For the witcher, heartless, cold
Paid in coin of gold
He comes he'll go leave naught behind
But heartache and woe.
Gli zoccoli del cavallo colpivano la neve con un tonfo sordo.
Rattrappito, in sella all’animale, Geralt di Rivia tentava con tutte le sue forze di trattenere il tremore che lo squassava.
Il suo corpo, benché più resistente di quello di un comune essere umano, era turbato dall’inverno più perfido che avesse mai avvertito. Avvolto in un mantello di lupo di fattura spregevole, lo strigo si tastò il volto per verificarne la sensibilità. Non si sentiva più il naso e le labbra da ore. Le dita, a contatto con la pelle, erano gelide e dure come ramoscelli.
Il cavallo continuava ad arrancare sul sentiero apparentemente interminabile, quando lo strigo riuscì a percepire delle linee lungo l’orizzonte.
Linee dritte; linee umane. Un villaggio.
Geralt era solito evitare gli insediamenti durante i suoi spostamenti in cerca di lavoro e denaro. Detestava più di ogni altra cosa gli sguardi terrorizzati ed ostili dei contadini.
Questa volta, si disse, avrebbe fatto un’eccezione. Sarebbe entrato al villaggio, forse avrebbe comprato una sella con coperture sufficienti per Rutilia, il suo cavallo, ed un piatto di zuppa e una notte di riposo in qualche locanda ammuffita. Comprese ben presto, superato un recinto ed una bacheca divelta, che non ci sarebbero stati letto o zuppa. Il villaggio era deserto.
Le poche case, ruderi rattrappiti dal gelo, erano prive di porte o finestre. Era ormai impossibile dire se qualcuno vi avesse mai abitato.
– Non è il nostro giorno fortunato – sospirò lo strigo, accarezzando il manto di Rutilia.
Il solo segno di vita nei paraggi era costituito da una casolare di discrete dimensioni su una collina al di sopra del villaggio.
Da una delle finestre del secondo piano, Geralt avrebbe giurato di riuscire a scorgere una flebile luce nella tormenta.
Oltre alla vista, anche il suo straordinario olfatto era stato attratto da qualcosa. C’era un pesante odore nell’aria, qualcosa che egli identificò come un miscuglio di catrame e linfa d’albero.
Decise di inerpicarsi sul piccolo colle, il greve sentore sempre più presente nell’aria ad ogni falcata del destriero.
Rutilia si fermò al di sotto di una tettoia accanto all’ingresso della casa. Geralt smontò, stringendo i denti per le fitte alle gambe dopo ore di immobilità e gelo.
La casa, arredata con gusto, sembrava disabitata da tempo.
L’intero mobilio - tavoli, sedie, librerie e persino i lampadari - era stato fabbricato dal legno più pregiato che Geralt avesse mai visto. Soltanto i manufatti elfici potevano vantare un tale livello di cura e raffinatezza.
Esaminò le posate finemente intagliate e disposte sul tavolo della sala da pranzo prima che un altro dei suoi sensi venisse stimolato da qualcosa di insolito, proveniente dal piano superiore.
Qualcuno, in quella casa gelida, aveva tossito.
Si assicurò che il mantello non gli impedisse di raggiungere rapidamente le spade appese alla schiena e si incamminò lentamente su per la scalinata che conduceva al piano superiore, anch’essa splendidamente decorata.
Di sopra, in fondo a un corridoio tappezzato di quadri, una porta era appena socchiusa. Un sottile raggio di luce fendeva l’aria.
Di nuovo altri colpi di tosse, più flebili e strozzati dei precedenti.
Geralt allungo il braccio e spinse lentamente la porta, le mani pronte a scattare verso l’elsa della spada.
– Qui non troverà niente, se non un tozzo di pane e vino inacidito. Prenda quello che vuole e se ne vada. –
Una figura insignificante, simile ad un cumulo di carbone, gli stava parlando al capezzale di un letto enorme. Era un uomo dall’aspetto vecchio e terribilmente stanco, ricoperto di stracci che un tempo erano stati abiti di qualità.
L’anziano, tremante intirizzito su una sedia, non si era neppure voltato verso il proprio ospite inatteso. Fissava una sagoma distesa al centro del letto, appoggiata ad un guanciale all’apparenza ancora morbido. Era un fantoccio, o forse uno spaventapasseri, raffigurante un ragazzino dai capelli color nocciola e grandi occhi verdi.
– Ho bisogno di una sella. Il mio cavallo non resisterà a lungo senza una copertura adeguata. Non ho molto denaro, ma ho delle provviste da barattare. – disse Geralt, lo sguardo fluttuante tra il vecchio e il manichino.
Finalmente l’anziano gli concesse la propria attenzione, mostrando un paio di occhi lucidi e tristi. Alla sgradevole vista dello strigo, non riuscì a trattenere un fremito.
– Tu sei uno di quelli, non è vero? – disse alzando un sopracciglio – Uno di quei maghi prezzolati. –
Geralt sfoggiò un sorriso disgustoso – Il termine esatto è Strigo, e non mi permetterei di paragonare le mie abilità a quelle di un mago anche solo discreto. Eppure, per una giusta paga, posso essere assai più utile di un mago. –
– Avvicinati, strigo – disse l’uomo, soffocando un nuovo accesso di tosse – vorrei mostrarti qualcosa. –
Lo strigo si avvicinò al letto a passi pesanti, il respiro condensato in volute ghiacciate. Si fermò al lato opposto del letto. Il grande camino incassato nel muro alle sue spalle era spento.
Esaminando la figura distesa, ebbe la certezza che essa fosse la fonte dell’odore pungente che aveva avvertito fin dal suo ingresso al villaggio.
Le giunture del fantoccio, di solido legno di ciliegio, erano fasciate con garze di fortuna ormai completamente imbevute di una sostanza scura e vischiosa.
Geralt allungò una mano verso il gomito del manichino, ritraendola con uno scatto a pochi millimetri dal legno lucido.
Quella cosa stava respirando.
Il petto del fantoccio, ne era sicuro, si stava espandendo e contraendo velocemente, come quello di un ratto.
– Mai visto nulla di simile… – Si lasciò sfuggire – Soltanto un mago estremamente potente sarebbe capace di ridurre qualcuno in...questo stato. –
– Il suo nome è Hans. – Cominciò l’anziano, senza mai staccare gli occhi dal fantoccio che stava fissandolo a sua volta.
– Hans Dvorak, figlio di Caspar Dvorak, che sarei io. I miei prodotti e la mia arte erano conosciuti da chiunque possedesse il denaro necessario a procurarseli. Conti, Baroni, Principi e persino la corte di Novigrad hanno conosciuto il lusso dei miei mobili. Gentiluomini e dame del più alto lignaggio hanno discusso accomodati in salotti nei quali ogni cosa portava la firma della mia manifattura. Gli stessi figli di Sua Maestà hanno ricevuto in dono i balocchi più preziosi che un bimbo possa desiderare. – l’anziano dovette interrompersi a causa di un nuovo attacco di tosse.
- Non ho mai avuto moglie o compagnia al di fuori dei miei fedeli operai, che pure hanno finito per abbandonarmi. La mia manifattura era il cuore pulsante di questa comunità e non ero dedito ad altro che al perfezionamento della mia arte. Eppure ho sempre sognato di avere qualcuno a cui poter trasmettere le mie conoscenze, qualcuno da poter istruire e di cui avere cura e che potesse essere la consolazione della mia vecchiaia.
Un giorno ebbi l’idea scellerata di costruirmi da me un fantoccio che potesse tenermi compagnia. Sarebbe stato il mio capolavoro. Ho desiderato così ardentemente che potesse tramutarsi in un bambino meraviglioso, che corresse e giocasse e combinasse ogni sorta di pasticcio.
I miei operai devono avermi preso per pazzo, quando giurai di averlo visto muoversi da solo. – Lo sproloquio del vecchio venne interrotto dall’ennesimo, terrificante accesso di tosse. Riuscì a riprendere soltanto dopo alcuni respiri profondi e rumorosi.
- Non senza reticenze, in principio, il mio Hans riuscì a farsi accettare dalla comunità. Gli abitanti ridevano per quel suo strano modo di camminare ondeggiante e rispondevano ad ogni sua curiosa domanda sul mondo. “Hans testa di legno” lo chiamavano gli altri bambini, con la malizia che solo loro sanno avere. I battibecchi con i suoi compagni di gioco erano piuttosto frequenti e spesso i ragazzini del villaggio rientravano a casa per cena con le dita coperte di schegge. La cosa lo divertiva più del dovuto.
Sembrava così felice, prima del morbo...
Dapprima il medico era sicuro si trattasse di qualcosa di poco conto, un comune malanno di stagione. Ero sorpreso e persino rincuorato dal fatto che fosse permeabile, come ogni bambino, alla febbre e alla debolezza.
Nulla, tuttavia, poté prepararci alla melma e all’odore.
Quel tanfo spregevole lordava ogni cosa, e nulla al mondo leniva anche solo minimamente i suoi effetti. Ogni mattina le lenzuola venivano ritirate dalla sua camera in condizioni miserabili, e date alle fiamme in cortile.
Ben presto il muovere gambe e braccia divenne per lui insopportabile. Ogni movimento causava il rigetto di quella melma putrida dagli arti, come una piaga infetta. Le risate dei miei operai si erano ormai mutate in smorfie di disgusto e il solo nominare Hans cominciò ad essere sgradito a chiunque. Divenne così debole che cessò presto di parlare.
Fu il tanfo, più di ogni altra cosa, a costringere i miei operai all’abbandono. Il lavoro gli era diventato insopportabile e l’intero villaggio era impregnato di un’aria di morte e malizia. In effetti, si può dire che lo sia ancora oggi. –
Il vecchio rivolse al proprio ospite uno sguardo sconfitto.
Silenziosamente, quell’uomo implorava lo strigo di fare qualcosa per lui e per suo figlio.
– Un profondo desiderio e una fine miserabile. – riflettè Geralt a voce alta – Giurerei che questa sia opera di un jinn. Non c’è creatura più crudele, se libera dalla prigionia o dalla volontà di un padrone. Sono creature erranti e si nutrono del desiderio e della disperazione di un buon cuore, facendone la propria linfa vitale. Quella creatura potrebbe essersi rifugiata in ogni angolo del mondo, e possa Melitele proteggere il povero diavolo che incrocerà il suo cammino. Lei era nel posto sbagliato al momento sbagliato, Caspar Dvorak. –
L’anziano, con gli occhi colmi di lacrime, accarezzava prudentemente il volto del fantoccio. Le parole dello strigo sembravano averlo contemporaneamente addolorato e sollevato.
- Per favore, strigo, raccogli per me della legna e portamela qui. Sono vecchio e malato, e credo che il mio Hans abbia bisogno di scaldarsi. Ho da poco terminato la mia ultima fascina ed i mobili non sono adatti a far fuoco. La vernice e la lacca finirebbero per soffocarci. Hai detto che ti occorre una sella. Prendi pure ciò che desideri dalle stalle. –
Geralt si allontanò in silenzio, lo sguardo ancora fisso sulle giunture colanti del fantoccio. Si chiedeva se la creatura potesse avvertire il dolore di quelle ferite o se avesse ormai anche solo coscienza di ciò che la circondava.
Mai aveva ricevuto una simile richiesta: raccogliere della legna, come un comune tagliaboschi.
La stalla, nei suoi tempi migliori, avrebbe potuto ospitare una decina di cavalli di buona stazza. Nessuna traccia di paglia o qualcosa di adatto a un palato equino nei paraggi. Appoggiata ad uno dei recinti, lo strigo rinvenne una lunga coperta con due ganci alle estremità. Si trattava di una sorta di mantello sovradimensionato per proteggere l’animale dalla grandine e dalla neve.
– Hai una gran fortuna, Rutilia. – sospirò Geralt, prima di abbandonare la tenuta.
Il mantello si rivelò più corto di quanto sperasse, ma avvolto con cura attorno al cavallo avrebbe reso la strada per Novigrad sopportabile.
– Molto meglio, non è vero? – l’animale emise nitriti di approvazione.
Avvolto nel proprio mantello, Geralt spese le poche ore di luce rimaste nella piccola boscaglia attorno alla tenuta. Quel vento spaventoso aveva causato la caduta di una moltitudine di rami lunghi e secchi. Il fuoco sarebbe avvampato in pochi attimi alla più piccola scintilla, una volta ripuliti dalla neve.
– Oh Vesemir, se solo potessi vedermi…–
Non riuscì a trattenere un amaro sorriso pensando al proprio mentore, mentre era di ritorno con due grosse fascine sotto ciascun braccio. La sera ed il buio avevano placato la tormenta e la temperatura era precipitata ulteriormente.
Lo strigo salì le scale imprecando col suo scomodo fardello, camminando di sbieco lungo il corridoio del piano superiore.
La porta, rimasta socchiusa, proiettava la stessa falce di luce davanti a sé. Il tanfo che aveva avvertito al suo arrivo sembrava essersi placato assieme alla tormenta.
Non fu questo, tuttavia, a colpirlo una volta varcata la soglia.
Quella camera era calda.
Caspar Dvorak, in ginocchio davanti al camino ardente, singhiozzava e tossiva pietosamente. Al centro del letto, dove prima era disteso il fantoccio, troneggiava una rivoltante macchia scura, che sembrava aver trapassato e imbevuto completamente il materasso.
Geralt avrebbe giurato che un paio di occhi verdi, gli occhi di Hans, lo stessero fissando dall’inferno di quelle fiamme.
Ripose le cataste sul pavimento e si allontanò, lasciando dietro di sé un'eco di morte e disperazione, l’eco di un vecchio solo e malato.
Rutilia lo attendeva all’ingresso, immobile e impassibile. Con un deciso colpo di reni lo strigo spronò il cavallo e si dileguò nella notte gelata.
Novigrad era ancora lontana e quell’inverno sarebbe durato a lungo.