Sotto i portici di una città qualunque, c’è un negozio di compravendita di aggeggi tecnologici usati che ripone grande interesse verso ogni tipo di videogioco e relative piattaforme. Dall’antidiluviano al contemporaneo ci si trova di tutto, Atari, PC, console portatili e molte altre cosine (Il sig. Cannarsi direbbe che “ve ne sono più e più”). Il tutto appare esposto su scaffali silenziosi, smaltati di bianco, che stanno lì senza giudicarti e ti restituiscono un’immagine quasi edificante dell’appropriazione di videogame, sebbene la tua età anagrafica tradisca una strada ormai butterata da molte vaccinazioni; quella del vaiolo mi manca, sono nato dopo quell’usanza. Di negozi così ne è pieno l’universo, ma il mio inconscio mi ha trascinato più volte verso quest’esercizio commerciale, per due soli motivi: prezzi bassissimi d’acquisto e il pagamento immediato alla consegna della merce usata; cash in mano, subito e arrivederci, con una valutazione mediamente più alta di quella che vi offrirebbe il pagatore internettiano.
State intuendo la portata del disastro imminente? Forse non ancora.
Nel 1994 le mie piccole mani volevano toccare solo il Super Nintendo, una macchina da gioco grigia che in quel caso agiva come diversivo dal terrore in cui sguazzavo per il dentista, perché sì, il genio odontoiatra aveva installato una postazione sempre accesa in sala d’aspetto su cui girava Duck Hunt: il tutto, circondato da cuscini, veniva utilizzato a mo’ di pre-sedativo per tutti i bambini nervosi come me. Funzionava alla grande, era un meccanismo ben oliato – prima della visita non si sentiva volare una mosca, soltanto un po’ d’anatre in uno studio popolato da giovanissimi ipnotizzati. Poi io svenivo lo stesso, ma sempre a prestazione conclusa, sotto gli occhi increduli della segretaria. Realizzo adesso in sede di “analisi” che il mio primo approccio verso una home-console verteva interamente al distacco momentaneo da una realtà discutibile, quella di chi ti mette le mani in bocca.
I genitori però mi fecero trovare sotto l’albero un Sega Mega Drive, quindi con la naturalezza del bimbo senza conflitti interiori diventai subito un amante della plastica nera; Robocop vs Terminator, Kid Chameleon, World of Illusion starring Mickey Mouse and Donald Duck, cose così. Spesso scambiavo il controller con una ragazzina del vicinato a cui piaceva chiamarmi “rana”, e anche i miei sogni notturni cominciarono a popolarsi di pixel.
Fine dell’amarcord.
Col tempo, la mia seconda mamma divenne Sony: tutti i modelli di Playstation, uno dopo l’altro sino alla PS4™ contribuirono senza fatica a plasmare gli architravi del mio immaginario, raggrumatosi negli anni su una parete piena di titoli di ogni genere, organizzati secondo criteri di classificazione ben precisi: nessuno. L’unico periodo della vita in cui le giocate si fecero rarefatte fu quello passato in università, lì ho preferito studiare ciò che pagavo ed era fantastico bere e amare tutto. Si. Poi la comparsa di un lavoro ha di nuovo reso necessario stringere fra le mani un Dual Shock, la sera.
Su cosa incide, in che misura lo fa, e quante schegge pianta nel nostro corpo un flusso videoludico durato 27 anni? Escludendo il fascio penetrante di luce, dagli elettroni nei tubi catodici piombati alla luminanza dei led, s’intende. Avete mai visto un tramonto viola? E respirato a pieni polmoni l’aria satura di una nebbia così densa che vi s’infila a fiume nel naso con l’odore dell’incenso? Tutto questo è successo prima o dopo aver giocato?
Con l’esperienza ho vissuto il contatto con lo schermo attraverso una specie di sinestesia sempre più elaborata e convincente. Non era solo un interscambio di sensi opposti, si trattava della perfetta assimilazione di spazi artificiali proiettati direttamente nel mio organismo, generando così una personale percezione nei confronti della vita di tutti i giorni. E non è un fenomeno transitorio, quello. Manhunt (Rockstar North, 2003) ad esempio, è un gioco ambientato in caseggiati svuotati, periferie popolate da angoli bui e strutture che fanno della decadenza morale e fisica la loro ragione di ergersi nel mondo – molte zone sono set cinematografici costituenti lo scenario snuff nel quale il protagonista ripreso da telecamere è costretto a uccidere chiunque gli si pari davanti. Perciò la situazione è perlomeno cupa, giusto? Quel degrado virtuale invece è penetrato come una larva amica dentro di me, ha partorito nella mia mente una visione accomodante nei confronti di elementi architettonici di norma poco rassicuranti nella vita reale, accendendomi l’interesse per l’archeologia industriale e sprigionando grande calma non appena la mia schiena si appoggi a un muro storto o mi ritrovi a camminare a fianco dello scheletro annerito di fabbriche sparse. Di riflesso apprezzo l’arte pittorica di Mario Sironi, intossicata di fuliggine. Questa comunicazione interiore è multidirezionale: le texture sporche e spoglie in Manhunt, l’incuria e il vuoto presenti anche nei vicoli di altri giochi, mi trasmettono una tranquillità embrionale. Per come stanno i fatti, ogni singolo videogame da me sfiorato mi ha spruzzato in faccia le particelle di cui era composto, io le ho inalate facendole precipitare tutte intorno ai miei sentimenti.
Anche il cinema si è preoccupato di fondere più rimandi per riconsegnarmeli inattesi ma accettabili (o meglio, la mia testa ha fatto il mash-up); se annuso bene l’aria notturna di novembre mi passano in rassegna dietro agli occhi le immagini de Il Corvo (diretto da Alex Proyas, 1994), e si fa strada nel cervello un aroma nostalgico di amore disperso. Deve avermi toccato parecchio quel film se continua a risorgere da una tirata di olfatto.
Intuisco che i generatori responsabili di queste risonanze o “residui immaginifici” non siano propriamente il cinema o i videogiochi, se fruiti e digeriti per lungo tempo; in parte lo sono, certo – in quanto onde emesse nel nostro cranio a ripetizione fin dall’infanzia –, ma alla fine il vero mandante di questo capolavoro inclassificabile è solo lo schermo.
La funzione di quel rettangolo statico non è altro che quella di mischiare per bene l’interno con l’altrove: il nostro sé naturale con l’artificiale di una visione bidimensionale.
Si tratta di una comunicazione fatta di scambi perpetui. Questa roba è molto vicina alla magia, ammetterete; lo schermo è un totem, piatto e sottile come la vera distanza rivelatasi con l’esperienza tra noi e “lui”, il suo scopo è emettere spazi luminosi e invertire il dentro col fuori; di conseguenza anche la realtà tangibile può fungere da richiamo o evocazione di un’immagine artificiale già vista: in giardino sta salendo la nebbia? L’associazione con Silent Hill sarà immediata, e proprio da questo parallelo scatta l’impulso di tirare giù il dischetto dallo scaffale. In pratica la miscela delle diverse realtà si rende così fine e irrintracciabile che la voglia di giocare non deriva neanche dal titolo in sé ma nasce fuori dalla finestra, là dove la natura si tinge di visione anticipatoria.
Ecco, tutti gli scarti di lavorazione prodotti dai continui scambi di sensi e atmosfere tra un umano e l’elettronico sono perciò i residui immaginifici, che in mancanza di un piano materiale su cui decadere, si infilano dietro i nostri occhi a formare un sedimento di scintille raffreddate: nei momenti più diversi, alcuni di questi si mostreranno in trasparenza come piccoli vermi quando si guarda il cielo, altri si rigonfiano in déjà-vu, emanazioni, o si presentano come immagini ricorrenti nel mezzo di una festa. Oppure collaborano con gli incubi, si travestono da sigla del cartone dei Rugrats quando hai la febbre alta, sono pronti a mascherare le paure nella notte prima di un colloquio, scoppiano in una canzoncina udibile in testa proprio nelle pause di un litigio di coppia, sono garze animate che censurano dispiaceri di ogni tipo – basta anche un minimo indizio esterno a segnalare la possibilità di venire scalfiti da qualcosa di vivo, che ti piovono addosso come distrazioni dal sentire, schermando quell’ansia che vorrebbe solo intimarti il bisogno di reagire agli eventi quotidiani. Tutto questo è svolgimento di moti interni che nessuno vede tranne te e i tuoi muri.
È creatività lasciata morire in interferenze acuminate.
Una mattina di settembre del 2021 sotto i portici di una reale città qualunque, entra un tizio a mezze maniche proprio in quel negozio di compravendita di aggeggi tecnologici usati, solleva sudato una vecchia scatola di champagne, tre zaini, due cartoni ondulati, e li rovescia in disordine sul bancone di vetro dove sta la cassa coi soldi. Sono io quel tizio. Quella mattina vendo tutto ciò che avevo collezionato in casa dal 1994 a oggi, ogni periferica, ogni console, tutti i giochi fisici in mio possesso, cavi e prese scart, edizioni da collezione e un monitor IPS da 27 pollici: l’ultimo rettangolo nero che mi ha riversato addosso spazi luminosi e mischiato per bene l’interno con l’altrove. Dopo una veloce valutazione della merce, saluto con la mano e me ne esco a zaini vuoti dalla porta con in tasca 900 euro, il prezzo di una vita passata a stoccare residui immaginifici dietro gli occhi e nel naso, e chissà in quale altro buco del corpo. A casa mi aspetta una mensola piena d’aria, fatta così:
La sola condizione necessaria e non negoziabile per essere un buon videogiocatore è la staticità; per assorbire e godersi l’immaginario veicolato da un fascio di luce blu bisogna restare immobili mentre fuori il mondo gira, un po’ come una TAC. Lo scambio nitido avviene unicamente se ci si allinea al millimetro con la fissità dello schermo che ti guarda: quella è la chiave giusta.
Non c’è nessun tempo, lì, in quel dialogo.
I pixel di Shinobi e Street Fighter, il cemento profumato in Mirror’s Edge e le 100 ore di Disco Elysium schizzano attraverso il corpo filtrando nel sangue, i giochi completati sono ricordi sepolti che riemergono come musica di un livello di Donkey Kong, suonata coi tuoi denti, fatti scorrere l’uno sull’altro a ritmo di bruxismo quando stai cucinando.
Nel mio Sega Mega Drive, Mickey Mouse salta sugli alberi in World of Illusion sventolando un mantello magico e fa tanto casino, riesce a coprire piuttosto bene i silenzi dei miei genitori in rotta di separazione: un bel distacco dal brutto. Decenni dopo mi bagno nel mare emozionale di Kentucky Route Zero, dove la rotta viene smarrita continuamente come in quei sogni in cui sai bene qual è la tua meta, ma in un modo o nell’altro non ci arriverai mai: proprio in quell’estate passata a scandagliare uno stato americano dentro cui galleggiano cavalli e fantasmi, la mia ragazza nuota da sola nel suo mare, in un’altra regione d’Italia; io scalo la vetta al trofeo di platino di Enter the Gungeon infilando un argento dopo l’altro, lei stacca uno alla volta tutti i suoi disegni dalle pareti di casa nostra. Aloy la cacciatrice si arrampica sul corpo rigido di un dinosauro di ferro, e la mia ragazza se n’è già andata, chiudendo piano la porta. Un brutto distacco dal bello.
Quanta pelle sono riuscito a graffiare? Quanto tempo ho vissuto su di me, che non fosse una luce dritta nelle cornee?
27 anni di gioco sulle spalle sono passati, ora ho 35 compleanni e conto già due mesi da quella mia vendita integralista: tutto in un botto mi sono sfilato dei guanti storici, e i polpastrelli sono un po’ molli e spenti. Posso testimoniare più o meno lucidamente di aver compiuto un viaggio multiforme dentro una lunghissima galleria personale spalmata di colori, sangue ed eccitazioni, io ero il capotreno fisso in vettura di testa con una visione chiara delle cose solo dritto avanti a me. E intorno il paesaggio umano monco e perennemente sfocato da finestrini fumè: le cose a scorrere su altre cose, indefinite. Mi sembra sia durato pochi minuti. I miei nuovi giorni sono avvolti nel silenzio, la cruda realtà è una bestia affilatissima. Vivere il presente è la cosa più densa, comica e terrorizzante che abbia mai sperimentato al mondo, come sporgersi nudi dalla prua di una nave, conviene avanzare piano; i vecchi frammenti di memoria si fanno da parte e lasciano spazio a un me stesso svuotato.
Adesso riesco a cogliere bene le due dimensioni che sono sempre coesistite fianco a fianco, a due velocità diverse: quella di gioco che mi ha ricoperto di scacciapensieri, e quella del reale che – per natura senza protezioni – riscopro un po’ offesa e contaminata di striscio dal passaggio di quel treno blindato delle meraviglie, troppe volte inascoltata, mentre mi aspettava.
Sapevate che all’interno del tubo catodico si trova il vuoto? In camera mia ne è rimasto molto, dentro a un macigno appoggiato su un mobiletto. Nel tubo del televisore si nasconde il cosiddetto “vuoto spinto”, uno spazio leggero e sicuro in cui gli elettroni viaggiano liberi; allo stesso tempo però, il nostro ambiente esterno ha una pressione più alta che esercita costantemente una spinta sulla superficie dello schermo, verso l’interno: se quel vetro dovesse incrinarsi, tutto potrebbe implodere.
Io ci dormo vicino e mi guardo scurire nel riflesso.
Poi mi rigiro nel letto e prego che non si accenda da solo nella notte.