Metal Gear Solid secondo me
Scrivo lentamente quello che ricordo di un certo videogioco a me rimasto legato
Avevo circa nove anni quando hanno parlato per la prima volta di Metal Gear Solid. Mio fratello, più grande di otto anni, mi spiegava quello che aveva sentito da un amico, ovvero di un gioco dove fumavi per rivelare trappole laser invisibili, con un boss in grado di leggerti nel pensiero e altre cose che non si erano mai sentite. Nel nostro caso per avere un videogioco bisognava aspettare il compleanno o il Natale, non importava quanto bello e desiderato fosse. La custodia di Metal Gear Solid tuttavia irruppe in casa senza emergere da un pacchetto regalo e con un certo anticipo rispetto alle feste. La nostra PlayStation era già collegata con il cavo scart alla tivù e io e mio fratello inserimmo il disco.
Disclaimer: seguono spoiler
Tactical Espionage Action
A quei tempi, io guardavo e non giocavo. Proprio come il professor Taltomar in City, di Baricco. Mio fratello premeva i tasti, mentre io facevo la conoscenza di Solid Snake e del suo team di supporto al Codec: il Colonnello Roy Campbell, Naomi Hunter, Mei Ling, Nastasha Romanenko e Master Miller. Ricordo la neve, che dava il benvenuto all’isola di Shadow Moses, e piccoli anfratti in cui bisognava strisciare. Era tutto piuttosto difficile, eppure capivamo di dover strisciare come i serpenti. L’obiettivo era compiere una missione salvifica senza farsi vedere da nessuno. Nel corso dell’avventura, saremmo inciampati in alleati come Meryl (nipote del Colonnello) e Otacon (ingegnere capo del Metal Gear Rex, arma di distruzione di massa che affronteremo nel finale), così come nei nemici, i famigerati membri della Fox Hound capeggiati dal nostro gemello-clone malvagio Liquid Snake. Avremmo anche incontrato qualcuno che non potevamo definire né amico né nemico, ma destinato a diventare il nostro personaggio preferito, forse di tutti, almeno in questa prima fase di approccio alla saga: il ninja Gray Fox.
È difficile abbandonarsi ai ricordi e far emergere solo l’essenziale, ma è quello che vorrei fare: parlare di che significato abbia avuto giocare (guardare) Metal Gear Solid a nove anni. Era un gioco diverso, da ogni punto di vista. Dovevamo contattare Meryl per proseguire nella trama e un personaggio ci spiegava che avremmo trovato la sua frequenza sul retro della custodia del gioco (ancora oggi, 22 anni dopo, mi pare incredibile) e c’era davvero un nemico in grado di leggerci nella mente: Psycho Mantis. Ci chiedeva di appoggiare il controller DualShock a terra e lo faceva vibrare a dimostrazione dei suoi poteri telecinetici. Era il suo modo di presentarsi prima di una boss fight impossibile da risolvere, perché era in grado di leggere ogni tasto premuto e prevenire così tutti gli attacchi. L’unico modo di sottrarsi alla sua telepatia era scollegare il controller e inserirlo nella porta del Giocatore 2: in questo modo Psycho Mantis non poteva più leggerci e rimaneva inerme e vulnerabile alle nostre armi.
Metal Gear Solid parlava direttamente con il giocatore e nel frattempo raccontava una storia di menzogne. Solid Snake era stato spedito a Shadow Moses per impedire il lancio di una testata nucleare, ma in realtà era un veicolo per un virus mortale destinato a uccidere persone scomode ai poteri forti. E chiunque, anche chi cercava di ucciderci, era lì per lasciare un messaggio. A Snake, per permettergli di comprendere e di comprendersi, e al giocatore, perché – anche se a nove anni non potevamo capirlo – Metal Gear Solid ha sempre cercato di essere un inno alla libertà e alla gioia di vivere, in un mondo di persone che conoscono solamente la guerra e la morte. Le parole di Gray Fox, mentre muore, riecheggiano nella mia mente più forti di quelle di Amleto: Snake, non siamo strumenti del governo, né di nessun altro. Combattere era l’unica cosa di cui fossi veramente capace, ma almeno io ho sempre combattuto per quello in cui credevo. Ribadisco, a quell’età non si può capire cosa significa essere schiavi del proprio destino genetico, ma in qualche modo tutto resta nel cervello e diventa seme. La lotta contro il tuo clone, il sangue di Sniper Wolf, il sacrificio di Gray Fox, l’ombra di chi abbiamo dovuto lasciare alle nostre spalle, Otacon o Meryl, a seconda del finale alternativo. L’incredibile colonna sonora, la mia sinestesica madeleine. In futuro, tutto sarebbe stato rielaborato.
Nell’epilogo, le dolci note di una canzone in galeico, intitolata The Best Is Yet To Come. In italiano, “il meglio deve ancora venire”. Era forse possibile dopo tutto quello che avevo visto e provato? Lo avrei capito solamente tanti anni dopo, ascoltando quella stessa canzone in un momento piuttosto diverso.
Figli della libertà
Nel 2003, io ho tredici anni e a casa arriva la PlayStation 2 accompagnata da qualche gioco. In mezzo, anche la custodia di Metal Gear Solid 2: Substance, una riedizione con contenuti extra del secondo capitolo della saga, il cui titolo originale è Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty. Questo significa che sono in ritardo di almeno un anno rispetto agli altri, ma questo non mi impedirà di ricevere sorprese. L’idea di giocarlo mi metteva un certo disagio dato che questa volta non mi sarei limitato a guardare. Non è che non avessi mai preso un pad in mano, ero pur sempre quello più forte nella stanza a giocare a Tekken, ma sapevo che ora sarei dovuto uscire da una zona di comfort, conoscere e accettare la frustrazione di un’avventura solitaria con i suoi stati d’allerta e i suoi game over. C’era la curiosità, dopo tanti anni dalla fine del primo Metal Gear Solid, ma serviva anche il coraggio. Questa volta completamente da solo, visto che ormai mio fratello era adulto e impegnato in cose come il lavoro.
Ritrovo Solid Snake, ora in squadra con Otacon per combattere la minaccia dei Metal Gear. Infiltrazione, combattimenti, filmati, ma tutto termina brevemente. Segue un nuovo inizio, in una piattaforma di decontaminazione marina, la Big Shell. Il protagonista è mascherato, come era successo all’inizio del primo capitolo della saga. Tuttavia c’è qualcosa di strano: vengono spiegati i comandi più basilari, a me che sto già giocando da qualche ora. L’eroe si toglie la maschera, è biondo, è androgino, non è Snake, scopro che il suo nome in codice è Raiden. Il gioco mi fa inserire il mio nome nella targhetta del personaggio per motivi a me oscuri. Ho però sempre il mio team di supporto, con il Colonnello al comando, e una squadra terroristica da sgominare, la Dead Cell, un Metal Gear da distruggere, un mondo da salvare. Mi dicono che il loro capo è un certo Snake, ma io non posso crederci. Il gioco si rivela un’intera bugia, peggiore di quanto non fosse stato il primo. Ogni personaggio mente almeno una volta, come nel film L.A. Confidential di Curtis Hanson. Scopro dell’esistenza dei La Li Lu Le Lo, potenza occulta che domina su tutto. Sarà solo grazie a Snake, quello vero, e non il suo ennesimo gemello-clone malvagio Solidus, che capirò molte cose, tra cui l’inesistenza del Colonello, che si rivela essere solamente un’I.A. manipolatrice. Raiden viene messo a nudo, io vengo messo a nudo.
Esco da Metal Gear Solid 2 frastornato, io, che in questo gioco avevo scelto finalmente di essere giocatore, vengo trattato proprio da tale. Il gioco mi prende in giro, mi toglie la possibilità di giocare nei panni di Solid Snake, mi fa andare in giro senza vestiti, mi sbatte in faccia che ho eseguito tutto alla lettera senza interrogarmi su cosa fosse vero o meno. Raiden si libera della mia idiozia e getta via la targhetta con sopra il mio nome. È un epilogo di un’importanza schiacciante nella mia storia di videogiocatore. Le parole che sento, Life isn’t just about passing on your genes, verranno dipinte sulla home del mio sito, un giorno. È ancora troppo presto per capire a fondo il capitolo che oggi posso giudicare il mio preferito dell’intera saga, ma il velo che separa la realtà dal videogioco è stato strappato. In quegli anni, tutto quello che mi rimane è una carica ispirazionale che investe i miei momenti di intimo crogiolo esistenziale. Uno dei messaggi del gioco è: passa la torcia. Viene detto chiaramente: la vita non è solamente DNA, possiamo lasciare agli altri molto di più di questo. Vivi per questo, passa la torcia.
Io a chi avrei passato la mia torcia?
Mangiatore di serpenti
Grazie a internet finalmente non sono più escluso dal mondo. So che Metal Gear Solid 3: Snake Eater sta per uscire e riesco a vedere i trailer, stupendi. C’è una giungla, forse diremo addio ai corridoi claustrofobici di Shadow Moses e Big Shell. Il protagonista è uguale a Solid Snake, ma non è lui, siamo tornati negli anni ’60. Nelle mie navigazioni capito per caso in una sezione totalmente dedicata alla saga MGS, dentro al forum di un’importante testata videoludica. Mi registro, il mio nickname è Auron90, presto diventerà Auronno. Conosco la prima community di appassionati e commento con loro quello che verrà. L’attesa del nuovo gioco diventa ancora più emozionante, perché questa volta non sono solo, ma c’è qualcuno con le mie stesse passioni e l’esperienza del videogioco non ha inizio né termine, ma rimane sospesa grazie allo spirito della condivisione. Scopro che il protagonista sarà Big Boss, il mentore-padre-clone di Solid Snake. L’hype è ai massimi storici.
What a thrill, with darkness and silence through the night… Il gioco è devastante. Nuove meccaniche, tra cui il procacciamento di cibo per tenere su la stamina e la necessità di curare le proprie ferite. In piena guerra fredda e in una Russia inospitale, la nostra missione è recuperare un importante chip, uccidere chi ha tradito la patria e, come sempre, salvare il mondo. Un giocatore di Metal Gear Solid ormai sa di essere spinto dalle bugie, si aspetta il doppio gioco, il triplo gioco, il tradimento degli amici e l’amicizia dei nemici, ma nulla lo prepara al finale in cui Big Boss è costretto a uccidere – e noi dobbiamo premere il grilletto – una persona la cui unica missione era prendersi tutte le colpe e sacrificarsi: The Boss, che può essere descritta solamente rievocando un dialogo. - What's the story between you and The Boss? - She was like a mother... and my master. – And your lover? – It went deeper than that. - Deeper? - Half of me belongs to The Boss.
Lacrime. E con me piange la community di Metal Gear Planet. Era questo il nome della sezione che frequentavo. C’era anche un sito su altervista dove avevo iniziato a collaborare per scrivere news e articoli. Era un’esperienza nuova in grado di mettermi in relazione con molte persone, ma dopo solamente un anno il webmaster capisce di non aver più tempo per seguire il progetto e decide di passare la torcia a me. There is only room for one Boss and one Snake, dicevano in Snake Eater, ma forse qui era stato preso troppo alla lettera. Il compito mi emozionò, ma quel sito era un vero disastro perché bisognava giocherellare con il codice html per aggiornare le notizie, senza un content management system. Qualche anno dopo provai ad aggiornare la grafica e a rendere più agevole la gestione dei contenuti, ma alternavo periodi di attività frenetica a quelli di oblio e abbandono. Cos’era Metal Gear Planet, ma soprattutto perché dovevo gestirlo io? Non ricordo se ero così esplicito nel farmi queste domande, ma una risposta onesta sarebbe stata che mi prendevo cura di un luogo che ospitava persone simili a me almeno in una cosa. C’era anche un sacco di gente che mi aiutava e in cuor mio sapevo che quel progetto poteva diventare qualcosa di molto più grande. Dopotutto, era dedicato alla miglior saga videoludica di sempre.
Armi dei patrioti
È il 12 giugno del 2008 e io fisso la saracinesca di un GameStop. Sono seduto sulla panchina di un desolato centro commerciale alle 8:30 di mattina. La sera di quello stesso giorno completo Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots e guardo il suo finale. Tutte le domande hanno una risposta, sappiamo chi sono i La Li Lu Le Lo, qual è la fine di Solid Snake dopo che nei trailer lo avevamo visto puntarsi la canna di una pistola in bocca. La guerra è cambiata e un vecchio Solid Snake (finalmente tornato nelle nostre mani dopo Raiden in Sons of Liberty e Big Boss in Snake Eater) è stanco di combatterla, ma si trascina a fatica verso la meta perché i fan meritano di ricevere tutto quello di cui hanno bisogno, o che credono di avere bisogno.
Il quarto capitolo è un finale vero e la saga può definirsi completa. Questa volta le bugie, pur presenti, non sono più importanti della verità che rimane impressa dall’inizio alla fine: Snake non è un eroe, non lo è mai stato, mai lo sarà. I’m just an old killer… hired to do some wet work. E quello che viene ucciso, in qualche modo, è Metal Gear Solid stesso, il lavoro sporco forse è quello di accontentare i fan. Le speculazioni diranno che Hideo Kojima in questo capitolo ha sofferto la mancanza del suo scrittore principale, Tomokazu Fukushima. La storia ti incatena con la sua meraviglia, ma una volta riposati e a pancia piena ci si accorge di qualche forzatura e di un retrogusto che non ha più il sapore di un tempo. Tutto questo ha importanza? No, e se Hideo Kojima sembra un autore intrappolato nella sua opera, noi fan siamo altrettanto prigionieri. Metal Gear Solid 4 fa crescere la community di Metal Gear Planet e noi diventiamo una cosa nuova. Passiamo i pomeriggi sul forum, organizziamo contest, giochiamo a Metal Gear Online. Ci impegniamo in progetti faticosi, come la scrittura della storia, della soluzione, delle guide di tutti i capitoli, compresi i prequel “non Solid” che erano usciti la prima volta per MSX2. Io trascrivo per intero “In the Darkness of Shadow Moses”, un libro scritto (per finzione) da Nastasha Romanenko, accessibile solo dal menu di Metal Gear Solid 2 e non disponibile sulla rete.
Volevo che Metal Gear Planet fosse il riferimento italiano della saga di Metal Gear Solid, ma non eravamo gli unici a impegnarci e quel sottodominio di altervista non rendeva giustizia a quello che stavamo creando. Inizio a pensare a un nuovo Metal Gear Planet che possa essere il rifugio definitivo per ogni fan della serie. Disegno una grafica completamente assurda per un sito web, ispirata alla struttura della Big Shell di Sons of Liberty. Riempio il sito di citazioni memorabili e lo adorno con gli artwork del maestro Yoji Shinkawa. La home del sito recita l’intero discorso finale di Metal Gear Solid 2. Un amico programmatore mi aiuta a rendere vivo e interattivo questo sito e altri amici si dedicano completamente alla causa, creando contenuti pazzeschi. Se con “In the Darkness of Shadow Moses” avevo trascritto 52 pagine di libro, due miei collaboratori trascrivono 573 voci enciclopediche dal database disponibile in Metal Gear Solid 4.
Nell’agosto del 2012, Metal Gear Planet è finalmente un sito con un dominio proprietario, denso di contenuti a un livello tale che non ha mai avuto senso. Siamo una comunità, piccola ma in crescita, soprattutto grazie ai rumor di un nuovo Metal Gear Solid (5?) in arrivo su console. Una decina di persone compongono il mio staff, tra chi mi aiuta a gestire le cose, chi scrive news e articoli, chi guide e soluzioni e chi modera il forum. Potevo essere contento, ma tantissimi fan di Metal Gear Solid seguivano le testate principali senza accorgersi del nostro progetto di nicchia interamente dedicato a loro. Pensarci mi rendeva triste.
Il dolore fantasma
Aver completato l’università e aver iniziato a lavorare mi costringe a una gestione del tempo differente. Metal Gear Planet è un impegno che devo affrontare nelle pause pranzo e alla sera. Mi sento intrappolato tra quella che è nata come una passione adolescenziale e la vita che mi chiama a vincoli di ordine superiore. Eppure mi risulta impossibile anche solo immaginare di lasciare questo progetto. I capitoli per console portatile e l’uscita ormai certa di un nuovo Metal Gear Solid ci fanno lavorare ogni giorno e organizziamo per la nostra community sovrastrutture di ogni genere. Integriamo al nostro mondo giovani youtuber, cosplayer, e chiunque abbia deciso di omaggiare la saga dedicando a essa un po’ della propria dedizione. Io combatto contro la mia vita adulta e nel weekend in cui mi mandano in trasferta, rientro con la scusa di vedere un padre che non vedo da anni per partecipare in realtà a una fiera di Novegro per motivi che mi sembravano importantissimi.
Oggi non riesco a dire se era davvero così importante, ma guardo quello che è stato fatto: contest letterari che hanno prodotto storie uniche e meravigliose, quiz spassosi condotti nelle fiere, TG dedicati alle notizie sulla saga, fan che si cimentano in prove di recitazione e fotografie improbabili (se cliccate sul link, fermarsi a 20:30) per accaparrarsi il primo premio, una copia in regalo dei nuovi Metal Gear in uscita. È infatti ormai disponibile Ground Zeroes, prologo del nuovo Metal Gear Solid, e presto uscirà Metal Gear Solid V: The Phantom Pain. Hideo Kojima per presentare questo nuovo capitolo aveva preso in giro tutti fingendosi un programmatore sconosciuto svedese alle prese con una nuova IP. Avevamo seguito tutti assieme questa messa in scena e nessuno stava più nella pelle.
Gestire Metal Gear Planet mi ha messo in relazione con centinaia di persone e io stringevo rapporti con chiunque, nessuno lavorava sotto compenso e le collaborazioni erano lo strumento migliore per ricevere risultati in termini di visite e interazioni. Si avvicinavano persone con i loro progetti, con le loro idee, e nascevano conflitti, litigi, rotture. Ricordo di aver ricevuto i più terribili insulti e, in certi casi, anche minacce. La tossicità che può nascere in rete non merita francamente resoconti, anche per quel che mi riguarda dato che reagivo iracondo e davo importanza solamente a Metal Gear Planet, in poche parole facevo terra bruciata alle mie spalle. Legavo, poi rompevo. Andavo avanti, senza guardare indietro. Il progetto cosplayer doveva diventare un’associazione, qualche giorno dopo non posso più parlare con nessuno di loro.
Una mattina mi ritrovo al pc, nello sconforto di fare quello che ho sempre fatto, ovvero perdere tempo su internet. Navigo su Twitter e scopro che Donna Burke, voce protagonista della colonna sonora di Metal Gear Solid V, è a Milano. Le scrivo e lei mi risponde. Mi tolgo il pigiama e prendo la macchina per raggiungere velocemente Milano, Corso Buenos Aires, Hotel Galles. Donna Burke era disponibile a rilasciarmi un’intervista esclusiva, che però Konami avrebbe dovuto controllare prima di permetterne il rilascio. L’entusiasmo con cui la gente attende The Phantom Pain è palpabile e la mia occasione è unica. Lei si racconta, io emozionato e imbarazzato faccio figuracce, però registro tutto. Mi parla anche di un album ufficiale in uscita dove lei realizza le cover delle soundtrack dei precedenti capitoli della saga. Canta in anteprima, di fronte a una limonata scadente e a un fan visibilmente emozionato e spettinato, un pezzo della colonna sonora di Snake Eater… What a thrill, with darkness and silence through the night… nell’intervista scopro che nell’album c’è anche la prima traduzione ufficiale in inglese della bellissima The Best Is Yet To Come. Tornando con la mente a tanti anni prima, potevo finalmente rispondermi.
Pochi giorni dopo, io e un mio collaboratore riceviamo l’accredito per la Gamescom di Colonia. Non siamo giornalisti e non sappiamo niente di questo mondo, infatti non riusciamo a organizzare nessun appuntamento. Riusciamo però a provare in anteprima assoluta The Phantom Pain. Non siamo mai stati Spaziogames, Everyeye, Multiplayer o IGN. Erano tempi in cui ormai la gente frequentava più volentieri pagine e gruppi Facebook piuttosto che perdere tempo con siti e forum di nicchia. Però noi eravamo lì. E camminavamo spaesati nell’area business quando all’improvviso vedo passare due persone. Li riconosco e urlo: “Sean Eyestone!” e l’uomo si gira, assieme al collega, incredulo che qualcuno possa urlare il suo nome con tanta foga. Si trattava di due membri della Kojima Productions al lavoro su The Phantom Pain, si occupavano anche di PR e contenuti web, e il mio lavorare quotidianamente con notizie a tema mi permette di conoscerli come parenti stretti. Spiego loro chi sono, cos’è Metal Gear Planet, e scattiamo una foto assieme. Poi Sean mi dice: “Tu sei quello che ha intervistato Donna Burke? Stiamo analizzando l’intervista, presto ti daremo l’okay per pubblicarla”. Quel riconoscimento, quella prova di esistenza, quella piccola cosa insignificante che per me ha significato tutto. Non potevo chiedere di più.
Esce The Phantom Pain. Prendo una settimana di ferie dal lavoro, senza poter spiegare a nessuno la motivazione. Mi piace. I fan però si arrabbiano molto, perché è un gioco incompleto. Provo a farne apologia, perché secondo me la spiegazione è nel titolo: il dolore fantasma, sentire dolore per qualcosa che manca. Per me tutto ha senso, ma Hideo Kojima è stato praticamente cacciato da Konami ed è impossibile negare i problemi durante la produzione di Metal Gear Solid V. Poco importa, io sono felice, so cosa Metal Gear Solid e Metal Gear Planet mi hanno dato. Penso a tutto il tempo libero sacrificato, agli amici che praticamente si riducono a quelli di internet, alle ragazze inesistenti in quel periodo. La saga è finita, io ho una vita adulta da affrontare, o forse semplicemente una vita di cui riappropriarmi. Non si può essere un fan per sempre per quanto grande diventi la propria dedizione, penso. Non è facile abbandonare, ci avrei messo qualche anno, partecipando ad altre Gamescom con pass giornalistici immeritati, ma – lentamente – mollo la presa. Dovevo solo decidere a chi passare la torcia.
Arenamento mortale
Rileggendo quello che ho scritto mi accorgo che nel parlare del primo capitolo della saga parlo quasi esclusivamente del gioco, ma andando avanti parlo sempre più di me e sempre meno del gioco. Non trovo errori in questo racconto dove cerco di spiegare il tempo della memoria, dell’effetto che un videogioco ha avuto sulla mia vita, di come una passione possa mutare in impegno e affanno. Ho creduto che per non sacrificare un hobby e vivere al contempo una vita adulta, avevo scelto di sacrificare me stesso. Ed è per questo che alla fine avevo affidato il progetto a uno dei miei articolisti più dediti, ma non si trattava di passare la torcia non è possibile passare quella torcia piuttosto bisogna lasciare che essa si spenga. Ho vissuto il rifiuto per quello che avevo fatto e mi sono allontano dal mondo dei videogiochi che conoscevo – mai più notizie, pochi single player imprescindibili e partite online a multiplayer di disimpegno, sotto un nuovo nickname. Avevo chiuso tutto in una scatola dei ricordi, letteralmente, e avevo provato a dare alla mia vita nuovi contorni.
Quando Hideo Kojima pubblica nel 2019 la sua nuova IP, Death Stranding, lo ignoro completamente, ma inizio a ragionare sul quel rifiuto. Aver condiviso così tanto una mia passione mi aveva portato a perderla. Forse non avevo sacrificato me stesso, forse avevo sacrificato il divertimento, il piacere di essere un giocatore. Non volevo giocare a Death Stranding, ma al tempo stesso avrei voluto semplicemente… averne la voglia. Quello è stato un periodo in cui ho davvero creduto che la mia vita fosse cambiata in meglio per aver eliminato una passione tanto ingombrante, ma la realtà è che avevo solamente buttato via un pezzetto di me perché incapace di accettare che l’esperienza personale e la condivisione sono due cose che possono coesistere in equilibrio.
Fast-forward a oggi. È rimasta solo una persona di Metal Gear Planet con cui parlo quotidianamente e due o tre con cui ho conversazioni sparute. Non scrivo di videogiochi dal 2016, credo, e questo articolo è un’eccezione. Ho scritto e pubblicato il mio primo romanzo, ma non confesso mai che Diluvio Digitale in qualche modo dialoghi con Sons of Liberty sul tema dell’egemonia delle I.A. nel controllo delle informazioni. Non lo confesso perché non ne sono sicuro. Qualche mese fa ho recuperato Death Stranding, un’opera che parla di connessioni e isolamento, dalle curiose analogie in grado di spiegare come un gioco possa diventare diverso, anche da se stesso, quando interagiamo con gli altri. La passione per i videogiochi sta tornando con una certa prepotenza e non credo di poterla fermare. Il desiderio di condividerne l’esperienza, oggi, si limita agli amici e alla mia ragazza, che curiosamente ho conosciuto in un gruppo Telegram in cui sono finito, qualche anno fa, solo grazie a Metal Gear Planet. Per Natale abbiamo deciso di giocare a tutta la Metal Gear saga. Per lei sarà la prima volta, io invece non tocco un Metal Gear da sei anni.
Oggi penso, forse, di non aver sbagliato a sprecare tutto quel tempo dietro a una passione, perché se non lo avessi fatto mi sarei limitato a essere ciò che facevo nel mondo calpestabile. Un adulto, un lavoratore, qualcuno che vive per soddisfare le aspettative di questa società. Ho creduto che le cose più belle che Metal Gear Planet mi avesse dato fossero il sorriso di Donna Burke in un bar fetente di Corso Buenos Aires e l’incoraggiamento di Sean Eyestone nella dispersiva fiera di Colonia, ma la verità è che la saga di Metal Gear Solid e il lavoro svolto per la sua community italiana mi hanno regalato una grossa parte di quello che sono, qualcosa che ora non sono più disposto a buttare via.