Ascoltate la mia storia, che potrei diventare un avvocato che inciampa da solo per prendere lo scatolato e non potrei più raccontarvela. Ah sì, spoiler più avanti su Final Fantasy X.
Una testimonianza diretta ma dall’affidabilità dubbia (mia madre) mi racconta che già all’età di due anni facevo robe col controller fra le mani. Ora, non so nemmeno se sia possibile per un marmocchio di due anni, che ingerì tutto insieme un cucchiaino di sale e lo rigurgitò dopo poco (storia vera), stare ad armeggiare con dei videogiochi, però senza dubbio, e qui entrano in gioco i miei vaghi e opachi ricordi, i miei primi contatti con le opere multimediali interattive della supercazzola divina piddì si collocano davvero presto nella mia vita; sia chiaro, si trattava di interazioni del calibro di “premo tasto e draghetto viola fa fuoco, pazzesco”, non esattamente un playthrough contemplativo di Metal Gear Solid 2 Post-Modernism Edition, ma fu comunque l’inizio del percorso che mi fece GAMER. Sicuramente uno dei primissimi titoli della mia vita fu Final Fantasy X, il gioco di quella risata decontestualizzata fatta da un personaggio che sembra proprio uscito dalla matita di Nomuranort, nonché quello col minigioco in cui salvi il mondo da una catastrofe vivente, quando ti sei stancato di stare allo stadio a prendere a schiaffi quei babbi dei Goers per la quarantaduesima volta (e godere ogni volta come la prima); ovviamente, come ogni Final Fantasy che si rispetti, anche un gioco con una meravigliosa storia d’amore.
Quindi, che m’ha fatto questo gioco? Com’è che mi ha dannato, a parte che con l’amore sfrenato per il suo compositore Nobuo Uematsu, a un livello tale che fin troppo facilmente dico frasi tipo “Beethoven gli fa un baffo”? Beh l’amore c’entra lo stesso, ma al maledetto romanticismo ci arriviamo dopo. Prima iniziamo dall’inizio inizio (triggered Wesa noises). Per essere più accessibili.
‘sto gioco inizia che te sei Tidus, o Taidus, o Sabaku se sei Sabaku no Maiku, forse uno dei pochi esemplari di GAMER che cambiano il nome al protagonista di un FF (Final Fantasy, specifichiamo dai, in nome dell’accessibilità), e stai andando a giocare una partita di calcio-pallanuoto-rugby-gara di apnea. E poi metal. E tanto vibing. E poi esplode tutto. Ma proprio tutto. Ma proprio la realtà stessa si distorce e si sfalda, viene tirata e poi risucchiata da una creatura il cui nome è quello del peccato, e che dal peccato nacque. E qui si distinguono i veri GAMER dai normie, cioè quelli proprio che si fanno le mappe concettuali e i grandi ragionamenti e tutto quanto per capire come la differenza di acconciatura di Sora da Kingdom Hearts nel corso dei titoli sia strettamente collegata all’intensità della luce del suo cuore quando scopre che Pippo è il Master of Masters, o per capire un qualunque finale di Yoko Taro; e quelli che, arrivati ai titoli di coda del decimo Final Fantasy, si domandano “ma quindi Sin può viaggiare nel tempo”? I veri chad, insomma.
Ora vi spiego un po’, bambini belli, anche se nessuno me l’ha chiesto, perché in giro vedo sorprendente confusione e sicuramente anche tra voi c’è qualcuno che ha giocato il gioco, o ha visto la run di Wesa (che io non ho guardato), e ha bisogno di chiarimenti sui punti più sfocati della narrativa. Premetto che, come un fallito che si rispetti, non andrò a verificare nulla di quello che sto per dire (a che serve la sezione commenti, se non per il fuoco e le fiamme, eh?); al contrario, andrò unicamente a memoria.
Mille anni prima degli eventi che viviamo durante il gioco, c’era Bevelle, la città co’ ‘a tecnologia, e Zanarkand, la città col Papa, ma anche ‘a tecnologia. Scoppia una guerra. Bevelle, che c’ha ‘a tecnologia quella bella per i crimini di guerra, sta sfondando il popò al Papa (che è Yu Yevon), e allora il clero cheffà?! Propone che chiunque possa usare la magia, forse tutti gli abitanti di Zanarkand, non lo so, la usasse per fare una enorme invocazione, usando sé stessi come intercessori (una sorta di uomo-motore spirituale per creare l’invocazione): una Zanarkand da sogno, letteralmente. In pratica, siccome a quanto pare potevano fare poco contro le macchine, si sono creati un Matrix onirico, dove avrebbero potuto “vivere” in pace per conto loro; Yunalesca, la moglie di Yu Yevon, invece fa un’invocazione a parte usando il marito come intercessore: Sin, la nostra pucciosissima catastrofe vivente e semi-cosciente. Che sia per proteggere gli intercessori della Zanarkand onirica, o farla pagare agli invasori di Bevelle, Yu Yevon va e fa cose, ammazza persone, devasta insediamenti, e nella sua follia distrugge Zanarkand stessa (quella vera, per ora). Pentita e con la strizza al culo, Bevelle diventa la nuova città col Papa, i cui insegnamenti principali sono pregare Yu Yevon – il quale non viene detto che sia il mostro che rompe tutto – che Sin smetta di ammazzarci le famiglie, e bandire l’uso delle macchine perché a Sin a quanto pare non piace la pigrizia. Comincia anche una pratica, cioè quella di mandare in pellegrinaggio chi è capace di usare l’invocazione come gli zanarkandiani, in modo che possa invocare un mostro grosso quanto Sin e che gli rompa il sedere; la fregatura c’è, eccome se c’è, perché l’invocatore morirà per realizzare questo ultimo atto, e pure un altro po’raccio dovrà sacrificarsi per fare da intercessore all’invocazione. Ma non finisce qui! Sin non sarà morto per sempre, poiché l’invocazione finale distruggerà solo il corpo ma non l’anima, e dopo un po’ Yu Yevon si ricostruirà la sua “armatura” usando l’invocazione stessa che lo ha sconfitto. Però la brava gente ci guadagna qualche anno di tranquillità, detto Il Bonacciale. Tutto cambia quando Jecht, padre di Tidus, usato come intercessore dal gran invocatore Braska e quindi ora parte integrante di Sin, e l’amico Auron (“Owron” e non “Aaron”) decidono di provare a rompere questo ciclo Miyazakiano (ante-conceptum?) trasferendo Tidus a Spira, il mondo reale. In breve:
No, Sin non viaggia nel tempo, viaggia tra la realtà onirica, che mima la Zanarkand di mille anni fa, e quella vera.
No, Tidus non viaggia nel tempo, viaggia, tramite Sin, tra la realtà onirica, che mima la Zanarkand di mille anni fa, e quella vera.
No, Auron (ripetete con me) non viaggia nel tempo, viaggia, tramite Sin, tra la realtà onirica, che mima la Zanarkand di mille anni fa, e quella vera.
No, non possono ammazzare Yu Yevon mentre si ricostruisce, perché è nascosto e vallo a trovare.
No, Jecht non può fare il cavolo che gli pare mentre è Sin, genera giusto un po’ di influenza sulle decisioni di Sin ma il controllo è perlopiù di Yevon.
No, Yu Yevon è scemo ed è corrotto letteralmente fino al profondo dell’animo, non può semplicemente darsi una calmata.
Sì, la cosa di Sin che nasce dall’utilizzo eccessivo delle macchine è sostanzialmente una mezza verità: se Bevelle – e non Zanarkand, come dice il clero – non avesse usato le macchine per fare guerra a Zanarkand – e non per stare in panciolle, come dice il clero –, l’ira di Yu Yevon effettivamente non si sarebbe scatenata, e non ci sarebbe stato Sin; ergo, in un certo qual modo Sin è nato per colpa dell’abuso delle macchine, ma si parla di un peccato di violenza, certamente non d’accidia.
E quindi a Tidus viene offerto uno strappo dal papà (che guida la Papa mobile) per la vera realtà. Dopo una sezione tenebrosa e solitaria che, a pensarci ora, ho da aggiungere alla lista di parti videoludiche da ringraziare per la mia talassofobia, c’è il distacco più totale, soprattutto estetico, dall’orrore affrontato finora: Tidus, e noi assieme a lui, si risveglia in Sardegna, in mezzo a un’esercitazione del Cagliari. O meglio, siamo all’isola di Besaid, e si allena il peggio del peggio del Blitzball, lo sport chimerico a base di acqua e spallate; riusciamo subito a sorprendere queste pippe mega-galattiche rompendo le leggi di gravità e sparando nell’iperspazio un pallone, e questi rimangon talmente impressionati che il capitano ora vuole farci pure il tour guidato dell’isola. Possiamo tranquillizzarci, e riprendere fiato.
È qui, al villaggio di Besaid, dopo una sezione ad enigmi a tema sfere (come molte cose in FF X) dentro al labirintico (come molte cose in FF X, pure il leveling system che richiede una laurea, ma che allo stesso tempo amo da morire per la libertà che offre) tempio yevonita, che Tidus conosce, e io con lui, l’amore. Incontra infatti una fanciulla, dal volto tondo e lineamenti dolci e occhi eterocromatici con palesemente la combinazione migliore: blu e verde. Il suo nome è Yuna, ha appena appreso ad invocare, e stava per sbattere la testa sui gradini, se non fosse che il guardiano furry la salva prendendola al volo. Immaginatevi la trama se avessimo dovuto sì accompagnarla fino a Zanarkand, ma in sedia a rotelle! Sarebbe stato sicuramente più inclusivo.
Insomma, questi due si incontrano, e seppur da piccolino non potessi coglierlo, ora sono abbastanza certo che, considerando gli sguardi che si danno, Cupido scoccò fin da subito a entrambi i cuori, anche perché col fisicaccio da campione di wrestling acquatico che ha Tidus dai come fai a resistere eh voglio dire ceh sta pure tutto scoperto eh ok sto divagando senza neanche mettere virgole wow Wesa mi sta probabilmente leggendo ciao Riccardo.
Tra un incontro casuale a turni e l’altro (che poi la faccia tosta che ci vuole a noi ventilatori per dire “sì mi piace il combat system perché è strategico” quando molto spesso tutto si risolve col comando attacca e poco più, ‘sto gioco c’ha davvero accecato a noi chiusa parentesi chilometrica), i due legano e stringono un rapporto, il cui carburante è l’essere diversi ed esserci l’uno per l’altro, farsi forza a vicenda, superare gli ostacoli assieme, proteggersi reciprocamente in ogni modo possibile, riempire il vuoto lasciato dai difetti dell’altro, stare a stretto contatto con la morte, e fare all’ammmore fluttuando.
Quindi, giungendo al punto, ci sono io che sto a guardare tipo “amo l’amore, lo voglio anch’io”. Il rapporto dei due protagonisti diventa un modo per affacciarmi a questa realtà così umana ma, per me, così assente, anche solo in modo platonico. Già dall’età infantile, forse anche troppo precocemente, fantasticavo di vivere un’esperienza amorosa, ovviamente semplificata come se la immagina un bambino, cioè tanti baci e coccole e non molto altro. Il che mi fa pensare che nel tempo il sogno non è cambiato molto, ora c’è giusto qualche porcheria in mezzo, ma penso possiate capire.
Da questo desiderio, da questa fantasia puerile, si forma terreno fertile per il trauma futuro. Il trauma che l’amore non è una certezza della vita di tutti, e che se sboccia può esser effimero come la vita di una farfalla, e mai più tornare; il trauma che anche la cosa migliore di sempre non sarà perfetta, tutt’altro, e l’amore da ciò non è escluso; il trauma che anche l’amore discrimina, e che anche nell’amore v’è disuguaglianza; il trauma che, talvolta, doniamo amore, ma esso non torna.
Però io son dannato, ho giocato a Final Fantasy X, è da lì che ho conosciuto l’amore e il mio ideale di esso ruota intorno a quel momento. Non riesco ad accettare tutto questo! Quindi inizio a passare la mia vita aspettando, bramando questo Amore, ignorando le evidenze che mi suggeriscono che non è così semplice da ottenere e neanche del tutto certo; attendevo la felicità e il piacere che ne sarebbero derivati, pensando che solo attendere bastasse, come la brava gente di Spira che attende il sacrificio dell’invocatore per portare la serenità. Ma quando arriva, questa serenità, questo amore, qualcuno che si sacrifica per me, un ragazzino che non sa cosa significa amor proprio e lavorare su sé stessi, ma che pretende dal suo nascondiglio? Sta prendendo Trenitalia, questo amore? Ah, eccolo, finalmente! Secondo anno di prima superiore, dopo esser stato bocciato e aver assaggiato i primi accenni di depressione, una pulzella in classe mia inizia a darmi attenzioni amichevoli, semplice socialità, per me tuttavia qualcosa di nuovo e pazzesco; al che inizio a sentire, nemmeno dopo molto tempo, quella solita, comune sensazione allo stomaco, il tugurio che generalmente associamo a un tornado di farfalle, che una persona generalmente sente quando desidera fondersi con un’altra. A dire il vero, feci la sua conoscenza solo superficialmente, ma io ho giocato a Final Fantasy X. I idealized the shit out of her (“l’ho idealizzata a morte” penso sarebbe l’equivalente in italiano, ma in inglese mi piace di più). Non mi serviva conoscerla a fondo, perché la guardavo già da un filtro che la riempiva di tutto ciò che volevo, a prescindere che combaciasse con la realtà o fosse un mero frutto della mia sdolcinata immaginazione. Per quanto orrendo suoni, io volevo una mia Yuna, volevo l’amore proprio quello bello, quello figo da FF, e mi ero convinto, a quindici anni, che la pover’anima che mi aveva fatto innamorare colposamente facesse proprio al caso mio, lei e nessun’altra. Ella fu il recipiente dei miei desideri e delle mie speranze, che tentavo di tenere fiammanti anche quando gli venivano gettati addosso mille secchi d’acqua, distogliendo lo sguardo dai traumi sopracitati, specialmente l’ultimo, distorcendo in ogni modo la realtà. Insomma, la stavo praticamente oggettificando (yikes), ma per molto tempo non me ne resi conto, accecato dal bisogno di una mia Yuna. Quando mi fu davvero chiaro che il sogno del “vero amore” non si sarebbe realizzato con lei fu deprimente, ma non mise la parola fine alla questione. Come dice Herman Hesse, felicità è amare, l’essere amati conta meno di quanto possa sembrare, e per quanto quella ragazza mi rifiutò, l’amore, anche se fondamentalmente rivolto a un ideale e non a una persona reale e fuori dal mio controllo, lo sentivo per davvero e non riuscivo, e probabilmente nemmeno volevo, a privarmene. Dolce com’era il sentimento, ignoravo l’amarezza della coscienza che incessantemente mi ricordava, nel tentativo di smuovermi, che sostanzialmente quello che stavo facendo era simping ante-litteram. Quando finalmente mi decisi di finirla anche con ciò, il vuoto che rimase era ghiacciato come la tundra siberiana, e la brama di riempirlo tornò più greve di prima, e mai se ne andò.
A volte penso “beato l’uomo del medioevo, che vive in modo semplice, coi piedi per terra, a zapparla e non pensare a molto altro, al massimo immaginando di vivere, un giorno, in un castello come quello del proprio signore”. Ovviamente sono contento di vivere in un mondo con la Playstation, i vaccini (già), e dove non muoio di morte violenta dopo una leggera lacerazione alla mano, però sono certo che quel gioco della mia infanzia, combinato a molte altre opere della categoria che definiamo “arte”, mi abbia condannato a sentire un bisogno assolutamente naturale e tenero, ma portato all’estremo in modo innaturale, fino a diventare quasi una droga dalla perenne astinenza; tutt’oggi m’invaghisco facilmente, mi faccio una marea di film mentali, soffro continuamente l’assenza di una dolce metà, una continua sensazione di incompletezza e talvolta perfino infelicità. Certamente non son l’unico, anzi son certo che io sia tutt’altro che l’unico, se no, credendo che nessuno potesse empatizzare con la mia esperienza, non avrei scritto e pubblicato questo articolo. A dire il vero, girando su internet è abbastanza chiaro: a un’infinità di persone è stato piantato in testa il romanticismo, sicuramente tra tante altre cose, come una priorità esageratamente in alto nella scala, tant’è che son nate persino comunità di po’racci senz’amore come me quali, per prendere un esempio estremo, gli Incel, involontariamente celibi e spesso maschilisti, che l’hanno presa in modo ben peggiore e chiedono pure che lo stato gli offra prostitute (yikes di nuovo). Eppure, tecnicamente, per vivere serve solo cibo, acqua e riparo ove riposare.
Secondo me, noi condannati al sentire l’esagerata – e con ciò intendo dire ben oltre quanto siamo spinti a sentire da Madre Natura in quanto esseri umani – pesantezza di bisogni non primari, che sia la necessità di romanticismo, di avventura o di ricchezza dobbiamo ringraziare anche l’arte, e come essa, in quanto finestra per realtà a noi lontane e mai esperite, con le sue idee e la sua bellezza, ci manipola e scombussola, ci illude e ci fa sognare ad occhi aperti luoghi e situazioni inarrivabili.
Va’ a cagare, Final Fantasy X. Mi hai messo ideali irrealistici. Mi hai fatto desiderare emozioni più forti di quanto potessi arrivare a provare. Mi hai fatto impazzire alla vista della monotonia della vita, perché non era variegata e cangiante come un’avventura fantastica, ma più un lento sforzarsi di far crescere qualcosa da poco o nulla, giorno per giorno. Il tuo finale mi ricorda l’inevitabilità di esso. Il tuo Seymour che il rischio di deragliare in un viale di oscurità mai si allontana. Il tuo Mika che il pericolo di un potere che vuole schiacciarti è onnipresente. Il tuo Yu Yevon che farsi accecare dall’odio è terribilmente semplice; la tua Yunalesca che lo è anche affogare in convinzioni che si considerano sacre. Il tuo Sin che ogni cosa che costruisci può crollare in un attimo.
Il tuo Jecht che stare a commiserarsi non porta a niente.
Ti voglio bene, nonostante tutto,
e ti ringrazio, Final Fantasy X. Percorrere i tuoi luoghi magici mi ha ispirato. I sentimenti dei tuoi personaggi imperfetti sono entrati in me e li ho assimilati, colorando il mio animo in un luogo di altrimenti grigia apatia. Il tuo viaggio mi ha dato modo di sognare. I tuoi mostri mi hanno insegnato la paura; sconfiggerli come superarla. Il tuo finale mi ricorda che c’è sempre un’altra strada. Il tuo Tidus che un sogno o una fantasia possono essere potenti quanto il reale. Il tuo Auron che c’è tempo per rimediare. La tua Rikku che i fulmini fanno effettivamente paura, accidenti! Il tuo Wakka che si può sempre cambiare idea. La tua Lulu che c’è tempo anche per riprovare. Il tuo Kimahri che anche un reietto ha il suo percorso. La tua Yuna che la morte non è un motivo per non guardare al futuro.
Anche se è ormai tanto tempo che sei la frontiera oltre cui non si è costruito nulla di degno del nome tuo e dei tuoi predecessori (scusatemi, FF XII e FF XV), voglio credere più alla seconda parola che alla prima (sto guardando te, FF XVI).