Intenzioni dell’autore, generi e interpretazione
Un vecchio dibattito dell’estetica con esemplificazioni videoludiche
Che ruolo dovrebbero avere, nella valutazione di un’opera, le intenzioni del suo autore?
Le intenzioni sono tutto
Una prima risposta ingenua è quella fortemente intenzionalista per cui chi interpreta l’opera lo fa correttamente solo quando riesce a capire le “vere intenzioni” dell’autore e comprendere il motivo per cui l’opera è stata prodotta.
È la posizione di Arthur Danto, che critica l’idea di intentional fallacy, per la quale sarebbe un errore affidare l’interpretazione di un testo alle presunte intenzioni dell’autore: secondo Danto una corretta interpretazione deve infatti far corrispondere il più possibile i significati dell’opera alle intenzioni dell’artista.
Tuttavia questa concezione ha diversi problemi: ci sono autori che non rilasciano interviste, altri di cui a malapena si conosce l’identità, oppure autori che sono morti e che non hanno lasciato “interpretazioni ufficiali” della propria opera, per non parlare poi di opere di cui non conosciamo affatto l’autore. In tutti questi casi dovremmo quindi dire che non si può dare un’interpretazione sensata dell’opera? Certamente no.
Le intenzioni non importano
Per fortuna è stata data un’altra risposta alla domanda sul ruolo delle intenzioni dell’autore, diametralmente opposta a quella fortemente intenzionalista e di gran lunga più sofisticata: le intenzioni dell’autore non contano, possono non esserci e anche se ci fossero dovrebbero essere anch’esse interpretate.
Questa è la posizione anti-intenzionalista, tipica dei cosiddetti formalisti e che è stata ben formulata da Umberto Eco, secondo cui nell’analizzare un’opera dobbiamo rinunciare all’intentio auctoris per cercare invece ciò che il destinatario trova nell’opera in riferimento ai propri sistemi di significazione (intentio lectoris) e ciò che il testo stesso dice in riferimento alla propria coerenza contestuale e alla situazione dei sistemi di significazione a cui si rifà (intentio operis).
Si è sostenuto inoltre che le circostanze connesse con l’origine di un’opera non abbiano alcun ruolo essenziale nel giudicare la sua natura estetica: una volta prodotta, l’opera deve essere giudicata per quello che è, indipendentemente da come è venuta a esserlo. Non importa quindi chi ha creato l’opera, come e quando; le intenzioni e le aspettative dell’artista, il suo stato psicologico; la tradizione artistica e l’atmosfera intellettuale nella quale l’opera è stata prodotta.
In questo caso è celebre la definizione di testo come macchina pigra che dà lo stesso Eco:
un testo è un meccanismo pigro (o economico) che vive sul plusvalore di senso introdottovi dal destinatario, e solo in caso di estremi pignoleria, estrema preoccupazione didascalica o estrema repressività il testo si complica di ridondanze e specificazioni ulteriori.
E ancora:
via via che passa dalla funzione didascalica a quella estetica, un testo vuole lasciare al lettore l’iniziativa interpretativa, anche se di solito desidera essere interpretato con un margine sufficiente di univocità. Un testo vuole che qualcuno lo aiuti a funzionare.
Ogni testo richiede - dice Eco - un Lettore Modello, ovvero un interprete che abbia le competenze adatte a comprenderlo. Il Lettore modello (il target, direbbero i pubblicitari) di Fortnite chiaramente non è lo stesso di The Last of Us, che a sua volta non è lo stesso di Kentucky Route Zero.
Inoltre, non è solo l’autore empirico a postulare un Lettore Modello, ma “anche il lettore empirico, come soggetto concreto degli atti di cooperazione, si deve disegnare un’ipotesi di Autore, deducendola appunto dai dati di strategia testuale”. Si tratta appunto dell’Autore Modello.
Si potrebbe dunque sostenere che se noi in quanto lettori empirici veniamo in contatto solo con l’Autore Modello, allora le intenzioni dell’autore empirico, la sua biografia, il suo stato mentre componeva l’opera, le opere altrui con cui è venuto in contatto, insomma, tutto ciò che riguarda l’autore empirico non debba avere alcun ruolo nell’interpretazione e nella valutazione di un’opera. Tutto ciò che possiamo dire di un’opera si trova all’interno dell’opera.
… però ci sono
Ma anche la tesi non-intenzionalista appare limitata, ed è lo stesso Eco a metterci in guardia:
non ci si può nascondere il peso che acquistano le circostanze di enunciazione, spingendo a formulare una ipotesi sulle intenzioni del soggetto empirico dell’enunciazione, nel determinare la scelta di un Autore Modello […]. La configurazione dell’Autore Modello dipende da tracce testuali ma pone in gioco l’universo di ciò che sta dietro al testo, dietro il destinatario e probabilmente davanti al testo e al processo di cooperazione.
Gli indizi empirici riguardo la storia di un’opera, per quanto possano non essere necessari in linea di principio, sono infatti spesso cruciali nella pratica: alcuni fatti sulle origini di un’opera hanno un ruolo essenziale nella sua valutazione.
L’idea che le opere d’arte debbano essere giudicate esclusivamente da ciò che può essere empiricamente percepito in esse appare fuorviante, ma non è del tutto errata: c’è qualcosa di corretto nell’idea che ciò che conta esteticamente in un’opera sia come essa appaia, ma non è vero che ogni altro elemento sia superfluo.
Problemi di genere
Argomenterò questa tesi servendomi della distinzione che Kendall L. Walton propone in Categories of Art tra proprietà estetiche e non-estetiche, cioè da un lato quelle che riguardano come l’opera si mostra (i colori, i suoni, la narrazione, ma anche il senso di calma o di ansia che può esprimere, gli elementi piacevoli e quelli perturbanti, ecc.), e dall’altro quelle che riguardano il contesto della produzione e dell’interpretazione dell’opera.
Walton sostiene che le prime siano elementi o caratteristiche delle opere tanto quanto le seconde: vediamo in un’opera certe proprietà estetiche perché cogliamo in essa certi elementi non-estetici (anche se non è necessario notare consapevolmente tutti gli elementi non-estetici).
Infatti, nel valutare un’opera, non possiamo non inserirla in un contesto ad essa esterno. Per quanto, come sostiene Kant nella Critica del Giudizio, possiamo chiamare bello solo un oggetto particolare e non una classe di oggetti (e quindi posso dire che mi piace quel quadro, ma non che mi piacciono tutti i quadri), anche il genere a cui l’opera appartiene ha però un ruolo centrale. Attenzione, questo non significa che mi devono necessariamente piacere i souls-like per apprezzare alcune caratteristiche di Bloodborne. Significa solo che nella pertinentizzazione stessa dell’esperienza, cioè nell’interpretazione di un’opera, io non posso fare a meno di metterla in relazione con altri elementi che appartengono alla sua stessa classe. Un piccolo elefante, uno più piccolo di tutti gli altri elefanti che abbiamo visto, può apparirci carino, delicato, puccioso. Questo non è semplicemente per la sua dimensione in assoluto, ma perché lo consideriamo piccolo per un elefante.
Se giocando a Impostor Factory restiamo meravigliati quando vediamo una scena come questa, non è perché l’immagine sia bella in assoluto, ma perché essa ci appare particolarmente ben fatta e adeguata nel contesto di un RPG di quel tipo. È certamente un bel paesaggio, ma è soprattutto un bel paesaggio per un RPG.
La meraviglia sorge proprio a partire da quegli elementi che non sono semplicemente rari o unici, ma che sono contro gli standard delle categorie in sono percepiti.
Secondo Walton, le proprietà estetiche che un’opera possiede realmente sono quelle che vi troviamo quando essa è percepita correttamente, cioè inserita nella giusta categoria. Ma se il modo corretto di percepirla è parzialmente determinato dai fatti storici sulle intenzioni dell’artista e sul contesto in cui l’opera è stata prodotta, allora nessuna analisi dell’opera in sé, per quanto approfondita, potrà rivelare quelle proprietà.
Se ci confrontiamo con un’opera sulle cui origini non conosciamo assolutamente nulla, non saremo in grado di giudicarla esteticamente: non possiamo dire se è coerente, se è ben costruita, dinamica, poiché semplicemente osservandola non sappiamo come pertinentizzarla, come inserirla nel contesto adeguato.
Un buon esempio è offerto dal retro gaming: non possiamo giudicare la qualità o l’originalità di un gioco come Super Mario Bros se lo valutiamo come se fosse uscito nel 2021, lo riterremmo chiaramente inferiore a molti altri videogiochi successivi. Ma qualità e originalità sono qualità estetiche.
I fatti storici rilevanti dunque non sono solo aiuti utili al giudizio estetico, ma aiutano a determinare quali proprietà estetiche un’opera ha e le intenzioni degli artisti sono tra le considerazioni storiche rilevanti.
Questo punto ha importanti conseguenze: percepire un’opera nella giusta categoria è una capacità che deve essere acquisita con la pratica, e quindi avendo avuto a che fare con molte opere della categoria in questione. Il giudizio su un videogioco in quanto tale da parte di una persona che ha poca esperienza con i videogiochi non potrà che essere fortemente limitato (ogni riferimento è puramente casuale).
Questo non deve però portarci a pensare che basti essere esperti di quella categoria per poter giudicare al meglio un’opera che vi appartiene. Aver videogiocato molto è una condizione necessaria per valutare correttamente un videogioco, ma non è certamente una condizione sufficiente: un giudizio di chi abbia approfondito anche altre forme d’arte e altri discorsi sarà probabilmente più ricco e completo.
Percepire le proprietà estetiche di un’opera non è come percepire i colori, le forme, le musiche o il ritmo: richiede la conoscenza del contesto corretto nel quale inserirle, e le intenzioni dell’artista fanno parte di questo contesto.
Non bastano le buone intenzioni
È importante notare che se tra le intenzioni di un artista ci sono la coerenza e la fluidità, non per questo l’opera sarà coerente e fluida. Posso anche conoscere le intenzioni dell’autore, ma se l’opera non le esprime allora l’opera ha un problema.
Se possiamo vedere in the Last of Us II una serie di posizioni etiche e politiche, non è perché conosciamo le idee di Neil Druckmann e Anthony Newman, ma perché ritroviamo, all’interno del gioco, una trattazione di quei temi.
Ci tengo a precisare che il fatto che un’opera renda dichiaratamente esplicite le intenzioni degli autori non la rende assolutamente migliore di un’altra che richiede invece maggiore sforzo interpretativo (anzi), né tantomeno che un’opera che esprima certe idee morali sia per questo automaticamente migliore di una che ne esprime altre. Il punto è che i segni delle intenzioni degli autori devono essere presenti all’interno dell’opera.
Ogni segno ne interpreta un altro
Io, in quanto interprete, valuto dei segni – sempre interni all’opera – che indicano cosa l’autore volesse dire. Un esempio tipico è Una modesta proposta di Jonhatan Swift, in cui il narratore espone “un metodo onesto, facile e poco costoso” per risolvere il problema della sovrappopolazione e la disoccupazione: mangiare i figli dei poveri. È chiaro che le intenzioni dell’autore fossero ironiche, e lo capiamo da elementi interni al testo stesso. Tuttavia, sappiamo bene che l’ironia è una materia complessa e che capita spesso che sia colta da alcuni e non da tutti, e soprattutto che lo sia in certi contesti e non in altri. Il testo di Swift risulta ironico solo per chi conosce il contesto, gli stili, e i “codici” utilizzati: rientra nelle competenze dell’lettore modello cogliere certe espressioni come ironiche.
Le frasi che esprimono questi codici si trovano nell’opera e non sono dichiarazioni esterne dell’autore empirico, ma il modo corretto di interpretarle si trova al di fuori dei limiti dell’opera e riguarda cioè quell’insieme di competenze che il lettore deve avere ma che acquisisce solo da elementi esterni all’opera.
Dunque, per valutare correttamente una data opera, si devono cercare tutti gli apporti possibili: contesto, intenzione, dichiarazioni, convenzioni culturali, cose che l’autore può aver visto ecc., ma non ci si deve affidare a nessuna di queste. Posso studiare e informarmi il più possibile, ma di fronte all’opera giudico l’opera.
È certamente vero che un’opera, nel momento in cui è completata e pubblicata, è indipendente dall’autore empirico e crea essa stessa i suoi significati. Ma è anche vero che se tutto è segno, lo sono anche elementi esterni all’opera in sé e che aiutano nell’interpretazione. Ogni conoscenza aggiuntiva riguardo le intenzioni dell’autore, il contesto in cui egli opera, i canoni artistici a cui si rifà è un interpretante aggiuntivo dell’opera. L’interpretazione più convincente sarà quella che riesce a rendere conto del maggior numero di elementi presenti nell’opera.