GeoGuessr, Street View e l'esplorazione del mondo
Ovvero, di come penso di essere stato a Wellington senza esserci mai andato davvero
…In quell’Impero, l’Arte della Cartografia giunse a una tal Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la Mappa dell’Impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei Cartografi fecero una Mappa dell’Impero che aveva l’Immensità dell’Impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le Generazioni Seguenti, meno portate allo Studio della Cartografia, pensarono che questa Mappa enorme era inutile e non senza Empietà la abbandonarono all’Inclemenze del Sole e degl’Inverni. Nei deserti dell’Ovest rimangono lacerate Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi; in tutto il Paese non c’è altra reliquia delle Discipline Geografiche.
(J. L. Borges, Del rigore nella scienza)
Io non sono mai stato a Wellington. Eppure, credo di conoscerla. E non come conosco Los Angeles, cioè attraverso le immagini dei film o delle serie televisive, costruite ad arte per produrre ambienti che non esistono fuori dalle pellicole e dagli schermi, e nei quali non è possibile muoversi in autonomia. Credo di conoscerla perché ne ho percorso le strade. Ho visto il centro e la periferia, il porto e il distretto finanziario. E l’ho fatto io, in prima persona, scegliendo quando proseguire e quando tornare indietro, dove girare e dove andare dritto.
Eppure, io non sono mai stato a Wellington. E non sono mai stato a Bruxelles, a Edimburgo, a San Francisco, sulle autostrade degli Emirati e nei quartieri del Ghana, nelle pianure argentine e tra i boschi della Finlandia. Ma li conosco tutti. E conosco l’asfalto americano e i cartelli francesi, le targhe olandesi e la birra del Laos. Tutto questo, grazie a Street View, il servizio lanciato da Google nel 2007 con l’obiettivo di permettere a chiunque, attraverso milioni di immagini panoramiche scattate da un’apposita macchina, di “esplorare virtualmente il mondo”, e a GeoGuessr, un browser game che proprio su Google Street View fonda il suo funzionamento. In GeoGuessr, il mondo intero diventa la mappa di un gioco basato sull’esplorazione: a ogni round si è catapultati in un punto qualsiasi del pianeta e si deve indovinare la propria posizione basandosi solo su ciò che si riesce a vedere, spostandosi per le strade in cerca di indizi come un cartello, una pubblicità, una scritta sul fianco di un autobus. Con il tempo, si impara a riconoscere certi elementi tipici di ogni paese: una certa forma dei cartelli stradali, un certo colore della segnaletica orizzontale, un certo tipo di prodotto spesso pubblicizzato in quel luogo. Alla fine, si accumulano dei punti, sulla base della distanza tra la propria risposta e la reale posizione sulla mappa, e si può dire di aver conosciuto, seppur in forma virtuale, un pezzo di mondo in più.
Ma cosa vuol dire “esplorare virtualmente il mondo”? Come si può conoscere un luogo senza esserci mai stati davvero?
Ci fu chi, senza mai lasciare la sua città, seppe immaginare mari lontani popolati da eroi leggendari e combattenti per la libertà, riuscendo a segnare, con le descrizioni di quegli ambienti, l’immaginario di intere generazioni. Ma la Malesia di Sandokan non era certamente la Malesia reale, e nessuno avrebbe saputo trovare, tra le vie di Kuala Lumpur, alcuna traccia di Yanez de Gomera o della Perla di Labuan. I luoghi dei romanzi e dei film, funzionali alle storie narrate, sono sempre, in qualche modo, frutto di invenzione. Compaiono quando vuole il narratore, e svaniscono se non servono più. Hanno tutti i tratti che sono necessari e nessun altro, e spesso esistono solo per lasciare agire i personaggi, o per fare in qualche modo da personaggi essi stessi. Sono meccanismi costruiti per arrivare a una conclusione: se in scena si vede una pistola, prima della fine dell’ultimo atto essa sparerà senz’altro. Trucchi di prestigio e illusioni ottiche, sono come le finte città che si dice siano state costruite in Corea del Nord per dare l’impressione di una società ricca e prospera, popolate da attori pagati che camminano all’unisono e sorridono di fronte ai turisti.
Anche quando si ispirano a luoghi reali, e non si chiamano Coruscant e Grande Inverno, ma New York e Cinisello Balsamo, hanno ben poco in comune con le vere città che portano quei nomi. D’altronde, anche i film e i romanzi storici pullulano di anacronismi (un approfondimento interessante su questi temi si trova nel capitolo Lo strano caso di via Servandoni nelle Sei passeggiate nei boschi narrativi di Umberto Eco). Le aspettative riposte nelle città immaginate, poi, possono spesso crollare quando si incontra la realtà. Lo sanno bene i turisti giapponesi vittime della cosiddetta “sindrome di Parigi”, una delusione profonda nata dal confronto tra la realtà della capitale francese e l’immagine idealizzata, e perciò impossibile da ritrovare, generata in molti dal mito che la circonda. Conta poco il fatto che le città vere possano trarre vantaggi reali dalle rappresentazioni fittizie e costruire su queste una fonte di guadagno, come la casa di Giulietta a Verona sempre piena di visitatori, o che la stessa Parigi anche grazie a quel mito abbia fatto parte della sua fortuna. Anche quando vogliono vendersi come reali, i luoghi delle storie non lo sono affatto. O almeno, non nel senso in cui lo è la città in cui vivo, o la stanza in cui mi trovo adesso.
Anche i luoghi dei videogiochi, che pure permettono molta più libertà di movimento, sono ovviamente fittizi. Ci si sposta come si vuole (o almeno così sembra), ed è possibile avanzare, retrocedere, girare a destra e a sinistra, correre, saltare, a volte anche spiccare il volo. Ma sono tutte mosse già scritte, che si svolgono in ambienti limitati, costruiti per creare un’esperienza che non prevede le novità se non all’interno di confini prestabiliti. Anche quando siamo noi stessi, in apparenza, a scegliere e controllare tutte le nostre mosse, come nell’ambiente virtuale immaginato dal metaverso di Zuckerberg, siamo comunque nei limiti previsti dalle righe di un codice informatico.
Essendo strumenti digitali, anche Street View, e di conseguenza GeoGuessr, sono limitati, e profondamente diversi dal mondo reale. Quest’ultimo è tridimensionale e dinamico, non statico come una fotografia, seppur panoramica, e si esperisce con tutti i sensi, e non solo con la vista. Su Street View, infatti, mancano molti elementi che invece si incontrano quando si fa esperienza del mondo: non esistono temperature, non c’è mai vento, non si sente alcun suono e alcun profumo. Inoltre, a differenza della realtà, non si può scegliere fino in fondo dove andare. Ogni spostamento è limitato dalle frecce che compaiono in sovraimpressione a mostrare le direzioni concesse e dalle strisce blu che sulla mappa indicano le strade percorribili. Infine, non tutto il mondo è presente su Street View, che lascia fuori enormi aree del pianeta, come gran parte del continente africano, ed esclude anche larghe porzioni di paesi come la Germania.
Se queste mancanze, che disegnano una mappa sostanzialmente diversa rispetto al mondo reale, possono apparire frustranti per chi è mosso dal puro desiderio di esplorazione, all’interno di GeoGuessr esse diventano parte integrante delle meccaniche di gioco. Si impara, col tempo, quali paesi sono presenti e quali no, quali possiedono più strade e quali meno, quali hanno immagini sgranate e quali ad alta definizione. Si sfruttano i limiti di questo mondo per riuscire a conoscerlo meglio. Tuttavia, a differenza di quanto accade su Street View, in GeoGuessr l’esplorazione non è mai fine a se stessa, ma sempre finalizzata alla risoluzione dell’enigma che sta alla base del gioco, ed è costretta sia nei movimenti possibili, sia, spesso, nel tempo ridotto messo a disposizione per scegliere il punto da indicare sulla mappa.
I limiti, che sono elemento centrale di ogni attività ludica o narrativa, non sono però confinati in questi ambiti, ma toccano ogni aspetto dell’esperienza umana. Siamo limitati nel tempo, nelle energie, nelle possibilità economiche. Sono limitate le nostre vite e le nostre rappresentazioni. Da questo punto di vista Google Street View, con le sue promesse di esplorazione, altro non è che una delle manifestazioni più recenti di un tentativo eterno, e irrimediabilmente vano, di realizzare un’utopia: l’antica illusione di poter catturare il mondo e rinchiuderlo in una realtà finita e fruibile. È la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, l’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert. È uno dei più riusciti tentativi di realizzare la Mappa dell’Impero descritta da Borges. Street View, che si accompagna sempre a Google Maps o a Google Earth, è una mappa del mondo talmente ricca e precisa da diventare effettivamente percorribile, e che per giunta supera nella virtualità e nell’interattività rese possibili dal digitale molti dei limiti della gigantesca carta descritta dall’autore argentino.
Eppure, se anche supera molti di quei limiti, non riesce tuttavia a risolverli tutti, e la carta di Borges continua a essere un paradosso. Chi si occupa di mappe sa bene che una carta geografica, per quanto dettagliata, non corrisponde mai perfettamente al territorio che rappresenta, ma ne è sempre una semplificazione, e perciò, in qualche modo, un tradimento. Come racconta Jerry Brotton nel ricco libro La storia del mondo in dodici mappe, che ripercorre la storia della cartografia da Tolomeo a Google Earth, il cartografo fiammingo Abraham Ortelius nel 1570 scelse non a caso di intitolare l’atlante da lui prodotto “Theatrum Orbis Terrarum”, utilizzando un termine, “Theatrum”, che richiamava proprio la dimensione finzionale dello spettacolo. Le mappe sono una messa in scena, e non ci si può illudere che solo da queste si possa conoscere il mondo. Un geografo, come insegna anche il Piccolo Principe, ha sempre bisogno di esploratori.
Non conosciamo le reali dimensioni dell’universo, ma, essendo sprovvisti di immortalità, non possiamo pensare di esplorarlo tutto. I nostri limiti, e i limiti dei nostri strumenti, diventano così necessariamente anche i limiti del mondo, o almeno del mondo che possiamo conoscere. Eppure, forse proprio questi limiti sono ciò che fa nascere in noi il desiderio di superarli, e di sperimentare qualcosa di nuovo. L’atto dell’esplorazione, che non è da intendere in senso esclusivamente geografico, non è motivato solo dai bisogni del momento, ma spesso, come scrive Riccardo Dal Ferro nell’Elogio dell’Idiozia, “nasce prima di tutto dalla curiosità di guardare oltre ciò che sta dentro i nostri confini”. Qualsiasi investimento in una nuova direzione, del resto – si legge sempre nell’Elogio –, viene spesso giustificato, quando non nasce da necessità materiali ma dalla curiosità di andare a vedere ciò che “sta oltre la cortina di mondo visibile che ci si para di fronte”, con un desiderio di innovazione e di automiglioramento.
La voglia di esplorazione, poi, ci tocca a tal punto che spesso ricerchiamo le sensazioni dell’esploratore anche in ambienti già completamente esplorati. È un’esplorazione di seconda mano, in luoghi così ampiamente battuti da essere stati mappati e riprodotti milioni di volte, proprio come le strade di Street View, visibili solo perché c’è già passata la macchina di Google, e i luoghi di GeoGuessr, indovinati e riconosciuti da migliaia di persone spesso molto più abili e veloci di noi, come ci ricorda la classifica che appare alla fine di ogni round. Ma di questo poco ci importa. Vogliamo esplorare, e ci dispiace quando non possiamo più farlo.
Secondo un vecchio detto, la nostra è una generazione di mezzo, nata troppo tardi per esplorare la Terra (per quanto in realtà ci siano, solo per fare un esempio, chilometri e chilometri di fondali oceanici ancora sconosciuti) e troppo presto per esplorare il cosmo, ancora troppo vasto e lontano. Siamo nati nel momento giusto per stare su internet, navigando per gli oceani della rete a bordo di caravelle elettroniche molto più veloci di quelle del Quattrocento, ma assai meno reali delle imbarcazioni dei vecchi esploratori.
Eppure, proprio grazie alla rete oggi abbiamo indubbi vantaggi, e riusciamo a superare con facilità alcuni degli antichi limiti del mondo reale, ben sottolineati da una vecchia battuta che girava online: “Sono uscito, una volta: la grafica era fenomenale, ma il gameplay faceva schifo”. Su Street View possiamo “camminare” per chilometri senza stancarci e saltare senza problemi da un luogo all’altro, liberi dalle difficoltà e dai pericoli che caratterizzano i viaggi fisici. Non a caso, nella presentazione delle potenzialità offerte dal metaverso Mark Zuckerberg ha fatto esplicito riferimento al teletrasporto. Nel mondo della rete, anche la fantascienza più spinta può diventare possibile.
Inoltre, grazie al susseguirsi delle fotografie panoramiche e ai ripetuti passaggi per le strade del mondo compiuti dalle macchine di Google, possiamo persino scegliere tra più opzioni temporali, vedendo l’evoluzione negli anni della stessa strada, una possibilità impensabile per chi si trova realmente sul posto. Così facendo, Street View porta sulla Terra una verità che ci appare ovvia da tempo a proposito dell’esplorazione del cielo, e cioè che un viaggio nello spazio è anche, necessariamente, un viaggio nel tempo. Le distanze siderali si misurano in anni luce, e le stelle che vediamo ci appaiono non come sono adesso, ma come erano in un momento passato. Questo vale anche per gli ambienti terrestri, seppur con distanze immensamente ridotte e perciò impercettibili. A ciò si aggiungono poi il tempo necessario al cervello per elaborare le informazioni a partire dai dati raccolti attraverso i sensi e il fatto che, quando ci rechiamo in un luogo, al nostro arrivo esso sia senza dubbio diverso da come era al momento della nostra partenza, e sarà ancora diverso dopo che lo avremo abbandonato per recarci altrove. Questa dinamica è sempre presente nel modo in cui percepiamo il mondo, ma Street View ha il merito di renderla esplicita: nelle sue immagini, esso non ci mostra la realtà, ma solo una sua fotografia in un preciso momento. Il mondo è sempre in evoluzione, e nessuno potrà mai dire di avere compreso, in una sola immagine, un oggetto che cambia inesorabilmente appena si distoglie lo sguardo.
In ogni caso, Street View, e le carte geografiche in generale, sono molto utili, e sono uno strumento, seppur limitato, certamente indispensabile per poterci muovere nello spazio che ci circonda. Se non avessimo a disposizione mappe, resoconti e fotografie realizzati da altri, non sapremmo nulla del mondo, e ogni generazione (anzi, ogni individuo) dovrebbe sempre ricominciare da capo. Sediamo sulle spalle di chi ci ha preceduto, e per questo, grazie agli errori e alle scoperte già compiuti, possiamo guardare più lontano di prima. Ogni impresa umana è sempre, necessariamente, un’impresa collettiva.
La stessa Google, nella sezione Case Study del sito di Street View, tiene a ricordarci le potenzialità pratiche e le applicazioni utili che un tale servizio può avere. Tuttavia, l’esposizione globale delle strade e delle persone presenti nel momento in cui sono state scattate le fotografie (per quanto queste censurino gli elementi più sensibili come le targhe delle automobili e i volti degli individui) ha anche presentato nel corso del tempo alcuni importanti problemi per la privacy, tanto che, come già ricordato, anche grandi paesi come la Germania hanno scelto di rimanerne parzialmente esclusi.
Ogni strumento, per quanto potente, possiede sia vantaggi sia limiti, e simultaneamente espande e riduce il raggio d’azione di chi se ne serve. In un’intervista nel 1990 Steve Jobs ricordava un articolo che aveva letto da giovane su una rivista scientifica, nel quale si confrontava l’efficienza del movimento di diverse creature presenti sulla Terra. In cima alla lista c’era il condor, e l'uomo si trovava abbastanza in basso nella classifica. Tuttavia, se si prendeva in considerazione anche un essere umano a bordo di una bicicletta, allora questo diventava, con un largo margine, il più efficiente di tutti. Il computer nella visione di Jobs avrebbe dovuto essere allora una “bicicletta per la mente”, in grado di potenziare le capacità umane fino a raggiungere confini prima impensabili. Anche la bicicletta, tuttavia, ha dei limiti, con i quali ci si scontra quando si devono compiere azioni, come salire una rampa di scale, che a piedi sarebbero semplicissime, mentre su due ruote appaiono estremamente complesse. Così è per la bici e per il computer, per le mappe e per ogni nostro strumento.
Che fare, dunque, di Street View e di GeoGuessr? E perché mi sembra di essere stato a Wellington senza esserci mai andato nella realtà? Non posso, ovviamente, ritenere di esserci stato davvero: troppi elementi mancano all’appello. Eppure, dopo averne percorso le strade all’interno di Street View, ne so qualcosa in più rispetto a prima. Non posso certo dire di conoscerla, anche se su GeoGuessr l’ho riconosciuta: non si assapora il gusto di una torta guardando una sua fotografia, o leggendone la ricetta. Eppure, è già qualcosa. Non si fa mai esperienza completa di un luogo, ma ogni momento, ogni occasione, aggiunge qualche tassello in più. Ogni realizzazione della torta, del resto, avrà un sapore leggermente diverso. E se è vero che stare su internet dà solo l’illusione di navigare nell’inesplorato, dato che per definizione se una cosa è presente in rete non può essere totalmente nuova, ma c’è perché qualcuno ce l’ha messa, è altrettanto vero che ciascuno di noi fa sempre esperienza del mondo in prima persona, e ogni volta che si reca in un posto “nuovo” lo percepisce come tale per sé, a prescindere dal fatto che questo sia già ampiamente conosciuto da altri.
Ben consapevoli di tutto questo, tenendo a mente le conquiste e le conoscenze che ci precedono e rimanendo sempre critici nei confronti dei limiti dell’esplorazione, non dobbiamo smettere di cercare. Abbiamo solo due occhi per guardare il mondo, e un paio di gambe per percorrerlo. Il nostro limite siamo noi stessi. Eppure, proprio per questo vogliamo superarci, e accogliamo di buon grado ogni strumento che ci permetta di ampliare la nostra visuale o andare un po’ più lontano, pur con tutti i limiti che necessariamente porta con sé. Street View ci illude di poter esplorare il mondo, GeoGuessr di poterlo conoscere. Eppure, anche queste illusioni possono servire a qualcosa. Viva il cannocchiale, viva la bicicletta. Viva GeoGuessr e viva Street View. Viva, sempre, la spinta all’esplorazione, che è una parte importante di ciò che ci rende vivi.
Un noto aforisma di Umberto Eco recita: “Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge, avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito, perché la lettura è un’immortalità all’indietro”. Secondo alcune stime, un essere umano nel corso della vita cammina mediamente per 120mila chilometri. Chi usa Street View, o gioca a GeoGuessr, ne percorre qualcuno in più. Certo, non cammina per davvero, e forse i chilometri effettivamente percorsi a piedi nella sua vita risulteranno meno di quelli stimati. Ma non vive neppure per 5000 anni. Io ho percorso molti di questi chilometri durante la pandemia, e l’ho fatto senza mai uscire da una regione che spesso si è trovata a essere colorata di rosso. Anche grazie a quei viaggi, il lockdown è stato più facile da affrontare. Se un giorno passerò per Wellington, me ne ricorderò senz’altro.