Quell’ordine che regola la comprensibilità di un messaggio ne fonda anche l’assoluta prevedibilità, in altre parole la banalità. Quanto più è ordinato e comprensibile, tanto più un messaggio è prevedibile (…)
(U. Eco, Opera aperta, Bompiani, Milano 2016, p. 107)
STORIA SENZA STORIOGRAFIA
Nei videogiochi di Hidetaka Miyazaki, comunemente noti come souls - da Demon’s Souls a Bloodborne passando per l’ovvio Dark Souls (aspettiamo di vedere se Elden Ring sarà più simile a un souls-like o a un souls-lite alla Sekiro, ma per dispute tassonomiche rimando al video di Wesa sull’argomento) c’è sempre un espediente narrativo che consente al loro autore di presentarci un mondo in rovina, al crepuscolo, ormai solo una pallida immagine sbiadita della sua gloria passata. È il presupposto che giustifica la creazione di quella che viene detta lore: un retroterra leggendario che non viene mai esplicitato in modo didascalico nella narrazione, ma di cui possiamo vedere gli effetti, sedimentati nell’architettura di un castello o nel dialogo di un personaggio o in un oggetto e nella sua descrizione, e dal cui mistero il mondo di gioco trae la sua atmosfera di oscurità, minaccia e tensione, cifre stilistiche dei giochi di Miyazaki. Chiaramente, perché il mondo che abbiamo intorno ci parli del passato, quel passato deve aver prodotto opere grandiose, che siano resistite al tempo abbastanza per suggerirne la grandezza e contemporaneamente darne la misura dell’effimero valore illusorio.
In Dark Souls (il primo e il terzo sono i giochi che ho giocato in prima persona) ho sempre trovato interessante la scelta di ambientare l’avventura agli sgoccioli della Storia, e allo stesso tempo l’adozione di uno stile lontano dai toni epici delle narrazioni apocalittiche. La devastazione entro cui ci muoviamo nel mondo di Dark Souls è così profonda e stagnante da essere tranquillizzante per l’effetto di generale immobilità che genera (e muoversi per il mondo di Dark Souls sarebbe un’esperienza di malinconica quiete se non fosse che tutti cercano di ammazzarci a ogni passo, costringendoci a una frenesia che risalta ancor di più nel silenzio desolante). L’avventura del nostro personaggio è ambientata in un mondo arrivato alla fine dei suoi giorni, dove stagna paludosamente tutta la Storia in un orizzonte di frammentata nebulosità, e in cui le epoche sono compresse e mescolate. Sono pochi ormai ad avere il senno e il passato non è che un’eco inverificabile che sopravvive solo come vestigia frammentarie e incomplete e soprattutto la cui la completezza è perduta per sempre. Potremmo dire che nei souls esiste la Storia ma non la storiografia, con tutti i problemi che questa asimmetria comporta: non sappiamo di chi possiamo fidarci al livello interno della narrazione (tendenzialmente di nessuno) e, al livello di consapevolezza metanarrativa di player, alla fine la verità (intesa come la fine del gioco) si rivelerà anch’essa una beffa. Perché alla fine della saga di Dark Souls capiamo che la verità sta nell’insuperabilità dell’oscurità, nel fallimento delle anime oscure, nell’inattingibilità del bene. Così Miyazaki ribalta ironicamente il topos filosofico della “verità come chiarificazione luminosa”. Tuttavia è bene notare che più che della verità dell’oscurità qui si parla dell’oscurità della verità. Non esiste un fondo duro dell’interpretazione che ci fornisca l’interpretazione definitiva (no, nemmeno Sabaku lo è, anzi la sua angoscia di “completismo” lo espone al rischio della rigidità quando dovrebbe essere flessibile, interpretativamente) in nessuna opera. In Dark Souls questo diventa principio di poetica.
MIYAZAKI E TOLKIEN
In questa scelta crepuscolare, Miyazaki è erede di quell’atmosfera tipica della mitologia tolkieniana che si nota particolarmente bene nel Signore degli Anelli. Nell’opera di Tolkien gli eventi che vengono raccontati sono sottoposti al filtro ironico dell’evidenza per cui la battaglia che combattono gli Hobbit, per quanto importante, appare di diversi ordini di grandezza meno importante in confronto alle battaglie dei Tempi Remoti, che si erano combattute tra dei, elfi e Morgoth (il corrispettivo di Lucifero nella mitologia di Tolkien), raccontate nel Silmarillion. Nella mia personale esperienza di lettore di Tolkien, è venuto prima Il Signore degli Anelli e poi Il Silmarillion, invertendo l’ordine cronologico degli eventi narrati. Tuttavia, nel Signore degli Anelli l’effetto prospettico di un passato sommerso da cui gli eventi narrati traggono la loro forza mitica, è sempre percepibile a prescindere dalla conoscenza del Silmarillion, e anzi, è tanto più retoricamente potente se non lo si conosce! E il Silmarillion, a sua volta, raggiunge i suoi momenti più alti non quando spiega cose che nel Signore degli Anelli erano lasciate irrisolte, ma quando apre ancora nuove questioni che rimangono oscure. Per generare questo effetto di oscurità Tolkien racconta il passato esattamente come fa Miyazaki: per sottrazione e silenzi più che discorsivamente e attivamente. Per quanto possa sembrare paradossale parlare della mitologia tolkieniana ascrivendola al minimalismo, tuttavia essa fa sfoggio di una prolissità solo della superficie riservando ai personaggi e ai temi importanti un trattamento diverso. A ben vedere solo i luoghi, le architetture e gli oggetti sono descritti nei minimi particolari nel Signore degli Anelli e nel Silmarillion: appunto tutto ciò che riguarda la superficie, il collaterale. Pensate ad Aragorn o a Gandalf che invece esplicitano molto raramente le loro intenzioni e desideri, parlando spesso per enigmi quasi oracolari, pensate al ruolo delle aquile nei punti climatici della narrazione, o al modo in cui Tolkien presenta Tom Bombadil, o parla del concetto della morte o dell’anima. Ci sono solo allusioni. La precisione annalistica di Tolkien finisce dove iniziano i nodi importanti della sua poetica.
La narrazione deve dare l’intuizione di ciò che è successo, non la certezza, perché la tensione e la potenzialità interpretativa che un’opera offre, sta in ciò che viene solo intuito e non detto: come diceva Borges l’arte si consuma nell’imminenza di una rivelazione che tuttavia non si produce mai. È il principio minimalista per cui “less is more”, meno dici, più ottieni come effetto retorico di stupore, mistero ed enigma. Per questo ci sono dei punti che rimangono per sempre irrisolti in Tolkien, come per esempio quale sia il destino degli Uomini o della Terra di Mezzo, o che fine abbiano fatto le Entesse. Per lo stesso motivo le opere di questi tre autori citati fino ad ora (Borges, Tolkien e Miyazaki) sono dei generatori di interpretazioni potenzialmente infinite e hanno creato delle comunità di interpreti molto solide nel reciproco riconoscimento della loro indispensabile attività critica sui testi. Tuttavia io credo che se intendiamo l’attività dell’interpretazione come un tentativo di colmare quei buchi volutamente lasciati tali dagli autori, allora questo meccanismo di riempimento è un tradimento dello spirito dell’opera che crediamo di star ricostruendo e che in realtà stiamo sacrificando all’altare del nostro desiderio di completezza. Anche perché l’unico esito del desiderio di completezza non è affatto il suo raggiungimento ma piuttosto la tautologia e la didascalia: la poesia sta nella sintesi densa, nella massima ampiezza espressiva racchiusa nel quanto minimo di estensione verbale e dunque si basa sul riconoscimento di un limite, non sul raggiungimento della completezza. La poesia è così “informativamente” ricca proprio per la sua improbabilità espressiva che la rende per forza di cose parziale e limitata (cfr. Opera Aperta, di Umberto Eco).
MIYAZAKI E BORGES
Interpretare correttamente un’opera che fa dell’incompletezza una consapevole scelta poetica, (come nei souls) significa dunque mancare l’obiettivo: fare la parafrasi della Divina Commedia non vuol dire affatto interpretarla. Il nostro ruolo di interpreti si limita (ma avete capito che per me non è affatto un limite) a quello di organizzatori, ordinatori di una storia che esiste ma è sparpagliata. Ma anche quando l’avremo ricostruita, essa non sarà affatto completa. E tale dovrà rimanere. Emblematico su questo punto della reticenza dell’autore è il saggio di Borges sull’episodio del Conte Ugolino nella Divina Commedia. Lo scrittore argentino si chiede se Dante voleva che noi pensassimo che Ugolino avesse mangiato i suoi figli. La risposta di Borges potrebbe essere il manifesto definitivo della poetica dei Souls:
“Il problema storico se Ugolino della Gherardesca abbia esercitato nei primi giorni di febbraio del 1289 il cannibalismo, è, evidentemente, insolubile. Il problema estetico o letterario è di tutt’altra natura. Lo si può enunciare così: Dante ha voluto che pensassimo che Ugolino (l’Ugolino del suo Inferno, non quello storico) abbia mangiato la carne dei suoi figli? Arrischierei questa risposta: Dante ha voluto non che lo pensassimo, ma che lo sospettassimo. Di Ugolino dobbiamo dire che è una trama verbale, che consiste d’una trentina di terzine. Dobbiamo includere in quella trama l’idea di cannibalismo? Dobbiamo sospettarla, ripeto, con incertezza e timore. Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa oscillante imprecisione, questa incertezza, è la strana materia di cui è fatto. Così, con due possibili agonie, l’ha sognato Dante, e così lo sogneranno le generazioni future.”
(J. L. Borges, Il falso problema di Ugolino contenuto in Nove saggi danteschi)
Allo stesso modo, quando troviamo l’armatura di Havel in una stanza segreta ad Anor Londo nel primo Dark Souls, ci chiediamo se Havel avesse tradito o fosse stato tradito da Gwyn, senza che sia possibile trovare una soluzione al problema. Non sappiamo se quello che combattiamo alla base della torre del rifugio dei non morti sia il vero Havel o solo qualcuno vestito come lui. Non sappiamo se l’avventura di Bloodborne sia un sogno o la realtà e se alla fine del gioco ci risvegliamo davvero o viviamo un’altra illusione. Non sappiamo come sarà l’Era deli Uomini se scegliamo il Dark Ending alla fine del primo Dark Souls, né sappiamo chi fosse Filianore in Dark Souls III. E il senso delle opere di Miyazaki è imparare a godere dell’angoscia del bilico dell’inespresso, non sottrarsi ad essa.
“Poe non dice quale sia il significato univoco e definitivo della sua opera: dice quale strategia ha messo in opera per creare un lettore capace di interrogare indefinitamente la sua opera.”
(U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, La nave di Teseo, Milano, 2018, p. 64)
UNA POETICA DEL FALLIMENTO
Come dobbiamo interpretare i souls allora? Cosa significa interpretare le opere di Miyazaki? Significa forse riempire i buchi di trama e di lore che l’autore ha lasciato volutamente aperti? Non credo che sia così. Anzi, mi spingo a dire che Dark Souls è i suoi buchi di trama, i suoi silenzi, la sua resistenza a rivelarsi. Utilizzando un’immagine forse troppo estrema, un po’ provocatoria e anche un po’ zen, potremmo dire che l’unica interpretazione valida di un souls sarebbe l’esperienza blind di un souls. Interpretare un souls coincide con il giocarlo in completa blind run, perché solo in questo caso - unico per definizione - la vivida esperienza dell’angoscia e della minaccia che il gameplay ci fa sentire a ogni passo (spesso passo nel vuoto) coincide con la lettura che l’opera suggerisce di sé. Nella blind run, gameplay e principi poetici fanno tutt’uno.
Interpretare i souls significa capire che il senso della loro poetica si consuma proprio nella frammentarietà e nel mistero, e non nella loro risoluzione. Le opere di Miyazaki ci fanno sperimentare l’angoscia dell’incompletezza, del fallimento, dell’inaccessibile, che è tale non per deficienza interpretativa ma per mancanza delle chiavi di accesso alla verità. Non esiste la verità nei souls perché non ci sono fonti verificabili. E l’unica verità cui possiamo sperare di accedere è la consapevolezza dell’oscurità e della menzogna delle anime oscure che ci circondano e che anche noi siamo. Il fallimento che sperimentiamo nel gameplay e che tante persone costringe a vette impensabili di creatività blasfema è la frustrazione per una promessa di chiarezza (interpretativa) e di forza (in quanto PG) che non arriva mai. Anche sconfiggere un boss dopotutto è poca cosa se il mondo è comunque perduto. Non è altro che l’appagamento di un desiderio vano. Se Miyazaki avesse scritto un Vangelo, Cristo sarebbe rimasto sulla croce.
I finali di Dark Souls III e Boodborne nel loro essere così sottotono e anti climatici sono la perfetta chiusura di opere che hanno fatto della condanna della vanità e dell’effimera transitorietà della gloria, le loro colonne portanti. Non esiste riscatto finale, la remissione dei peccati, il sacrificio messianico, per le anime oscure.
Essere diventati così potenti alla fine non porta affatto alla gloria, ma a un fallimento che si alimenta della grottesca illusione di vittoria. Alla fine, come tutte le grandi opere, anche quelle di Miyazaki sono un invito a non prendersi troppo sul serio e a relativizzarci. Per farlo, Hidetaka sceglie di farci morire 200 volte. Direi che è un metodo efficace.
Una interpretazione corretta dovrebbe tenere questo concetto di limite di reticenza come punto fisso, senza cercare di creare una teoria entro cui quei limiti vengano riassorbiti e dunque neutralizzati, per appagare un comprensibile, ma pur sempre superficiale, desiderio di chiarezza e completezza che le opere di Miyazaki si impegnano a mostrare come illusorio.