QUESTIONI DI FONDO
Negli ultimi tempi, diciamo dopo l’esperienza di Elden Ring, mi è capitato spesso di pensare al concetto di design, e molto anche al design nei videogiochi. Da persona che gioca, l’unica prospettiva che ho a tal proposito è quella dell’utente finale, e questo mi ha sempre fatto pensare che di conseguenza la mia comprensione dei videogiochi non possa che essere limitata, in quanto limitato è il mio modo di ragionare in termini creativi su cosa sia e come si approcci il progetto che sta dietro l’opera.
Un annetto fa, proprio tra giugno e luglio, mi sono imbattuto in un libro abbandonato da mia sorella dal nome Cromorama, una sorta di excursus sulla storia del colore nelle arti visive. Dal momento che qualche anno prima avevo già letto scorci della Teoria dei colori di Goethe senza però concluderlo, l’ho trovata una buona occasione per tornare sull’argomento colore. L’ho letto senza fare troppo caso al suo autore, Riccardo Falcinelli, un nome che di per sé all’epoca non suggeriva nulla. Di recente, però, mi sono ritrovato sempre più spesso a sentire il suo nome qua e là e così, dopo aver scoperto che si tratta di uno dei più apprezzati graphic designer italiani contemporanei (se avete a casa qualche Einaudi della collana Stile Libero, è probabile che il progetto grafico sia curato proprio da lui), ho deciso di recuperare altri suoi testi. Uno dei precedenti articoli che ho scritto, Perché i side-scroller vanno da sinistra verso destra, prende spunto proprio da uno degli argomenti trattati in un testo di Falcinelli, Figure. In Figure, più ancora che in Cromorama, Falcinelli affronta alcune delle questioni più importanti a cui è sottoposto un aspirante designer. Personalmente non aspiro a fare il designer (o almeno non così come lo si intende generalmente), ma sempre di più, quando provo a “studiare” i videogiochi come mezzo, mi convinco che la cosa più importante da approfondire e da capire davvero a fondo sia proprio il concetto di design. Fin qui niente di che, anzi si può tranquillamente dire che quest’affermazione sia scontatissima: il design è il concetto fondamentale attorno al quale dovrebbe sempre articolarsi un buon videogioco. Eppure è solo affrontandolo più da vicino che mi rendo conto di quanto è per me facile farsi sfuggire molte delle cose più importanti.
Che si parli di game design, level design o character design, e per quanto banale sia rimarcare che un buon videogioco è tale solo se è tale il suo design, l’approfondimento di questa nozione di base è il punto di partenza e quello al quale tornare sempre per ogni persona abbia aspirazioni creative, in ogni ambito. Sia che si tratti di progettare un videogioco, di scrivere un romanzo o una sceneggiatura, oppure anche di strutturare l’interfaccia di uno smartphone, è sempre e comunque il design a declinare il risultato dell’opera e dell’esperienza finale. E i libri di Falcinelli, che trattano nello specifico nozioni di graphic e visual design, sono una buona opportunità per rendersi conto di quanto gran parte della nostra esperienza quotidiana risponda a logiche di progettualità. Occupandosi di grafica, nei suoi testi si affrontano molte delle questioni che finiscono per riguardare anche il videogioco e la sua messa in scena. E questo – lo dico a livello personale – mi ha fatto capire quanto io sia ignorante, fra le altre cose, del linguaggio del videogame.
Come spiega lo stesso Falcinelli1, l’odierna parola design ha fatto, nel corso della storia, un bel giro: il termine inglese viene dal francese dessein, a sua volta mutuata dall’italiano disegno. Nel Cinquecento, un umanista di nome Benedetto Varchi fa un sondaggio (era già un tipo social in questo senso) fra colleghi e pittori, domandando quale sia secondo loro l’arte più importante. Quasi tutti sembrano concordare sul fatto che il disegno sia – e qui cito Falcinelli, che sembra parlare di Zelda nel campo dei videogiochi – “padre di qualunque arte”2. Ma è l’accezione che viene data alla parola disegno a contare: essi lo intendono non come l'insieme di tratti ordinati sul foglio ma come il progetto, ovvero ciò che sottostà alla creazione conseguente dell’opera: senza la progettualità, nessuna grande opera può esistere. L’idea che gli esseri umani si esprimano per progetti perché di fatto sono esseri progettanti non ci dice nulla di nuovo, e non vale la pena scomodare grandi autori dei secoli scorsi, tra cui c’è chi parla costantemente degli esseri umani in chiave prima della loro gettatezza, e poi della loro – potremmo dire per conservare la coerenza di vocabolario – pro-gettatezza.
Ma se nel campo della grafica esiste un set ormai sufficientemente definito di norme e condizioni da rispettare per avere un design che funzioni, l’aspetto che ho sempre reputato più interessante per quanto riguarda i videogiochi è che essi parrebbero a un primo sguardo così variegati fra loro da risultare quasi improponibile il tentativo di ricomprendere in una teoria definitiva il concetto di game design. Ecco, quello di cui mi sono reso conto negli ultimi tempi è che questa affermazione è solo parzialmente vera. In realtà, la ragione per cui reputo la nozione di design in relazione al videogioco la chiave per capire meglio tutto il resto del linguaggio (e lo ammetto, chissà, magari anche imparare a essere più creativi in quel senso) è che più la si affronta e più ci si rende conto di quanto essa tenda, quando si sceglie di costruire l’opera, a restringere le prime libertà dell’autore. Nel senso che pur essendo un campo così sterminato, il game design affrontato da un punto di vista teorico possiede, almeno nei suoi snodi fondamentali, meno margini di manovra di quelli che si riterrebbe quando si ha solo l’idea del progetto ormai compiuto; eppure questo è un bene, perché la comprensione delle logiche di design in questo senso viene per forza di cose incontro al creativo o aspirante tale, che capendo meglio ciò di cui parliamo quando parliamo di game design, ha dalla sua strumenti molto più affinati (e affilati) coi quali intervenire.
Una delle cose condivise da Falcinelli con molti testi che si occupano di teoria del game design è che entrambi affrontano la questione tenendo in gran conto il ruolo cognitivo di un'esperienza. Per capire perché un videogioco funziona, in sostanza, non è sufficiente descriverne il design, ma occorre chiedersi a che regole cognitive esso risponda. Ovvero chiedersi perché quel gioco mi piace, perché mi diverte, ma anche cosa sia piacere e cosa divertimento. Il grande creativo, sembrano suggerire entrambi, è prima di tutto il bravissimo critico. Dove per critico non si intende l’esperto o il professionista del settore, ovviamente, ma chiunque abbia la curiosità a interrogarsi sul perché dei funzionamenti delle cose. Magari cercando poi una rielaborazione personale di quelli che egli reputi essere gli aspetti salienti dell’opera in chiave progettuale e, appunto, creativa.
Gli aspetti che voglio provare a trattare in questo spazio sono proprio relativi ad alcuni dei valori alle fondamenta del videogioco, tentando di incrociare autori che si sono occupati di questioni cruciali come regola, design e interattività: mi riferisco in particolare, oltre al già citato Falcinelli, soprattutto agli esperimenti della game designer Brenda Romero.
BRENDA ROMERO E LE REGOLE
Una quindicina di anni fa, Brenda Romero è nel salotto di casa e prova a spiegare alla figlia il funzionamento dello scambio delle merci tra Europa e Nuovo Mondo nel quale era coinvolta la tratta degli schiavi. Per farlo si inventa un giochino, che rinomina proprio The New World. Il gioco consiste in una serie di pedine, dei colori e poco altro. Romero si rende conto che il gioco è molto più efficace nell’intento di insegnare qualcosa rispetto alle lezioni fatte a scuola dalla figlia, e così estende questa semplice idea e crea il progetto che chiama, per la gioia di McLuhan, The Mechanic is the Message. Il lavoro consiste in un insieme di otto giochi da tavolo costituiti principalmente da pedine, carte, dadi e altri elementi simili. Lo si potrebbe definire un progetto analogico sull’esperienza di gioco e giocatore. Fra quelli proposti, sono due di questi a rimanere impressi: Train e PreConception (pregame notgame). Vediamoli brevemente.
TRAIN
Train non dice quasi nulla al giocatore sul suo funzionamento, si limita solo a fornire gli elementi di cui è composto e a lasciargli l’onere di agire. Il gioco è composto da una serie di pedine, alcuni vagoni, dei binari, un vetro rotto a fare da base, una macchina da scrivere e delle carte. Dati questi semplici elementi, le persone che al tempo si sono occupate di studiare il gioco3 sono riuscite a risalire al suo funzionamento: quello che si deve fare è inserire le pedine nei treni e portarle a destinazione. Più se ne fanno entrare e più il punteggio si alza. Le pedine come si può vedere sono grandi rispetto al vagone, e così ci vuole un certo ingegno per infilarle e poi sfilarle dai vagoni. Qui però arriva il bello (circa): quando si arriva a destinazione il giocatore pesca una carta, ma fra le possibili parole recitate da queste vi sono i nomi di tre luoghi: Auschwitz, Dachau, Mauthausen. Quello che ha fatto il giocatore a sua insaputa è stato, all’interno della metafora del gioco, deportare degli ebrei in un campo di concentramento, sforzandosi di farne entrare il più possibile in ogni vagone. Le simbologie del vetro rotto (a richiamare la notte dei lunghi coltelli) e il modello di macchina da scrivere (uno di quelli in dotazione alle SS, che Brenda Romero si è procurata appositamente) dovrebbero fungere da indizio. Il fatto che tali indizi siano difficilmente colti dal giocatore è parte dell’idea.
Quando si legge di questo esperimento, molte persone pongono l’accento sul valore di installazione artistica di Train, e talvolta anche sul fatto che essa vorrebbe sensibilizzare su una determinata tematica, quella del nazismo. In realtà Brenda Romero sta facendo qualcosa di più, e cioè sta cercando di render conto di alcune fondamentali logiche cognitive e di approccio alle nozioni di regola, interazione e design. Fuori da ogni moralismo didascalico, col suo esperimento Brenda Romero non ha l’ambizione di dare risposte, ma di problematizzare le radici del game design, e infatti sulla pagina internet dedicata a Train si legge che il gioco si propone di sollevare due importanti domande:
Will people blindly follow the rules?
Will people stand by and watch?
La prima domanda è forse la più importante. Occorre chiedersi da subito però cosa sia una regola. Nel fondamentale testo di game design Rules of Play, si viene introdotti al concetto di “Schema di Game Design”. Uno schema viene definito come “un modo di strutturare e organizzare conoscenza”4. Studio e realizzazione del game design, in questo senso, passano dalla coordinazione di tre schemi: regole, gioco, cultura. Le regole sono definite come lo schema formale di game design che si concentra sulla logica essenziale e sulle strutture matematiche di un gioco5. Là dove gioco (inteso in inglese come play, ovvero l’azione del giocare) e cultura sono il contesto nel quale si svolge l’attività del player, la regola è invece l’ossatura rigorosa del gioco. La domanda che si pone Brenda Romero allora non è da poco: quando offro al giocatore la mia opera, seguirà le regole alla cieca? Le persone che hanno deciso che la cosa giusta da fare fosse inserire le pedine nei vagoni e “deportarle”, l’hanno fatto senza interrogarsi su quello che facevano, e di questo non gliene va data alcuna colpa; al contrario è del tutto naturale, proprio perché è nella struttura intrinseca dell’idea di gioco il fatto che dato un certo schema rigido, ovvero l'insieme di regole, i giocatori saranno portati a seguire (anzi, verrebbe da dire a inseguire) quello schema. La prima volta che ho giocato a Dark Souls o Hollow Knight, lo ammetto senza problemi, io della trama non ci ho capito niente. E come sappiamo è una sensazione comune con questi giochi. Eppure continuavo a giocare e a muovermi ciecamente seguendo le regole senza farmi troppe domande su cosa stessi facendo, perché è così che si articola, almeno all'inizio, l'esperienza di gioco. Il primo approccio di un giocatore al gioco è sempre quello che gli fa prendere coscienza del fatto che egli si muoverà per forza entro un cerchio più o meno ristretto di regole; sarà poi compito del design persuaderlo a fare ciò per tutto il tempo che esso riterrà giusto6, e a evitare che egli abbandoni prematuramente il gioco7.
A questo vanno aggiunti due fattori determinanti. Il primo riguarda la differenza fra regola e design: vista la descrizione che abbiamo dato sopra della nozione di regola, essa differisce dall’idea di design, e ne è piuttosto uno degli aspetti chiave (da tenere a mente che esistono poi giochi dove le regole tendono a coincidere col design, ma qui non ci occupiamo di questa eventualità); il secondo aspetto attiene al fatto che molti giochi – ed è ciò che condividono per esempio i succitati Train e Dark Souls – non offrono un set preciso di regole, al massimo un rapido tutorial. Sarà poi compito del giocatore, attraverso la sua esperienza più (Dark Souls) o meno (Train) articolata, risalire alle regole del gioco, o almeno a quante più egli riesca a definirne. E questa ricerca delle regole è uno dei fattori più importanti, perché contribuisce alla sensazione di coinvolgimento (il cosiddetto engagement) ricercata da molti designer di videogiochi, laddove altri invece partono proprio dal presupposto che il gioco comincia solo dopo che si hanno ben chiare tutte le regole: a scacchi non posso giocare senza sapere come si muove l’alfiere, mentre nessuno in un Souls mi dice come funziona lo split damage o la gestione del carico, ma è compito mio risalire a quelle regole sulla base dell'offerta di design; sarebbe impossibile giocare a scacchi tentando di risalire al funzionamento di pedoni e regina dal nulla, a meno di non guardare e poi studiare tante partite di altri giocatori. E infatti quello che si fa spesso per insegnare a qualcuno gli scacchi è fare con lui una partita di prova, così da esporgli tutte le regole in modo che dalla prossima sia già bene o male autonomo. In Dark Souls8, invece, il design è strutturato in modo da chiedere a me giocatore questo specifico compito, dedurre le regole, o almeno alcune di esse. Allo stesso modo in cui in Train risaliamo alle azioni che dobbiamo compiere per vincere, ed è quella la cosa davvero importante da fare. Riprovevoli o meno che siano tali azioni.
La seconda domanda (Will people stand by and watch?) ci aiuta a comprendere meglio la prima, e aggiunge persino un ulteriore aspetto: dopo aver compreso le regole, cosa fa il giocatore? Vista l’aggiunta di un ulteriore livello, ovvero il significato di un gioco che non avremmo voluto portare avanti e il cui messaggio non condividiamo, cosa facciamo? Alcune delle persone che sono riuscite a “risolvere” il gioco della Romero si sono poi in un certo senso ribellate al volere della creatrice, al punto da provare a sabotarne il funzionamento. E questo pone proprio l’accento su uno degli aspetti più interessanti del videogioco, vale a dire la presenza del limite insita nell’idea di game design. Il design è l’imposizione del limite di un videogioco, e non c’è possibilità di fuggirne. Potremmo definire il design come la maniera in cui il gioco chiede al giocatore di essere giocato (e le regole sono lo strumento per farlo). Ma nel caso di Train, quando questo limite è raggiunto – quando, cioè, la meccanica non solo “mcluhanamente” è il messaggio, ma scopriamo che questo è persino contrario alla nostra morale privata (tale da farci percepire la sensazione di essere noi quelli giocati dal design) – come ci comportiamo? Continuiamo a giocare? Ci rivoltiamo contro le regole? Anche se volessimo, come farlo? L’unico modo sarebbe di spegnere il gioco e smettere di giocare, perché le regole di un gioco (e quindi il design) non possono essere cambiate: quel compito spetta solo all’autore. Brenda Romero vuole che ci concentriamo su questo specifico aspetto, il limite imposto dal design.
È anche per questo che nel mondo dei videogiochi ha tanto fascino il concetto di cheat: attraverso i cheat che alterano il gioco, il giocatore si avvicina quanto più possibile all'idea di aggirarne il design, ma questa rimane solo una sensazione; e forse sarebbe più corretto dire che ogni volta che un giocatore sta usando un cheat, in realtà ciò che fa è adoperare un nuovo set di regole per affrontare lo stesso design. Perché dal design, volente o nolente, non si può uscire, in quanto esso è il gioco. On n'échappe pas de la machine, diceva Deleuze, non si sfugge dalla macchina; e se si pretende di uscirne, in realtà si finisce per giocare a qualcos’altro, alla distorsione di un modello.
La forzatura esercitata dal designer sul giocatore attraverso le sue imposizioni è l’aspetto che vuole mettere al centro dell’attenzione Brenda Romero con la sua seconda domanda, e il risultato è confermato da altri esperti di settore, anche coloro che si concentrano sui tratti umani e cognitivi chiamati in causa dal game design. Nel suo Theory of Fun for Game Design, per esempio, Ralph Koster identifica l’obbedienza cieca come uno di questi tratti: quando giochiamo, facciamo le cose prima di tutto perché “quelle sono le regole”9.
Per molti, attraverso Train, Brenda Romero ci farebbe capire il valore della responsabilità sociale, e come tutti siamo chiamati a rispondere delle scelte che facciamo. Non c’è dubbio che, visto quanto scopriamo alla fine del gioco, questo sia un aspetto significativo dell’opera. Ma questo avviene non perché Train voglia farci la morale: semmai, quello su cui va posta l’attenzione è l’effetto shock nel realizzare che la messa in pratica delle meccaniche di gioco – ovvero aver desunto le regole attraverso il design all’interno del quale ci siamo mossi, come avviene per esempio in un Souls – è il luogo in cui risiede il messaggio stesso (e in questo caso specifico, Brenda Romero vuole amplificare lo shock grazie al portato macabro del messaggio del suo gioco); e che non c’è modo di oltrepassare tale scoglio se non quello di non giocare, o alterare il gioco sino a renderlo qualcosa di diverso. Brenda Romero non è una spacciatrice di morali qualsiasi: col suo discorso punta ad arricchire la questione relativa alla funzione della progettualità di un videogioco e a ruolo e limiti delle regole.
PRECONCEPTION (PREGAME NOTGAME)
Questo secondo gioco di Brenda Romero è probabilmente più stimolante per gli aspiranti game designer, anche se forse ha qualcosa in meno da dire. Esso consiste in una serie di elementi (pedine, dei secchi con dei dadi da gioco, una clessidra ecc.) forniti al giocatore con una premessa: il gioco è senza regole. Visto quanto detto prima, ciò parrebbe al limite dell’accettabile: essendo le regole – come suggerisce Rules of Play – uno dei tre “schemi” fondamentali del game design (assieme a giocare e cultura), annullando le regole si disintegra uno dei presupposti principali del concetto di gioco. L’intento in realtà è ben preciso: esso vuole “rappresentare lo stato neutrale della mente del game designer quando gli/le viene offerto lo spazio di possibilità di un nuovo gioco”10. Quello su cui ci si concentra qui è lo spazio infinito dato al giocatore, che qui diventa possibile game designer – una sorta di grado zero dal quale partire per provare a realizzare tutte le possibili permutazioni di gioco. Ogni volta che attuiamo una scelta (per esempio vogliamo trovare un utilizzo ai dadi ma non alle pedine, scegliamo di usare la clessidra come valore temporale di gioco ecc.), la nuova regola incanala il gioco su nuovi binari di design, restringendolo.
Rispetto a Train questi ha meno implicazioni di superficie, ma PreConception è molto utile per far capire come dal punto di vista creativo il game design si realizza al meglio quando a una restrizione degli ambiti di possibilità corrisponde un ampliamento dello spazio d’azione e di gioco. La messa in pratica creativa di questa equazione è il jackpot del game designer: ogni scelta di design ne chiama a sé delle successive e ne esclude per forza molte altre, e solo attraverso questo processo, come dice Romero, “il gioco è rivelato”. Proprio in questo senso PreConception è un pregame notgame: dando al giocatore una tabula rasa su cui intervenire, attua su di lui una pressione che lo fa passare dallo stato di gamer a quello di designer, obbligandolo a mettersi in moto per giustificare delle scelte e sacrificarne altre. Il tutto in funzione della ricerca di valore e creatività nella sua opera.
Qui, però, PreConception ci offre gli spunti per chiarire anche un’altra questione. In precedenza, richiamandoci al testo Rules of Play, abbiamo rintracciato nelle regole uno dei tre schemi fondamentali del game design, assieme a giocare (play) e cultura (culture). Abbiamo già definito la nozione di regola, ora concentriamoci sulle altre due, che vengono descritte in questo modo:
GIOCARE: contiene schemi di game design esperienziali, sociali e di rappresentazione, che mettono in primo piano la partecipazione del giocatore con gioco e altri giocatori;
CULTURA: contiene gli schemi di game design che investigano i contesti culturali all’interno dei quali il gioco è progettato.
Fondamentale è sottolineare che nel definire questi tre schemi, essi non sono organizzati come una tassonomia, nel senso che ciò che ricade sotto il dominio di regola non è automaticamente escluso da quello di giocare e cultura o viceversa: gli ornitorinchi sono ammessi e persino auspicabili. Piuttosto gli schemi, adoperati in sinergia e così compresi, sono utili per evidenziare i principali problemi a cui è costantemente sottoposto il designer, e per fargli capire su quali egli preferisca concentrarsi. Se poi questo comporta l’intersezione tra schemi, ben venga. E anzi, è proprio questo l’aspetto interessante di PreConception di Romero. Esso, infatti, parte dal presupposto di sollevare questo interrogativo: quando comincia il gioco? Il suggerimento datoci è che esso inizia quando sono stabilite delle regole, tali per cui il notgame diventi game. La domanda allora è: cosa fare e cosa pensare, a questo punto, del giocare e della cultura? Si potrebbe cominciare anche senza di essi? L’idea espressa da Brenda Romero è che mentre le regole siano un presupposto fondamentale per iniziare il gioco, per quanto riguarda lo schema cultura esso possa essere facilmente stilizzato, laddove il gioco lo richieda: le pedine che adoperiamo in PreConception, così come la clessidra o i dadi, possono rispondere a tante descrizioni culturali quante noi vogliamo dar loro. Posso decidere che le pedine siano soldati, ma anche persone in fuga; che la clessidra sia il tempo entro il quale si articola il gioco, o se preferisco il simbolo del Dio del Tempo all’interno della lore che sto inventando. Ma una volta stabilite le meccaniche, tutto ciò sarà solo un elemento marginale del gioco, poco rilevante per il suo svolgimento. Per tornare agli scacchi, essi sono un buon esempio di come la cultura di un gioco possa essere stilizzata all’estremo senza conseguenze sul suo funzionamento: a nessuno è mai fregato se la regina negli scacchi fosse Maria Stuarda o Elisabetta di Borbone, ma che essa non vada persa perché è il pezzo più forte del gioco. I giochi, come scrive Ralph Koster, sono sempre formali11. E infatti, spiega Koster più avanti appellandosi a una nozione fondamentale:
Perché i giochi si sviluppino davvero come mezzo, essi hanno bisogno di sviluppare ulteriormente i LUDEMI, non il vestito”.12
Questo passaggio è fondamentale per un aspirante designer e creativo, e per chiunque voglia capire dove si evolve il mezzo in meglio. Un LUDEMA (dal neologismo inglese ludeme; non esiste una vera traduzione italiana, quindi cerco di conservarlo intatto) è un concetto fondamentale definito dal game designer Ben Cousins, ed è descritto come l’”unità fondamentale del gameplay”13: sono ludemi idee di fondo come “muoviti per la mappa in orizzontale”, “spara”, “raggiungi il punto X”. Il vestito è invece tutto ciò che adorna il gameplay. E questo conferma come, fra i tre schemi di design individuati, anche il giocare possa essere stilizzato senza sacrificare il valore del gioco.
È di per sé giusto dire che per godere di un videogioco con ambizioni poetiche e letterarie io debba sapere chi è il boss che ho ucciso, ma il grande videogioco (e quindi il grande game design) si ha quando esso propone i suoi aspetti culturali senza soluzione di continuità rispetto alle sue regole e al suo giocare. PreConception è un esercizio di game design che serve per allenare questo aspetto. La frase più emblematica nella descrizione di PreConception sul sito della Romero, quando spiega cosa succede nel momento in cui nel gioco introduciamo una nuova regola, è questa iperbole: “A die introduces chance”. La morte è prima di tutto una meccanica, poi anche un fatto narrativo.
LA MECCANICA È IL MESSAGGIO
In una intervista rilasciata a Fumettologica14 ad aprile 2022, Riccardo Falcinelli dichiara che il suo sogno da bambino era quello di fare cartoni animati. A quindici anni scrive alla Disney, che gli risponde persino, dicendogli di non limitarsi a disegnare Paperino e Topolino, ma di imparare a disegnare per conto proprio. Lui prende il suggerimento alla lettera, e studia per comprendere sino al nocciolo il concetto stesso di disegno.
La vita l’ha condotto da un’altra parte, vuoi perché spesso la propria passione viene incanalata in modi imprevisti, vuoi perché in Italia non esiste tutt’ora una vera industria dell’animazione. Proprio come non esiste una grande industria del videogioco. Ciò non toglie che, durante il suo percorso, gli studi fatti hanno portato Falcinelli ad approfondire le questioni inerenti al ruolo del design, ed egli è ben conscio di come la teoria, quando affrontata come si deve, non sia mai solo teoria. A maggior ragione se si parla di videogioco – un campo di cui Falcinelli non si occupa direttamente ma al quale offre molti spunti di riflessione – proprio perché esso è il mezzo per eccellenza dove l’assenza di fisicità dell'opera che sta creando svincola il designer da alcuni problemi industriali e di produzione, ma lo ancora ad altri ugualmente pressanti.
Davanti alla scelta se essere un critico o un autore, la maggior parte delle persone sceglierebbe sempre di essere autore. Ma per esserlo davvero, per imparare ad avere qualcosa da dire, è fondamentale essere prima di tutto in qualche misura critici. Negli anni ‘50, alcuni critici cinematografici francesi guidati da André Bazin fondano i celeberrimi Cahiers du cinéma. Per tantissimi anni la redazione dei Cahiers accoglie critici del calibro di Rohmer, Godard, Truffaut, Chabrol. Queste persone passano anni e anni – e sottolineo anni e anni – a scrivere articoli su quelli che loro (e all’epoca soltanto loro) reputano essere i più grandi cineasti del tempo. Mentre gli altri girano film, loro scrivono: gente del calibro di Howard Hawks e Alfred Hitchcock, che all’epoca veniva considerata alla stregua di semplici mestieranti nelle mani delle major statunitensi, viene rivalutata appieno grazie al lavoro di critica degli autori dei Cahiers, e oggi tutti sanno che Hitchcock è a pieno diritto fra i più importanti cineasti della storia, e che Hawks non sfigura al cospetto.
Ma quello che accade dal decennio successivo è ancora più interessante: dopo aver capito che proprio questi critici vedono il cinema come nessun altro, qualcuno inizia a fidarsi anche delle loro capacità espressive; persone come Truffaut e Godard si mettono dietro la macchina da presa, e fra il ‘59 e il ‘60 esordiscono con le rispettive opere prime, I 400 colpi e Fino all’ultimo respiro, fra i film più importanti non solo del movimento della Nouvelle Vague, ma della storia del cinema tutta.
Per arrivare a quel risultato, persone come loro e come i colleghi Rohmer e Chabrol hanno dovuto farsi il gusto anni e anni, studiando e analizzando il lavoro degli altri con occhio critico. In un modo che nessuno aveva fatto prima, capendo cose sul cinema che nessuno, prima di loro, aveva ancora compreso. Studiare a fondo la tecnica era, per loro, il primo atto di formulazione della propria poetica, più importante ancora che uscire e girare senza criterio con la macchina da presa.
Tornando al game design, la questione è molto simile: per capire cosa sia davvero un buon game design e aspirare a essere autori e non più solo critici, bisogna guardarlo da più prospettive. Potenzialmente siamo tutti grandissimi autori, e una persona creativa in fondo deve vivere un po’ nella bolla solipsista secondo cui tutto esiste solo per lui e la sua opera. Ma l’opera, per diventare vera, deve poi fronteggiare il mondo reale; e il mondo non ha bisogno di storie nuove, ma di meccaniche nuove per storie vecchie.
Per imparare a fare ciò, uno dei metodi migliori è seguire il suggerimento di Brenda Romero, che con The Mechanic is the Message vuole pungolare nel vivo chi abbia ambizioni in questo senso, facendolo porre nella condizione di pensare a ritroso a cosa sia il game design.
Proprio pensare a ritroso è fondamentale. Torniamo agli scacchi, che in vista della loro struttura possono essere utili per capire un concetto. Uno dei miei esempi preferiti dell’importanza del pensare a ritroso come primo passo per migliorare la creatività viene proprio dal mondo degli scacchi15: in un intervento di qualche anno fa, il Grande maestro Maurice Ashley sottolinea l’importanza del ragionare a ritroso – a partire cioè dal risultato della partita – per capire come risolvere i problemi. Per quanto gli scacchi posseggano un set di regole molto ristretto, così come lo è il loro campo da gioco, uno dei fattori più interessanti è che per vincere (nel linguaggio degli scacchi leggi come “risolvere i problemi”) serva un’enorme dose di creatività. Il campione del mondo di scacchi Magnus Carlsen ha chiesto da tempo a uno scacchista russo, Daniil Dubov, di far parte del suo team. Dubov, pur essendo un grandissimo scacchista, non è tra i migliori in assoluto e commette errori che spesso gli scacchisti più abili nei calcoli non fanno, ma quando gli viene chiesto perché Carlsen reputi così importante avere proprio lui nel team, la risposta è che nessuno è creativo come Dubov. La risoluzione dei problemi implica sempre un alto livello di creatività, persino in un gioco dove vige un certo rigore di calcolo come negli scacchi; e il game design nei videogiochi è strettamente connesso a questo bisogno. Studiarlo a ritroso come ci chiede di fare Brenda Romero con un semplice esperimento evidenzia questo aspetto e serve da stimolo per sollevare domande scontate all'apparenza, ma fondamentali per il proprio gusto creativo.
Riccardo Falcinelli non la pensa diversamente: per esercitarsi a mettere in atto un buon design, scrive, “l’aspetto davvero importante sembra essere non soltanto il talento ma la sua progettualità”16. Perché il talento viene da lì, dal farsi il gusto. Con la premessa fondamentale che bisogna comunque avere qualcosa da dire, o si rischia di non andare molto lontano. E quel qualcosa da dire, nel videogioco, comincia dalla sua meccanica.
Seguendo l’intuizione di Brenda Romero, la meccanica è il messaggio perché è lì che risiede il limite e il senso dell’esperienza di gioco. La meccanica, e quindi il gameplay, è il messaggio perché ogni volta che ci ritroveremo a comandare Wander a spasso per le Forbidden Land, non importa quanto si reputi riprovevole abbattere i colossi innocenti, ma dovremo farlo o il gioco non sarà più nemmeno tale; e ogni volta che dovremo salvare Ellie, purché si possa scegliere di risparmiare alcuni dei medici innocenti che vogliono estrarre la cura dal suo corpo, dovremo fare fuori almeno il loro capo. Proprio lì, a due passi dalla fine dell’avventura di Joel, come a dire che in fondo è solo un ultimo sforzo, quindi perché non farlo e godersi il finale?
La chiave sta proprio nel concetto di meccanica: essa è “l’attività di gioco essenziale performata dal giocatore ancora e ancora”17. Una volta stabilita quella, il lavoro del designer è in discesa. Anche se solo all’inizio.
Critica portatile al visual design. Da Gutenberg ai social network, pag. 45, Einaudi, 2014.
Ibidem.
Dico studiare e non giocare perché di fatto il gioco non fu commercializzato, ma venne trattato quasi alla stregua di una installazione artistica.
Rules of Play: Game Design Fundamentals, cap. 1, E. Zimmerman, K. Salen, 2003.
Ibidem.
Un esempio pratico per aiutare nella distinzione delle funzioni di regola e design in un videogioco: in The Last of Us, gioco noto per l’ottima fusione di gameplay e storytelling, all’inizio ci viene chiesto subito di prendere confidenza con alcune regole basilari del gioco (principalmente: come muoversi, come e perché interagire con gli oggetti) tramite il controllo della figlia di Joel, Sarah. Nella fase iniziale di developing non era previsto che il giocatore controllasse Sarah: secondo il primo concept, il giocatore interpretava sin da subito Joel mentre andava a casa dei vicini e uccideva un infetto. Neil Druckmann, il game director, spiega che discutendo coi designer si sono resi conto che quella scelta suonava un po’ familiare e già troppo proiettata dentro il gioco, e così hanno scelto di cambiare e optare per la versione finale, dove cominciamo controllando Sarah. Druckmann ne parla qui. Il cambio di punto di vista quando il controllo passa da Sarah a Joel (nella versione definitiva) è in funzione di una scelta di equilibrio, ovvero quella di presentare un primo momento dove, attraverso il controllo di Sarah, si ha un’esposizione basilare delle prime regole; e un secondo momento in cui, attraverso le prime mosse e scelte che siamo portati a fare col gameplay quando impersoniamo Joel – come l’esigenza di salvare la stessa Sarah – siamo già dentro a logiche di design puro. Perché a differenza della breve fase in cui siamo Sarah (dove di fatto esiste solo un modo di giocare e proseguire), nel momento in cui incarniamo Joel noi siamo introdotti alla possibilità di operare delle scelte (cosa fare, dove andare, chi evitare, come difendersi ecc.). E infatti da questo momento il gioco ci introduce anche il concetto di game over, non presente quando siamo Sarah: il design si evidenzia soprattutto quando è ammessa la possibilità di fallire, e di rintracciare quindi il limite del design stesso. La prima versione del concept, secondo gli autori, commetteva l’errore di non dare al giocatore il tempo necessario per essere introdotto ad alcuni fondamentali, prima di fornire gli iniziali spazi di manovra: le regole definiscono il gioco, ma è il design a trattenere il giocatore.
Il tasso di abbandono è infatti uno dei fattori considerati dai designer nello sviluppo di determinati giochi. Prende il nome di churn rate e sulla sua base si strutturano anche molte delle strategie commerciali delle più grandi piattaforme di streaming.
Uso Dark Souls come esempio perché è molto conosciuto e rappresenta un estremo rispetto a questa caratteristica, di conseguenza è più facile capire il concetto, ma la stessa cosa vale ovviamente per una quantità sconfinata di videogiochi.
Theory of Fun for Game Design, R. Koster, pag. 68.
Dal sito ufficiale di Brenda Romero, traduzione mia.
Theory of Fun for Game Design, R. Koster, pag. 138. Lascio il resto del passo, che estende brevemente il concetto: “Games, however, are always formal. The historical trend in games has shown that when a new genre of game is invented, it follows a trajectory where increasing complexity is added to it, until eventually the games on the market are so complex and advanced that newcomers can’t get into them—the barrier to entry is too high”. Il problema si ha proprio quando questa “barriera d’entrata” è troppo alta: spesso ciò avviene perché il design è troppo dispersivo, a causa di un minore focus sul valore delle meccaniche in favore di altri aspetti.
Ibidem, pag. 170.
Ibidem, pag. 120.
Chiedo scusa se li ho tirati fuori così spesso in questo articolo, ma oltre a ritenerli utili per comprendere alcune dinamiche, gli scacchi sono – piccolo foreshadow per un articolo futuro – il mio personale gioco senza fondo.
Critica portatile al visual design. Da Gutenberg ai social network, pag. 83, Einaudi, 2014.
Rules of Play: Game Design Fundamentals, cap. 23, E. Zimmerman, K. Salen, 2003.