Ma il fanservice che cos’è?
Qualche frustata a quello che amiamo e una riflessione su quello che gli autori (e i giocatori) non riescono a lasciare nel passato
Fan service (ファンサービス fan sābisu) o fanservice, traducibile come "servizio ai fan", è un termine gergale usato per indicare l'attenzione prestata da parte della produzione circa particolari marginali o gratuiti che non hanno un peso reale sulla trama, ma sono presenti solo per soddisfare le richieste di un certo tipo di pubblico. Nonostante questo termine sia nato tra i fandom di anime e manga, oggi viene ampiamente utilizzato anche per altre tipologie di media. (Wikipedia)
Chiaro, no? Si parla di fanservice quando si inserisce nel prodotto o nella storia qualcosa che di per sé non ha una particolare ragion d’essere se non il gratificare l’appetito del fan.
Non sono del tutto d’accordo e, come me, moltissimi appartenenti alla “community dei gamers”, se così vogliamo chiamare uno degli insiemi più eterogenei che esistano. Comunemente, infatti, si comprendono sotto il cappello del fanservice anche alcuni elementi contestualizzati: accade quando un certo ruolo all’interno della trama potrebbe essere tranquillamente svolto da nuovi elementi ma, guarda caso, si decide di strizzare l’occhio ai fan riprendendone proprio uno vecchio che era stato tanto amato. Questo fanservice contestualizzato, che stando alla definizione non esisterebbe, in realtà è molto diffuso e sfrutta certamente le stesse dinamiche.
L’appello al fanservice è una delle critiche più in voga nei confronti di videogiochi che ripescano elementi da altri titoli, tuttavia questo tipo di valutazione è guidata spesso dallo sdoganamento di un termine che ha preso piede più che da un’effettiva considerazione di merito. Così come per i “buchi di trama”, una volta che il grande pubblico ha scoperto il termine ha iniziato ad additare ogni elemento ricorrente nei videogiochi al grido di “Buuh! Fanservice! Fanservice!”, ma quando si può davvero considerare tale e, soprattutto, davvero è sempre un aspetto negativo, un danno per l’opera?
Quello che intendo fare oggi per rendere chiara la mia tesi è tirare dolorosamente le orecchie a tre storici franchise i cui capitoli sono sparsi su più generazioni di console, fermo restando che si tratta di saghe non nate come tali nelle quali solo il primo capitolo era originariamente previsto, quindi avendo ben presente che la stessa esistenza di uno o più sequel rientra già di per sé nella definizione di fanservice. A scanso di equivoci e per giocare a carte scoperte, sono tra i franchise videoludici più importanti per la mia “carriera” di videogiocatore e tre fra i miei preferiti, potrebbero perfino rappresentare il mio podio personale.
Attenzione: presenti spoiler delle opere trattate
Final Fantasy X e X-2
Siamo di fronte a quello che è forse il più goffo e spudorato fanservice nella storia delle grandi IP videoludiche. FFX è un gioco fortemente story-driven nel quale ogni elemento contribuisce a creare una narrazione che si apre e si chiude in modo coerente, chiaro, asciutto. Al momento della fusione tra Squaresoft ed Enix, la neonata software house decise di sperimentare e di trovare un nuovo corso rimanendo nel filone dei JRPG tradizionali. Avendo in mente di innovare pesantemente il game design di Final Fantasy con una struttura a missioni mista a un redivivo job system combinato a un’idea di evoluzione di ATB, si ebbe la discutibile idea di andare sul sicuro con le vendite sfruttando l’amore che FFX si era guadagnato: tutti quegli elementi di gameplay furono quindi inseriti all’interno di un sequel. Sul piano narrativo, gli sceneggiatori di FFX-2 si trovarono nella non invidiabile posizione di dover costruire nuove storie e nuove tematiche partendo da una vicenda graniticamente chiusa e con nient’altro da dire.
Al fine di ingraziarsi i fan del primo capitolo, quindi, fu deciso di rendere l’intero gioco un’enorme, continuo richiamo di elementi passati nel vano tentativo di non far notare che si era, di fatto, di fronte a qualcosa che non c’entrava assolutamente niente. Se il ritorno a Zanarkand nelle prime fasi di gioco promette di mostrare sviluppi di ciò che esisteva prima della sconfitta di Sin e che si è evoluto dopo la distruzione del mostro, finiamo presto in un vortice di assurdità: Eoni che tornano in auge (pur essendo, di trama, necessariamente scomparsi), sfere che smettono di essere semplicemente registratori per ricordi e che diventano il veicolo delle più svariate abilità (peraltro acquisite nel corso di trasformazioni stile Sailor Moon), la storia di una coppia di innamorati di 1000 anni fa che viene riscoperta casualmente proprio da Yuna e nella quale l’uomo è casualmente sosia proprio di Tidus (per nulla improbabile e forzato, mi complimento), un culto di Neo-Yevon che riscuote successo in barba alla scoperta dell’inganno clericale pochi anni prima, interi elementi centrali dell’ambientazione inspiegabilmente scomparsi nel nulla (come il rito del trapasso, nonostante il gioco parli molto di Oltremondo) e, ciliegina sulla torta, un finale “segreto” (ottenibile premendo X durante alcune cutscene per far sentire un fischio a Yuna, molto ben congegnato, mi complimento di nuovo) che riconsegna lo scomparso Tidus all’ormai solitaria Yuna, o meglio, a quella che FFX-2 ha la bizzarra audacia di chiamare “Yuna”, vanificando così l’amarezza indimenticabile del gioco precedente e l’efficacia del suo finale allusivo e incerto.
Non credo si possa fare un miglior esempio di un peggior fanservice, essendo non un semplice “catturare il fan” mentre gli si racconta una storia bensì il costante chiedere al giocatore di bersi una frottola, di ignorare l’evidenza e di comprare e amare un titolo in virtù del nome sulla custodia e della bellezza del capitolo precedente. Sembra di sentire il pensiero dietro all’operazione: “Non c’è niente del primo gioco, abbiamo strutturato un’esperienza del tutto diversa, scritto caratterizzazioni completamente slegate, pensato una trama che non sarebbe mai stata possibile, ma tu vuoi sapere cos’è successo ai personaggi che ami, no? E allora compra, mia vacca”. Questo è il genere di fanservice che solo uno zelota chiamerebbe altrimenti, un tentativo maleodorante di comprare tutti i pischelli sui quali Spira aveva lasciato il segno anni prima e che non potevano resistere alla tentazione di tornare nei boschi di Kilika e sul Fluvilunio. Chi scrive era fra questi, quindi non negate, lo capisco perfettamente. Come voi ho finto di non vedere che quel ridicolo trailer – che fu poi il filmato iniziale – prometteva il disastro e un’esperienza pronta a defecare su quella che avevamo amato, come voi ho comunque comprato il gioco. Ora però le ceneri sono fredde ed è bene ammettere quanto bruciava, anche per evitare di ricadere in mosse commerciali definibili soltanto come offensive in quanto denotano la considerazione che la software house ha per il proprio consumatore: un povero pirla pronto a mangiarsi il peggior collage disarticolato di idee purché ci sia sopra la firma tanto amata. Per il bene nostro e anche del mercato, è necessario imparare a punire duramente mosse del genere.
In questa sede vale la pena soffermarsi su un punto preciso del gioco: in FFX-2, volendo strizzare l’occhio anche al brand sul quale si voleva puntare da quel momento in avanti, cioè Final Fantasy 7 (altra vittima martoriata dalle stesse logiche), si inserì un bambino di nome “Shinra” che a fine gioco scopre una grande energia nel sottosuolo di Spira. Ovviamente si tratta di una semplice citazione, ma una non trascurabile quantità di fan sprovvisti dei comuni strumenti di giudizio si convinsero che FF7 e FFX fossero ambientati nello stesso universo narrativo. Questo, però, non è fanservice, è un inside joke come la simpatica citazione a Cloud e Squall alla fine di FF9, e chi ha capito fischi per fiaschi non può – in questo caso – imputare nulla a chi l’ha inserito.
Metal Gear Solid Saga
Hideo Kojima, maestro del medium videoludico, ha avuto molte occasioni di citare le proprie stesse opere e non si è certo astenuto dal farlo. Nella maggior parte dei casi, i riferimenti che i Metal Gear Solid contengono sono di natura extradiegetica e non sarebbe quindi del tutto esatto definirli fanservice: se è vero che sono strizzate d’occhio al giocatore dei titoli precedenti, è anche vero che la trama prosegue senza essere sfiorata da quello che è semplicemente uno scherzo fra designer e fruitore. Kojima inserisce direttamente all’interno del proprio lavoro quelli che oggi chiameremmo meme, come la schermata di game over con la scritta “Time Paradox” se in MGS3 uccidiamo Ocelot, ancora vivo nei capitoli cronologicamente successivi, oppure l’ironia di Otacon che, nel punto in cui si cambiava disco in MGS1, ironizza sul fatto che grazie al Blu-Ray non ce ne sia più necessità. In altri casi, però, lo sfoggio di fanservice è palese e spudorato. A volte lo è al punto da diventare una simpatica firma, qualcosa che può essere liquidato ridacchiando con “ecco, il solito Kojima”, tuttavia ci sono molte occasioni nelle quali neanche il celebrato autore sfugge alle criticità delle proprie scelte, così gratuite da apparire stucchevoli o perfino tossiche.
Questo è riscontrato principalmente in MGS4: l’abuso senza senso del corpo femminile delle “Beauties” è imbarazzante anche per gli standard di Kojima (provate a cercare “Metal Gear Solid 4 Beauty” su Google immagini e troverete un sacco di trama), l’inserimento di quel Johnny che in MGS1 si era trovato denudato da Meryl è privo di un reale senso (le coincidenze hanno un limite, pena la distruzione della credibilità) e i richiami alla squadra FOXHOUND non trovano altra ragione se non il dare al fan un ricordo del primo gioco in chiusura della storia. Non parliamo neppure dello scontro fra REX e RAY nel quale il (precedentemente) goffo REX sfoggia una mobilità degna del personaggio di un picchiaduro grazie alla scusa “l’ho patchato” di Otacon solo perché Kojima aveva fame di robottoni. Eppure, il posteriore delle Beauties e le loro movenze attirano l’occhio, la presenza di Johnny fa esclamare “Oooooh! È quello di MGS1!”, vedere parallelismi a FOXHOUND ci ricorda i vecchi tempi e lo scontro fra mecha che ruggiscono, oltre a toglierci lo sfizio di essere finalmente noi a pilotare un Metal Gear, per di più il primo che molti di noi hanno affrontato, gonfia l’emozione del fan.
Tutt’altro che esenti dal fanservice pacchiano sono le altre opere: In MGS2 vediamo sbucare fuori un Liquid Snake ancora senziente in virtù del fatto di trovarsi… nel suo braccio, separato dal cadavere e impiantato in Ocelot. Certo, nel corso della saga una retcon corregge questo orrore (con un altro orrore), ma in MGS2 Kojima ha usato un simile espediente pur di riproporre un villain di successo e l’eventualità che il defunto leader FOXHOUND si trovi in un bicipite è presa per buona da tutti i personaggi che assistono alla scena, quantomeno ridicola. La stessa cosa accade in MGSV, che non solo riesuma il colonnello Volgin ma ci regala un intero repertorio di pose ammiccanti grazie a una cecchina ben poco vestita (sorvoleremo sulle goffe scuse che tentano di giustificare la cosa) e inserisce anche uno Psycho Mantis bambino, già potentissimo (molto più di quanto non sia da adulto, a dire il vero). Non mi sento di bollare come fanservice, invece, la presenza di Liquid bambino, che è pretesto per ordire il colpo di scena finale del gioco in modo davvero originale e, trovo, lodevole.
Questa non vuole infatti essere una critica tout court a Hideo Kojima: c’è anche del fanservice molto ben fatto del quale la rivelazione che riguarda Liquid è un’ottima dimostrazione. In MGSV si capisce a occhio che Eli è il giovanissimo Liquid Snake: ne siamo così certi che si rimane poi stupiti quando l’esame del DNA ci rivela che non è il figlio del protagonista… salvo poi scoprire che lui è davvero Liquid e che è invece il protagonista a non essere Big Boss. È un gioco molto intelligente di inversione della prospettiva, molto “alla Kojima”, da tanto che è tirato, ma funziona perché da un lato non ce l’aspetteremmo mai mentre dall’altro la trama ha già inserito tutto ciò che lo rende possibile. Quando in MGS4 si ha la necessità di trovare un’arma nucleare che sfugga al controllo dei Patriots, ha tutto il senso del mondo che si vada a ricercare il cannone magnetico del REX a Shadow Moses ed è quindi pienamente giustificato un ritorno alla base innevata. Il fan è estasiato dal rivedere i luoghi che ha visto 10 anni prima su PSX, quindi è sicuramente fanservice: si poteva non rendere necessario il ricorso proprio al REX, è la trama che è costruita attorno a questo punto e che rende quindi “necessario” usarlo, ma di fatto nel racconto c’è un vero motivo per essere di nuovo lì, un motivo che è coerente con tutto quanto è stato detto nel resto del gioco (da quando i Patriots hanno il controllo dell’economia bellica tutte le armi sono sotto il loro controllo, quindi ci serve un’arma sufficientemente potente che risalga a prima) e questo aumenta il peso e il significato della scena all’interno della saga. Potevamo usare una qualsiasi altra arma datata, magari introdotta per l’occorrenza, ma disponendo già del REX sarebbe stato quasi un errore non sfruttarlo; proporre al giocatore qualcosa che lo faccia sentire a casa, padrone della storia, non è sbagliato, lo diventa se lo si fa a discapito della sostanza o se accade troppo spesso diventando indigesto. Se un evento è ben collocato in un intreccio di nuove idee e risulta naturale conseguenza di molti altri punti di una trama, pur rimanendo fanservice è molto facilmente digeribile e anzi, appare quasi come qualcosa di previsto fin dall’inizio (anche se non lo è quasi mai).
A favore di Kojima va spezzata anche un’altra lancia: MGS2 è fra i titoli più anti-fanservice di sempre. Dopo la demo del gioco rilasciata assieme a Zone of the Enders (titolo di mecha che ha venduto più per la presenza di quella demo che per qualunque altro motivo), i giocatori erano estasiati all’idea di rigiocare nei panni di Solid Snake in ambienti dove pressoché ogni elemento dello scenario era interattivo. Fu solo a ridosso dell’uscita del gioco completo che si scoprì come Snake fosse il protagonista soltanto del prologo, quasi interamente coperto dalla demo: il resto di MGS2 consegnava al giocatore un avatar senza grande caratterizzazione (in quanto puro veicolo di chi lo muoveva) e descritto come “esperto di guerra perché addestratosi in VR, anche con la simulazione della missione di Shadow Moses”, ovvero qualcuno che in guerra non c’è mai stato e si sente un grande eroe perché gliel’hanno fatta vedere in digitale… proprio come il giocatore. Lo stesso Solid Snake, durante l’avventura, parla con disprezzo e ironia di questo genere di persone e apostrofa Raiden dicendogli, in sostanza, che non importa quanto ci fosse di ben simulato, un videogioco è un videogioco e lui la guerra non sa che cosa sia. Nel corso del gioco, mano a mano che Raiden stesso scopre la propria caratterizzazione, il nostro controllo su di lui cala fino alla scena finale in cui si libera della medaglietta di riconoscimento da noi nominata. MGS2, quindi, sottrae al giocatore il suo eroe che, nel frattempo, dà del pallone gonfiato a chi pensava di essere un abile guerriero solo per aver giocato MGS. Il giocatore naturalmente sa bene di non aver combattuto in guerra, ma non fa forse parte del patto implicito fra autore e fruitore il “sentirsi nei panni del personaggio”? Il videogioco non è forse un medium così potente grazie all’immedesimazione, al vestire i panni di un avatar per sentirsi parte di un’esperienza? Secondo Kojima, stavolta no. MGS2 è un titolo che trasmette il suo messaggio in modo opposto a quanto avviene di solito nei videogiochi: non favorendo l’immersione, ma ponendo dei muri netti e definiti fra il giocatore e l’avatar. Niente male davvero, né come uso originale del medium né come critica ai fan.
Dark Souls 1-2-3
Gli appassionati di questo brand affermatosi con prepotenza nel corso dell’ultimo decennio sono particolarmente disinvolti nell’accusare di fanservice. Dopo un primo capitolo che ha lasciato il segno grazie a un’atmosfera unica, si è comprensibilmente ma discutibilmente voluto capitalizzare sul prezioso carburante della Prima Fiamma.
Dark Souls 2, al quale generalmente – nel tentativo di sminuirne i problemi – si attribuisce il coraggio di distanziarsi dal gioco precedente in trama e temi, in realtà è imbevuto di fanservice nei punti peggiori. Il gioco alterna i suoi nuovi spunti (dei quali ben pochi di spessore) a strizzate d’occhio insistenti e affannose a una lore, quella di DS1, che non viene poi contestualizzata adeguatamente. Non si contano descrizioni e dialoghi che si riferiscano a “regni ormai dimenticati” e quasi nulla di quanto c’è di originale è autosufficiente. Il ballare fra quel “guardami, giocatore, vivo di vita autonoma” e quel “non riesco a farti mio se non ti menziono ciò che ami” dà luogo a una sintesi assai grottesca che sa di disperazione, un implorare per l’amore del fan (sempre pronto a fornirne a buon mercato) che culmina in trovate quali un casualissimo Ornstein versione oscura, Gargoyle fotocopiati fin nell’arena e nella colonna sonora e di un del tutto gratuito altare del sole dietro una grotta del tutto anonima nella Valle del Raccolto. Il cuore di DS2 è l’annaspare fra un riciclo e l’altro del gioco originale mentre, timidamente, azzarda continue allusioni in stile “nel passato c’erano le cose che amavi tanto ma ora non le ricorda più nessuno, così ti faccio sentire speciale perché tu invece le ricordi e nel mentre non devo neppure impegnarmi a scrivere come mai le cose ora sono diverse”.
Questo fanservice muove a una pietà simile a quella che si prova per i più sfortunati. È questo che dà a Dark Souls 2 la sua atmosfera di tristezza, la delusione del pacco di Natale aperto e trovato vuoto del quale diciamo “che bella scatola” per non avere le feste rovinate, non la storia di Vendrick e Nashandra. Con tutto quello che non ha, sia in termini di lore che di game design, DS2 è il principe del fanservice, quello che senza i fan non sarebbe andato da nessuna parte: se non ci fosse scritto “Dark Souls” e non ci fosse il marchio di From Software tutti lo avrebbero chiamato “un buon omaggio ai Souls ma ancora ben lontano”.
Dark Souls 3, d’altro canto, inciampa in modo diverso ma non molto meno goffo. Più intellettualmente onesto, si qualifica fin da subito come sequel offrendo numerosi collegamenti fra campane, ricettacoli, santuari del legame del fuoco e quant’altro. Molto di ciò che DS3 presenta viene accusato di essere fanservice… e in buona parte lo è. Non solo di DS1, ma perfino di Demon’s Souls (Lothric è una Boletaria darksoulsizzata) e di Bloodborne (mostri a dir poco bestiali, richiami alle profondità, un ruolo dato al sangue che mai aveva avuto un peso nel franchise). In effetti, DS3 sul piano estetico ha quasi i tratti di una grande antologia di Miyazaki, più che quelli di un sequel… però non dovrebbe esserlo, dovrebbe essere un sequel. In questo senso, fanservice “ben fatto” è il mostrare Izalith e Anor Londo nel futuro, talmente ben fatto che lo si può definire tale solo stiracchiando il concetto: è o non è un sequel? E allora io, autore, ti mostro cos’è successo dopo. Ci sono problemi di coerenza, forse, ma questa è un’altra storia. In quell’universo narrativo, non ci sono altri posti che avrebbero potuto ospitare i resti della civiltà dei demoni né che avrebbero potuto rappresentare l’ultima dimora degli déi quindi, volendo mostrare che ne è stato di demoni e piromanti dopo la morte della Culla del Caos e che ne è stato del culto di Gwyn dopo molti vincoli della Fiamma, non ci sono altri luoghi che possono essere “contenitori di risposte”.
Lo stesso non si può dire dei Guardiani dell’Abisso di Farron: certo, ha tutto il senso del mondo che sia nata una legione di guerrieri nel mito di Artorias e che si oppongano all’oscurità, ma tutti vestiti uguali, con una spada così simile, tutti con movenze che lo ricordano e tutti riuniti ad adorare un lupo? Davvero? Era così necessario far comparire Havel in un luogo dove non è chiaro come possa esser giunto se non con l’immortale (e ormai più che abusata) scusa della convergenza dei luoghi, la stessa cosa che colloca all’occorrenza oggetti di DS1 in luoghi del tutto casuali come la Lama del Caos e l’Anello del Calabrone nelle Tombe Dimenticate? O, per tornare sul buon Ornstein, quale finalità ha mai il suo equipaggiamento alla Vetta dell’Arcidrago se non accendere gli animi dei molti fan del personaggio accettando perfino una retcon così banale? Miyazaki si auto-cita con estrema disinvoltura e in modo spesso non molto discreto, ma alcune scelte non sono il risultato di un amore per le proprie opere, sono colpi di furbizia per pescare a strascico tutti quei fan che andranno in brodo di giuggiole a rivedere quelle stesse cose che hanno conosciuto in altri titoli.
Né il secondo né il terzo capitolo di Dark Souls sfuggono quindi all’essere pessime dimostrazioni di fanservice, pur nel timido tentativo di proporsi una missione propria, nel caso di DS2 narrare di altro nello stesso universo, in quello di DS3 mostrare le conseguenze degli eventi di DS. Va fatto però un ultimo appunto: negli intenti iniziali, DS3 risulta molto più “fanservice” rispetto a DS2: dove il terzo capitolo si appoggia con tutto il peso sul primo e costruisce partendo né più né meno da dove eravamo rimasti (assicurandosi così “la massima affluenza”), il secondo fa la scelta più elegante per un sequel che non era previsto ovvero il prendere le basi di world building della storia “capostipite” e scegliere altri temi, esplorare altre implicazioni delle stesse basi.
Conclusioni
Possiamo quindi parlare del fanservice come di qualcosa che, nell’ambito degli espedienti narrativi, costituisce una corsia preferenziale per avvincere il giocatore e quindi un modo più facile di ottenere il suo favore, il suo feedback positivo e, conseguentemente, il successo commerciale per i prodotti successivi.
Per quanto riguarda l’autore che si trova a dover scrivere dove nulla ha ragione autoriale di essere scritto, non c’è molto da dire se non: “capisco”. Possiamo esigere quanto vogliamo di non essere presi per i fondelli e di non essere corteggiati con trucchetti da bambini, ma finché questi funzionano e un autore lavora per un’azienda che avanza richieste non c’è molto da fare: dovranno mettere mano alle storie non solo sulla base della propria sensibilità ma anche (e a volte esclusivamente) su quella della certezza di rientro dell’investimento. Ci sono però autori abili che contestualizzano le loro “caramelle per i fan” in modo tale da farle quasi sembrare colpi da maestro e ce ne sono altri che, forse, dovrebbero tornare su qualche manuale di sceneggiatura e/o di game design, ma possiamo solo premiare i primi e tirare le orecchie ai secondi.
Siamo tutti più o meno fan delle opere che ci hanno coinvolti o che ci hanno insegnato qualcosa. Anche i più critici fra noi hanno corde sensibili a qualche titolo del loro passato da videogiocatori e ci sarà sempre qualcosa che le andrà a toccare più facilmente. Assunto questo, non sarebbe male liberarsi della vergogna di ammetterlo. Da un lato ci renderebbe più sensibili a individuare le manovre attuate per comprarci e a castigarle quando sono di infima categoria (quindi a essere meno “fan” e a disinnescare così il “fan-service”), dall’altro potremmo vivere e videogiocare felici e spensierati, nella libertà di poter dire “questa cosa è orrenda ed è un colpo basso, ma l’amore è cieco e io godo anche quando è a pagamento”.