Fumito Ueda e il game design
Con Shadow of the Colossus Ueda si concentrò molto sull'innovazione del design di gioco, che diventa così il perno attorno al quale ruota la sua poetica
Quando nel lontano 2006 le riviste cartacee di videogiochi andavano ancora per la maggiore, in Italia spopolava, tra le altre, l'ormai defunta PSM. Nel numero di giugno di quell'anno – oltre a improbabili pronostici rigorosamente in terza di copertina sui mondiali di calcio di Germania, che tra l’altro ci azzeccavano clamorosamente vedendoci vincitori in finale, ma contro il Brasile – la redazione di PSM si occupava dell'E3 andato in scena a Los Angeles, il cui evento di punta era la presentazione ufficiale di PlayStation 3. Tra i tanti discorsi su design, prezzo e potenza hardware della console, alcune delle colonne della rivista erano però dedicate alla current gen di allora, quella di PlayStation 2. Visto l'imminente passaggio generazionale, uno degli articoli si occupava della solita e annosa questione delle top di fine generazione. PSM aveva stilato non una, ma tutta una serie di Top 10 divise ognuna per categoria: si passava dalla simulazione sportiva allo sparatutto, dal GDR all'avventura e così via. Una delle Top 10 era dominata da un titolo uscito solo pochi mesi prima, un’opera che PSM non smetteva mai di elogiare e che sin dal suo approdo in Europa aveva fatto tanto parlare di sé, generando un alone di mistero ed epicità: Shadow of the Colossus, il nuovo gioco di Team ICO. In un periodo di passaggio tra una console e l’altra, l’aura che avvolgeva Shadow of the Colossus era anche legata al fatto che, come notavano PSM e gli esperti in generale, il gioco proponesse vere e proprie prodezze tecniche per il tempo, che unite alla sua unicità narrativa contribuivano a dare una sensazione di canto del cigno di PlayStation 2. Alla sua pubblicazione, per chi come me era ancora troppo piccolo per potersi permettere di spendere sessanta o settanta euro per un gioco appena uscito, il gioco colpiva in special modo perché, oltre a essere economicamente poco accessibile e quindi oggetto del desiderio, veniva descritto come un'esperienza profondamente diversa rispetto a quelle fatte negli altri videogiochi del tempo, per molti l'acme dell’intera generazione. Sulla base di quello che potevi leggere sulla stampa di settore ti formavi l'idea di un videogioco che tutto faceva fuorché accompagnarti per mano – curioso, se si pensa al ruolo di Yorda in ICO, il primo titolo di Fumito Ueda – e che tramite il suo silenzio non faceva altro che evitare di dare quelle risposte che normalmente si era abituati a ricevere giocando a videogiochi più, per così dire, espliciti. È stato solo anni dopo che, quando ho potuto recuperare Shadow of the Colossus nella versione di Bluepoint (cosa che di per sé meriterebbe un capitolo a parte, visto che giocare a un remake non è come giocare l'originale, ma per approfondire la questione vi rimando a questo articolo) mi sono reso conto del perché quel videogioco, in un periodo in cui il mezzo era senza dubbio meno “consapevole” rispetto a oggi, generasse un’aura che tendeva a separarlo rispetto a qualsiasi cosa fosse presente sul mercato.
Recuperare il remake di Shadow of the Colossus mi ha spinto di fatto ad approcciare anche le sue versioni precedenti, sia quella PS3 che l'originalissimo di PS2, per avere una panoramica più completa del perché quest'opera sia tanto importante per lo sviluppo del mezzo nel suo insieme. Se, infatti, il primo lavoro di Ueda può essere considerato seminale per il ruolo che ha giocato nella reinterpretazione del videogame come mezzo espressivo1, Shadow of the Colossus è un'opera con una formula a sé, e ancora oggi si fatica a trovare giochi che volutamente ripropongono un'esperienza analoga in tutto e per tutto. Là dove ICO è stato fondamentale come opera presa nel suo insieme, Shadow of the Colossus ha mostrato la sua influenza spesso per le sue parti prese singolarmente, dagli aspetti narrativi a quelli di gameplay. Ciò che intendo dire è che se è possibile trovare giochi che ripropongono la formula sviluppata in ICO (come nel caso di RiME, per dirne uno), con Shadow of the Colossus avviene che non altrettante opere abbiano provato a replicare il gioco 1:1 nella sua esperienza d’insieme, ma solo in questo o quel determinato aspetto.
È però il lato del game design puro quello che ha reso l'opera non solo il lavoro di maggior successo di Ueda (sia dal lato pubblico che da quello della critica), ma un apripista su quello che è il ruolo del design come parte costituente della poetica di un'opera (o di un autore). Nel caso di SotC, infatti, per capire appieno le questioni inerenti alla struttura narrativa del racconto, al suo gameplay e all'esperienza di gioco in senso stretto, è fondamentale capire quali scelte Ueda e Team ICO abbiano preso in fase di studio e progettazione. Capendo questo è possibile capire perché determinati elementi di SotC siano stati così influenti da un punto di vista anche storico: se, per capirci, ICO è una delle ragioni per cui abbiamo il caro vecchio Dark Souls, SotC è una delle ragioni grazie alle quali Dark Souls è fatto in quel determinato modo. Per capire come le scelte di game design siano parte costitutiva della poetica di Fumito Ueda, cerchiamo di analizzare le decisioni prese da lui e dal suo team, in modo da avere chiaro quale sia il solco generato dal gioco all'interno della storia del mezzo.
DALL’ANIMAZIONE AL DESIGN
Quando Ueda abbandona la carriera da artista2 e decide di passare ai videogame, si rende conto che c'è un aspetto in particolare che lo affascina di questo mestiere: è l'idea che, nel caso del videogioco, tutti gli elementi debbano concorrere a un fine che non è per forza narrativo o semantico, ma espressivo in senso lato. La potenza di un videogioco, capisce ora Ueda, sta nella maniera in cui la coordinazione tra le varie parti della struttura (gameplay, narrativa, level design e via dicendo) lavorano in sinergia per elaborare un prodotto che possegga un'unicità espressiva difficilmente riproponibile con un altro mezzo. È per questo che, dopo poco più di un anno di permanenza nella software house WARP, Ueda decide di abbandonarla per mettersi in proprio. Spinto dal desiderio e dall'esigenza di creare un videogioco che adempisse a questo bisogno espressivo, Ueda si mette a studiare grafica 3D, e persino quando Sony si interessa ai suoi lavori e gli offre una posizione full-time lui decide di declinare l'offerta, perché un lavoro a tempo pieno gli impedirebbe di sviluppare il videogioco al quale sta lavorando autonomamente. È solo quando Sony gli domanda quale sia questo fantomatico progetto che Ueda gli presenta ICO, il cui design unico attrae la major e gli fa capire che si trova di fronte a una persona con una visione chiara di quello che debba essere l'impianto espressivo della propria opera. Il risultato è che Ueda, squattrinato e autodidatta del 3D, ottiene un team e carta bianca per sviluppare ICO. Dopo l'uscita del titolo, Ueda si rende conto che se vuole continuare a esprimersi tramite i videogiochi deve seguire la strada che porta all’innovazione e all’approfondimento del game design, l'elemento che su tutti gli altri ha contraddistinto ICO; per farlo, però, sceglie di sviluppare molto più che una semplice variazione sul tema, e si propone di stravolgere alcuni degli elementi della formula del suo lavoro d’esordio.
TOPOGRAFIA E GEOGRAFIA
In termini di level design, la potenza di ICO veniva dalla sua topografia: la mappa di gioco forniva un circuito chiuso fatto di varie stanze e aree strutturate a compartimenti stagni, ma che una volta attraversate davano l'idea della continuità e della coerenza di fondo – in senso sia architettonico che topografico – che stavano alla base del castello di ICO. Il limite (voluto) imposto dal gioco operava su più piani: se il senso di chiusura e ristrettezza era la caratteristica principale della mappa di ICO, questo aspetto aveva chiari riflessi sul suo gameplay, che Ueda decide di non rendere troppo elaborato3, in modo che il giocatore non sia fuorviato dalla sua occupazione principale – vale a dire risolvere i puzzle ambientali – e per raggiungere questo obiettivo l'autore ha bisogno di elementi precisi: stanze scarne e non troppo grandi, una camera quasi fissa sul giocatore, un pattern di attacchi limitatissimo e un'arma unica; ma anche dal punto di vista narrativo è possibile capire quale sia l'effetto dei limiti imposti dal game design di ICO (di questo aspetto ne abbiamo già parlato). Nel caso di SotC, Ueda sceglie di andare nella direzione opposta: alla mappa chiusa si contrappone la vastità delle Terre Proibite, tramite la quale Ueda cerca di comunicare al giocatore l'idea che il gioco non operi più all'interno di limiti così marcati, mettendogli al contrario a disposizione un ambiente enorme entro il quale esplorare, cacciare, mangiare, fare acrobazie – tutte operazioni quasi inutili ai fini del completamento del gioco, ma che comunicano un'altra diramazione dell'idea di design. Il senso di libertà assoluta comunicato al giocatore non avviene solo tramite la diversa maniera in cui Team ICO applica gli stessi elementi tecnici e di gioco (la camera ora è libera, i residui architettonici raccontano un frammento di storia, il pattern d'attacco si è leggermente evoluto) ma anche tramite alcuni indizi che Ueda sceglie di inserire a proposito delle Terre Proibite e che comunicano qualcosa di quel luogo attraverso ciò che viene escluso, operando al pari della siepe de L'infinito di Leopardi, che appunto il “guardo esclude”. Quando, dopo aver attraversato per interminabili minuti il ponte che conduce oltre le Terre Proibite4, ci troviamo di fronte alla porta nera che ci respinge, la sensazione è che al di là di quel luogo esista tutto uno sconfinato mondo da scoprire, di cui la geografia di SotC rappresenta solo un minimo frammento, una porzione; un'idea, questa, confermata da Ueda attraverso la condivisione dello stesso universo narrativo dei suoi tre videogiochi, che appartengono a un unico grande “corpus”, ma in tempi e luoghi diversi. Oggi a pensarci fa di certo meno effetto, ma nel 2005, senza internet né altri modi per rovinarsi la gioia della scoperta, trovarsi di fronte a un limite della mappa che era messo lì apposta perché tu potessi raggiungerlo, ma comunque pronto a respingerti, doveva essere un'esperienza unica per i pochi che l'hanno provata.
DUE NUOVE TECNOLOGIE E PROFONDITÀ DI CAMPO
Per raggiungere questo obiettivo di libertà e immersione, Team ICO mette a punto una tecnologia appositamente per il gioco: si tratta del Seamless Field, grazie al quale il risultato ottenuto da Ueda e Kenji Kaido (produttore dell'opera troppo spesso dimenticato) è quello di un'enorme mappa in cui a farla da padrona è la continuità ambientale: niente caricamenti, niente più aree a compartimenti stagni (ricordiamo che stiamo parlando di un gioco del lontano 2005 destinato a un hardware limitato e ormai fuori tempo massimo), solo una mappa unica in cui la profondità di campo è l'elemento chiave dell'esperienza di gioco. È proprio alla profondità di campo che mi riferivo quando dicevo che se Dark Souls ha quel determinato aspetto, in termini di design, è anche grazie a SotC5. Se la lezione di game design appresa da Miyazaki & Co. con ICO riguardava la coerenza topografica e l'importanza di una mappa 3D interconnessa (qualcuno la definisce una mappa “a uovo”), la lezione che proviene da SotC insegna che non deve esserci separazione tra ambiente di gioco e sfondo, ma che è la continuità dei due elementi a rendere l'esperienza così immersiva ed espressiva. Non a caso lo stesso Kaido ha affermato che in SotC il vero protagonista è l'ambiente, e che anche in questo senso la riuscita dei colossi si deve, più che alla loro imponenza e maestosità, al fatto che anch'essi costituiscano una parte dello scenario del gioco, all’interno del quale sono inseriti senza soluzione di continuità. L'obiettivo, dichiarato sempre da Kaido, di “far parlare gli scenari” è una delle ragioni fondamentali per cui nello sviluppo del gioco il team ha scelto di sviluppare un'altra tecnologica appositamente per questo scopo, la Organic Collision Deformation, grazie alla quale non solo i sedici colossi diventano vere e proprie porzioni dello scenario in movimento, ma che fa sì che l'interazione poligonale tra i colossi e Wander sia il più in continuità possibile. La scelta di lavorare all'interno di un engine il cui tratto distintivo è la profondità di campo va in questa direzione: dando grande spazio compositivo all'ambiente/ai colossi e poco al nostro personaggio, questo secondo tende a essere messo in secondo piano, ad “appiattirsi” quanto più esso sia immerso nello scenario; le due cose, visivamente, tendono a fondersi. Una delle cose di cui Ueda ammette di essere più fiero è che grazie alla sua seconda opera è riuscito nell'intento di rendere lo scenario il vero avversario del giocatore, una cosa che bene o male rappresentava un inedito nel mondo dei videogiochi sino a quel punto.
Anche dal punto di vista grafico le scelte fatte da Team ICO sono andate nella stessa direzione: se il gioco possiede un HUD così minimale è proprio perché Ueda sceglie di non appesantire lo schermo e di non togliere spazio alla presenza dell'ambiente, e per ragioni analoghe i menù e le opzioni di gioco sono svuotati, con possibilità di personalizzazione nell'esperienza quasi inesistenti. In questo caso, Ueda sceglie di rimanere in linea con le scelte fatte in ICO, che anzi erano per certi versi più estreme: basti pensare che, come dichiara lui stesso, Ueda considerava Yorda una sorta di “lifebar personificata”, che non solo ci costringe a evitarne la morte per non incombere nel game over, ma allo stesso tempo contribuisce alla pulizia grafica e all'assenza di HUD.
DUE FASI DI GIOCO
Uno degli elementi su cui Ueda ha deciso di operare un cambiamento rispetto a ICO riguarda il rapporto tra le porzioni di gioco. Nel caso di ICO ogni stanza rappresentava un nucleo di gioco singolo, all'interno del quale l'operatività tendeva a ripetersi: all'ingresso in una nuova area seguiva la soluzione del puzzle ambientale e poi il combattimento contro le entità oscure, in un processo che si riproponeva bene o male sempre uguale e costante. Con Shadow of the Colossus, Ueda sceglie di aggiungere un elemento del tutto assente nel suo precedente titolo: il ritmo di gioco alternato. In termini di design, l'esperienza fornita da SotC è spesso minimale e superficiale – nel senso che le azioni che non riguardano l'uccisione dei colossi sono, come detto, superflue e metodiche – ma tutto questo fa parte di una delle due fasi di gioco, dove la seconda è per l'appunto rappresentata dall'uccisione dei colossi. Per trovare un contrappeso alla rarefazione di cui è impregnata la fase esplorativa, gli scontri con i colossi sono frenetici, epici, quasi una corsa contro il tempo. Alla presenza di puzzle e combattimento in ICO, Ueda risponde ora con puzzle che sono combattimenti, e combattimenti che sono puzzle. Il risultato è che questa seconda fase di gioco, la boss fight, condensa in sé il nucleo e la chiave del gameplay di SotC che, pur non essendo evoluto, rimane contraddistinto nel suo obiettivo di mettere in moto la mente e le abilità del giocatore.
Per capire la differenza tra un gioco costituito da un'unica fase che si ripete (ICO) e uno a due fasi (SotC), basti pensare a come Ueda decide di adoperare il comparto sonoro e musicale delle due opere: nel primo caso a farla da padrone è il silenzio, quasi una costante per tutto il gioco e che si porta dietro un'idea di musica che avvicina l'opera alle teorie e alle tradizioni musicali orientali, molto incentrate sulle sonorità minimali, sulle pause e sulle frammentazioni sonore; nel secondo caso, invece, alle due fasi di gioco corrispondono altrettanti estremi musicali: l'assenza assoluta quando cavalchiamo, la musica quasi epica – e “classica” secondo la teoria occidentale – durante gli scontri coi titani6.
La decisione di “dividere” l'esperienza di gioco in due porzioni così opposte ha effetti sul design, perché incide sul ritmo col quale percepiamo il tempo di gioco nella sua interezza: una prima run di SotC dura tra le dieci e le quindici ore all'incirca, ma se la percezione comune è che la ripartizione del tempo sia a sfavore delle sedici boss fight – che sembrano durare un flash rispetto alle interminabili cavalcate – è interessante come, tra risoluzione del puzzle fornito dal colosso e tentativi ripetuti a causa dei game over, la sproporzione temporale tra le due fasi non sia in realtà così marcata. L'idea che sta alla base di questa scelta di Ueda è che la più grande novità fornita al giocatore rispetto a ICO – la libertà di movimento e azione – sia comunque subordinata allo scontro con i colossi, che resta l'inevitabile incombenza di gameplay e trama. A proposito di questo aspetto Ueda ha più volte spiegato che una delle sue ambizioni più grandi con SotC fosse quella di ribaltare il concetto stesso di boss fight: abituati a boss il cui compito è quello di fornire al giocatore un senso di soddisfazione e compimento, Ueda spiega che i sedici combattimenti sono pensati come un'incombenza sgradevole, qualcosa che non dobbiamo voler compiere in quanto azioni deplorevoli nei confronti di creature innocenti e indifferenti, e anche al raggiungimento di questo obiettivo contribuisce il design musicale: se dopo una boss fight siamo abituati alla fanfara della vittoria, dopo l'uccisione di ogni colosso l'unica musica che sentiamo è invece una nenia tetra e angosciante7.
WANDER, IL GIOVANE CON LE CORNA
Nello spiegare il suo processo lavorativo, Ueda racconta che alla base delle decisioni prese in fase di sviluppo il suo team parte sempre da un art work: sia esso un'immagine, un dipinto o qualsiasi altra cosa possa stimolarli dal punto di vista visivo, la precedenza creativa è data a ciò che riguarda il lato evocativo e ambientale. Da questo punto di partenza poi si passa al gameplay, che deve corrispondere all'idea e alle sensazioni che si cerca di promuovere una volta stabilito l'art work definitivo, e solo in conclusione si pensa alla storia in sé. Questo schema ATMOSFERA – GAMEPLAY – STORIA, per quanto esemplificativo, dà un'idea di quale sia la priorità di Ueda nel processo creativo delle sue opere, e di come il filo conduttore per sviluppare i vari punti resti l'equilibrio di design. L'anello che congiunge questi tre elementi, corrispondenti ad altrettante fasi di pre-produzione, è il protagonista dei giochi di Ueda, il nostro avatar.
Ueda ha sempre scelto di optare per personaggi che si somigliano molto quanto a personalità e carattere, una vicinanza che è accentuata dal legame addirittura “parentale” tra Wander e Ico in quanto membri della stessa specie, ma il trait d'union che passa tra i protagonisti riguarda la maniera in cui noi giocatori li interpretiamo: a differenza di eroi valorosi o personaggi dotati di un arsenale infinito di armi e opzioni di gameplay, Ueda sceglie di darci il controllo di esseri impotenti, che si trovano a fronteggiare nemici al di fuori della loro portata. Se in ICO questo meccanismo funzionava grazie al contrasto tra il nostro protagonista e le ombre, generando le dicotomie di conosciuto/sconosciuto, luce e ombra, nel caso di SotC il contrasto è tra grande e piccolo. Wander si trova chiamato all'impresa titanica di sterminare entità infinitamente più grandi di lui, e l'idea alla base di questa scelta, come spiega Kenji Kaido, è quella che nel manovrare il nostro avatar dobbiamo avere “l'impressione di conquistare una montagna vivente”. La scelta di darci per le mani un ragazzo impotente chiamato a fare qualcosa di virtualmente impossibile serve ad aiutare i giocatori a “sentire il game design in maniera più efficace, e il character design è fatto con questo proposito”8. Al bisogno di creare personaggi vulnerabili che possano generare empatia nel giocatore, in SotC Ueda aggiunge la posizione occupata da Wander all'interno del mondo di gioco, come ciò che consente al giocatore di congiungere gli elementi di atmosfera, gameplay e trama nell'espressione compiuta del design di gioco.
IL GIARDINO PROIBITO
I lavori di Team ICO posseggono una forte vocazione narrativa e Ueda si propone, da questo punto di vista, di creare vere e proprie “fiabe digitali” caratterizzate dalla linearità di ciò che viene raccontato e dalla non linearità di come questo avviene. Ma se in Shadow of the Colossus questo concetto si espande e va oltre il semplice lato narrativo e arriva a tangere tutti gli elementi di gioco, ciò accade perché Ueda sa che per giungere a un’espressione compiuta del mezzo si passa attraverso il game design (e il suo equilibrio) come fine più che come semplice strumento. Quando deve descriversi, Ueda rifiuta spesso la definizione di autore, e preferisci attribuirsi quella più specifica di designer. Per descrivere il suo processo di scrittura, Ueda usa l’allegoria delle parole crociate: scrivere un videogioco è molto più simile all’inserire le parole giuste nelle rispettive caselle, piuttosto che trovare le giuste parole per una prosa armoniosa ed elaborata. Se le storie raccontate nelle sue opere sono lineari è proprio perché il videogioco come mezzo deve esprimersi con altri metodi e non deve dare troppo spazio a trame complicate e intricate, e in questo SotC è un passo in avanti rispetto a ICO perché a differenza di esso realizza una maggiore accessibilità e stratificazione che vengono raggiunte grazie alla sua progettazione. Questa rilevanza del design sulla trama è descritta da Ueda anche quando si trova a dover parlare di quale sia la matrice letteraria o filosofica delle sue opere: se dal punto di vista narrativo ICO è impregnato di topoi letterari sia orientali che occidentali, e se SotC è una rielaborazione della leggenda biblica della Torre di Babele, quando gli viene chiesto quale sia il tema che cerca di sviluppare con le sue opere o se ci siano degli autori di riferimento ai quali si ispira, Ueda dice che nella creazione di un videogioco è rischioso aggrapparsi troppo a temi letterari o filosofici, quando a essere favorita deve risultare la “consistenza e armonia che vengono inevitabilmente generate attraverso il processo stesso di game design”9. Ovviamente questo non vuol dire che da un punto di vista letterario le sue opere siano povere – tutto il contrario – ma se questa rilevanza narrativa risalta così tanto ciò è dovuto alla maniera in cui Ueda pensa le sue opere, con la mente di un designer.
Se The Last Guardian, anche a causa di numerosi problemi tecnici e lungaggini (il gioco era già annunciato ufficialmente in uscita per il 2011) non è riuscito a migliorare la formula proposta da Ueda, Shadow of the Colossus è il punto più alto della sua produzione perché alla capacità di osare si unisce il risultato ottenuto in termini di equilibrio nell’esperienza e nell’espressione di gioco. Una volta raggiunta la sommità del Sacrario ci è possibile mangiare il frutto proibito e andare oltre, nel tentativo di lasciare le Terre Proibite. Nel frattempo, Ueda è al lavoro da anni su un nuovo videogioco, ancora avvolto nel mistero: vedremo se sarà in grado di osare di nuovo e di rimettere in discussione i suoi principi e la sua mentalità da designer.
NOTA: Per chiarezza specifico che nell’immagine Il blu e il verde paesaggio ho usato il virgolettato per l’espressione profondità di campo perché si tratta di un concetto di fotografia qui prestato alla pittura. La profondità di campo esprime la distanza tra i punti messi a fuoco in un’immagine, e non è qualcosa che appartiene in senso stretto alla tecnica pittorica, che ovviamente non utilizza una lente fotografica. In ogni caso, è possibile replicare questo concetto in pittura per ottenere gli effetti di congiunzione tra primi piani e sfondi (come nel caso del dipinto di Buncho – dove persino la montagna in lontananza è sì avvolta dalla foschia, ma ancora “a fuoco” – e in altri esempi dati dalla pittura giapponese) o l’effetto opposto di separazione tra le parti.
Ricordiamo che alla domanda se Ueda accetti per ICO la definizione di “poesia”, il suo autore preferisce descriverlo con il semplice termine videogioco, o al massimo “fiaba digitale”.
Purtroppo non sono riuscito a reperire informazioni su quale fosse la carriera auspicata da Ueda una volta uscito dall'università delle Arti di Osaka, e quindi devo utilizzare il termine generico di 'artista', l’unico nel quale mi sono imbattuto nelle biografie dell’autore: Ueda aveva una preparazione in animazione, ma non sono riuscito a scoprire che tipo di animazione, né quale fosse la sua prospettiva lavorativa originale; se qualcuno fosse a conoscenza della specializzazione di Ueda (pittura, cinema, scultura ecc.) me lo dica pure, così posso correggermi.
Per correttezza è giusto dire che i limiti del gameplay di ICO riguardano sì scelte di design, ma anche necessità dettate da ristrettezze tecniche e di sviluppo.
Quello delle Terre Proibite è il ponte più lungo della storia dei videogiochi – primato molto specifico e atipico – e si protrae per una lunghezza pari a circa la metà della mappa di SotC nella sua estensione latitudinale. Per attraversarlo ci vogliono circa sette minuti. Pare che nell’originale per PS2 ce ne volessero addirittura dieci.
In questo senso, l'apice raggiunto da From Software finora è dato da Dark Souls 3, dove grazie all'uso dell'engine è possibile vedere contemporaneamente parti della mappa che solo in fasi molto avanzate del gioco ci saranno davvero accessibili. Se però Dark Souls 3 è il vertice dal punto di vista tecnico, la mappa del primo Dark Souls (in special modo tutta la sezione relativa al Santuario del Legame del Fuoco e quanto vi sta sotto) è senza dubbio la più grande espressione di questo concetto di design.
Si noti che questa è un’altra delle caratteristiche riprese da From Software per l’impianto di gioco dei Souls: a lunghe sessioni di gioco silenziose il cui comparto sonoro è dato unicamente dai suoni ambientali si contrappongono le musiche epiche presenti durante le boss fight. A tal proposito, è già stato confermato che Elden Ring rappresenterà un punto di rottura col passato, visto che per la prima volta avremo una colonna sonora dedicata anche alle fasi esplorative.
In relazione a questo aspetto, Ueda ha dichiarato: “Durante la produzione di Shadow of the Colossus ho cominciato ad avere dubbi a proposito del solito ‘sentirsi bene sconfiggendo mostri’ e ‘ricevere un senso di realizzazione’. Ho provato a pensare se ci fossero altre scelte per diversi tipi di espressione, e sono finito con queste scelte e queste regole come risultato. […] mi sono concentrato sulla consistenza del design come risultato e differenziazione (dagli altri prodotti). […] quando ho mostrato per la prima volta al mio staff la sequenza della musica triste che suona dopo aver sconfitto un colosso in Shadow of the Colossus, pensavano che si trattasse di un bug e si sono messi a ridere perché erano abituati ai giochi dove dopo aver sconfitto un mostro suona una fanfara”. Da notare anche che Ueda parla del design come un risultato più che un mezzo (l’intervista da cui traggo questo spezzone, in inglese, usa l’espressione “design as product”, anche se sarebbe interessante sapere se in lingua madre l’espressione corrisponde appieno. L’intervista, dove Ueda approfondisce alcune questioni inerenti al ruolo che ha per lui il game design, è presente qui).
Fumito Ueda, in Interview Extra: Fumito Ueda (Ico, Shadow of the Colossus, The Last Guardian) di Cane and Rinse, 2019.
Ibidem.