Piuttosto me ne stavo a Hyrule
Racconto della mia esperienza con Van Gogh – l’esperienza immersiva, che non esisterebbe in un mondo di videogiocatori, ma sopravvive con i soldi di chi non conosce di meglio.
Ormai qualche mese fa, sono stato a una delle “esperienze immersive” più famose, che ha toccato tre continenti e visitato numerose città (Nordamerica, Europa, Asia, Boston, Anversa, Singapore, Roma, e ora anche Milano), ovvero Van Gogh – the immersive experience. Se vivete in una grande città, è probabile che abbiate familiarità con queste esposizioni, che a volte hanno il coraggio di chiamarsi musei, come il Museum of Dreamers (allestito nella città più social media oriented d’Italia, #Milano), di cui l’esperienza immersiva su vita e opere di Vincent Van Gogh si dice essere il proficuo ed elogiato progenitore.
Mi rendo conto che potrebbe non essere ovvio che tutti conoscano questo tipo di istallazioni-eventi, anche se è molto probabile che chi utilizza Istagram abbia visto almeno una foto o un reel che pubblicizzava questa o quella esperienza immersiva “assolutamente da non perdere”, chissà se con #adv piccolo e pallido nell’angolo in fondo a destra dello schermo o senza. Si tratta, essenzialmente, di spazi espositivi arredati in modo da offrire un’esperienza tridimensionale di qualche tipo: spesso si tratta di video proiettati su tutte le pareti, o stanze arredate in modo da poterci interagire, anche solo standoci dentro; se Van Gogh – l’esperienza immersiva è basato maggiormente sul primo tipo di interazione, il Museum of Dreamers sfrutta maggiormente la seconda, trattandosi di una serie di stanze che sfruttano vari tipi di illusioni, che rendono particolarmente bene in un selfie.
Insomma, per una serie di eventi che potrebbero essere l’inizio di una simpatica storia breve, mi ritrovo a comprare in rete tre biglietti per Van Gogh – l’esperienza immersiva per un’amica della madre della mia ragazza, la mia ragazza e per me. Per un altro concatenarsi di eventi che formerebbe il secondo capitolo del romanzo, mi ritrovo ad aspettare l’apertura della mostra con Marzia (l’amica) e mia madre. Nonostante nelle mie vene scorra acqua del Naviglio e quando prego le divinità del salone del mobile mi rivolgo sempre verso Madonnina, provo un certo scetticismo, che spesso di trasforma in un arrogante fastidio, per queste “esperieze”, “musei” o come si vogliono chiamare. Ma per amore e per i soldi già spesi questo e altro, e appena la porta del capannone si apre, entro con i biglietti in mano e due allegre signore in fila dietro di me.
Nonostante le mie aspettative fossero basse, il fatto che questa fosse, a quanto avevo sentito, l’esperienza originale, che poi tutte le altre avrebbero preso a modello, mi aveva comunque lasciato sperare di non aver buttato completamente i 16 euro a testa di biglietto (diventati poi 19, ci arrivo). Se sto scrivendo un articolo non è per invitarvi a seguire i miei passi.
L’esperienza immersiva si componeva di una stanza media e uno stanzone molto grande, preceduto da una stanza piccola (praticamente un’anticamera), uniti da un corridoio adornato di pannelli che raccontavano vita e opere dell’artista e cinque trasposizioni tridimensionale di altrettanti quadri, in una delle quali si poteva anche entrare. Nelle tre stanze venivano proiettati dei filmati che richiamavano i quadri o la vita di Van Gogh: girasoli che girano, coltivatori che mietono, eccetera eccetera, tutto proiettato su pareti e pavimento (mai sul soffitto, perché l’immersione per definizione va verso il basso).
In una delle stanze, le immagini direttamente collegate all’artista erano alternate a evocazioni in CGI di un Giappone feudale ormai scomparso, perché Van Gogh fu molto influenzato eccetera eccetera va molto di moda abbiamo capito.
Le mie compagne di avventura ne sono uscite molto soddisfatte. Io no.
La prima cosa che ho notato è stata la scarsissima qualità dei filmati: non solo erano terribilmente sgranati (lo si notava soprattutto sul pavimento) ma addirittura, in certi momenti, laggavano visibilmente. Da qualcosa che si vanta di essere stata, tra le altre, a New York, Londra e Seoul, 24 fotogrammi al secondo tranquilli me li aspettavo. All’inizio ho ipotizzato fosse il video in sé ad essere poco nitido, fermo al 480p; questa esposizione nasce nei primi anni 2000 e non mi stupirei che non fosse stata mai aggiornata: squadra che vince non si cambia. Esiste anche una seconda ancor più bieca possibilità, ovvero che i proiettori fossero stati posizionati alla distanza sbagliata, troppo vicini, e che questo non solo abbia reso l’esperienza immersiva ben poco immersiva, ma farebbe anche trasparire la bassissima cura che chi gestisce questo tipo di eventi mette nel proprio lavoro, che avendo pagato 38 euro mi farebbe innervosire non poco.
La seconda osservazione emersa durante l’esperienza, e che mi ha accompagnato fino alla stanza dei souvenir, è stata: “potevo starmene tranquillamente a casa, accendere la Switch (non stiamo parlando di pc master race) e giocarmi un’oretta Zelda: Breath of the Wild o rigiocarmi Mario Odyssey, avrei persino potuto rigiocarmi A short hike, e l’immersività dell’esperienza sarebbe stata dieci volte maggiore, nonostante il mio modestissimo schermo 43 pollici a due metri dal naso”. Non mi riferisco alla possibilità di imporre la mia volontà sul mondo virtuale attraverso i comandi che un videogioco mi dà e che ovviamente ha un impatto immenso sull’immersione, quello, per quanto vero, viene dopo; parlo dell’esperienza audio-visiva fornitami dalle immagini, dalle musiche e dai suoni del villaggio Calbarico o del Regno delle Sabbie, leghe avanti a quello che Van Gogh – l’esperienza immersiva mi ha offerto, ovvero soprattutto noia ed elementi 3D da PS2.
Passare mezz’ora seduto su di una spiaggina (o sdraio, come preferite) in uno stanzone, con altre 40 persone, ad aspettare che il loop di video brutti sui quadri di Van Gogh finisse, per potermi dirigere velocemente all’uscita insieme a mia madre, mi ha fatto venire voglia di farmare livelli con Marill su Pokemon Platino. La mappa di Fire Emblem Echoes: Shadows of Valentia è più evocativa e gradevole agli occhi, forse anche perché, quando la telecamera cominciava a muoversi troppo velocemente, il prezzo di non notare più così tanto l’infima qualità del filmato era un leggero senso di disorientamento e nausea.
Ahimè, dopo la stanza la stanzina e la stanzona, dopo il corridoio che mi ha insegnato che Vincent Van Gogh ha prodotto più di 1.100 opere, concentrate per lo più negli ultimi 10 anni della sua vita, nei quali, mediamente, sfornava un nuovo quadro ogni 35 ore, e che fu molto influenzato dall’arte ukiyo-e giapponese (interessante quest’ultimo trivia, ma lo sapevo già, beati gli ignoranti), dopo La camera di Vincent ad Arles in cui potevi sederti tra il letto e la finestra, dopo tutto questo, l’immersione non era ancora finita: per la modica cifra di 3 euro (già inclusi nel prezzo del biglietto VIP, che noi non avevamo) si poteva accedere alla fantastica esperienza di realtà virtuale con visore.
I volti delle persone, tutte o quasi rigorosamente immobili (ma come? Ma se per tre quarti d’ora mi avete fatto roteare i girasoli e le notti stellate davanti alla faccia, proprio adesso vi votate alla staticità?) e degni di un Metal Gear Solid, insieme alle smunte ambientazioni, che mi hanno ricordato la butta copia dei giochi per la PS2 che giocavo alle elementari, hanno emozionato a tal punto mia madre che durante i 10 minuti di VR ho sentito espressioni come “incredibile” e “bellissimo” uscire ripetutamente dalla sua bocca. Sicuramente, è comprensibile tale reazione per la prima esperienza di realtà aumentata di una donna quasi sessantenne, la cui esperienza con il videoludico si limita a vedere me da bimbo giocare alla Wii o al DS, e sicuramente “perdóno” la sua ingenuità, ma sicuramente non perdono Van Gogh – the immersive experience, che a forza di 19 euro a botta poteva, forse, in 23 anni di attività, aggiornare l’esperienza, soprattutto perché giocare anche solo un paio d’ore a Superhot con gli amici, una volta, come ho fatto io, rende completamente insulso il tutto.
Curiosamente, mi ha causato più motion sickness la stanza con le immagini in movimento del visore.
Ora, io mi sono riempito la bocca di giochi per la PS2, Breath of the Wild e vari altri titoli, ma voglio essere chiaro nel dire che non l’ho fatto per qualche sorta di celolunghismo videoludico. Non sono un videogiocatore accanito, anzi, sono la definizione di casual. Gioco ogni tanto, spesso non finisco i titoli, non leggo articoli né guardo – generalmente – video sul tema. Quelli che ho citato sono parte (ma è una parte non piccola) del mio bagaglio culturale sui videogiochi; non il bagaglio di un “Videogiocatore”, ma di una persona che, ogni tanto, videogioca.
Questa ed altre esperienze immersive vivono di hype, ovvero di estensive campagne pubblicitarie nei luoghi giusti, e di una popolazione, piccola o grande, stabile o in diminuzione – non credo in aumento – per cui questo è il meglio che c’è.
Spesso il videogioco è considerato arte di una musa minore, ridicolizzata da chi non la conosce e a volte sofferente di una vergogna sentita da chi invece la apprezza, come ci si vergogna di farsi vedere con quel caro amico che però è considerato un po’ sfigato. È già molto tempo che tutto questo sta cambiando, ma se è facile anche per il più frivolo dei lettori riempirsi la bocca di quanto la narrazione su carta di apre la mente, forse anche il più immerso nel medium videogame fa fatica a rendersi conto della distanza tra chi ha preso in mano un controller e chi no. Prima di chiudere l’articolo, invito i suoi lettori a riflettere su questa distanza.