tenebroso all’orizzonte dicendoti che a lui non serve nessuno, dice effettivamente come si sente, piange, abbraccia, bacia; se deve celebrare un momento importante sta con la sua ragazza invece di mangiare una tavolata di diciotto portate; se gli dicono di darsi una svegliata, non risponde ridendo che non capisce niente e vantandosi del fatto che gli basta il coraggio o l’amicizia per risolvere tutto; se odia qualcuno, non lo vince moralmente con la purezza del suo cuore – lo fa a pezzi. Ed eri così abituato a quella roba che vedi letteralmente i momenti in cui potevano mettergli in bocca queste battute, e provi un sollievo fisico quando la scena passa, un po' come se percepissi di aver schivato un proiettile di cringe compresso. Clive è un essere umano verosimile in una situazione alla Final Fantasy, una curiosa chimera che capitana una squadra di chimere sue simili, credibili quanto lui. Non ci aveva pensato nessuno.
E’ l’epopea di elogio del “Chad”, termine che era nato – nella community Incel – come insulto allo stereotipo del maschio muscoli soldi, sesso e status, e che si è contro-evoluto nel meme del maschio sicuro di sé che non ha bisogno di fare lo stronzo per compensare le sue ferite, e che ben si applica a Clive, Dion, Cid, Gav, molti dei protagonisti. Clive non ha un finale felice, e non lo ha il mondo che “salva”. Ma Clive verrà ricordato come uno che ha fatto del suo meglio, e tutto sommato è tutto quello che da bambino aveva voluto, e che si è meritato. Ma soprattutto, che ci ha fatto desiderare per lui: Clive si fa voler bene. Questo rende buona la narrazione, anche se non ti sconvolge con i suoi argomenti? E non dovrebbe essere sbagliato giudicare bene dei personaggi per quanto sono scritti male altri? Ma non puoi negare a te stesso che, quando li vedi a schermo, tifi per loro. Perché ti piacciono.
E’ una storia efficace (ma voleva esserlo?), quasi urtante, nel farti percepire una semplice verità: se, come molti, hai sempre faticato per non essere – almeno consapevolmente – un coglione con il tuo prossimo, vai alla grande così, anche se hai passato l’intera infanzia a veder rappresentati come eroici, fichi e attrattivi dei comportamenti che erano, all’osso, da veri coglioni.