Se si apre il canale Twitch di Daniele D’Orefice, l’inquadratura della webcam che ci si ritrova davanti è bene o male sempre la stessa: una sfilza di Topolino in alto sulla sinistra, una trentina di quelli che sembrano vecchi DVD della Disney sulla destra, uno scorcio di cartina geografica appesa alla porta della stanza e un termosifone alle sue spalle, quasi un totem immancabile della scenografia di molti streamer. Con la camera che lo inquadra frontalmente e lo sguardo di tre quarti per tenere d’occhio la chat, sul suo canale Daniele si occupa principalmente di videogiochi, di cui scrive ormai da anni; se non ne sta parlando è perché ne starà di sicuro giocando qualcuno, viceversa quando non gioca tratta l'argomento sul suo canale col piglio dell’appassionato e dell’esegeta. A differenza di molti, però, Daniele su Twitch si occupa solo di videogiochi che provocano il suo personale interesse, cercando di rimanere slegato il più possibile da logiche puramente numeriche e di trend. Sulla sua mensola — mi ha confessato, e seppure lui di videogiochi scriva — mancano ancora opere come The Legend of Zelda: Breath of the Wild o il più recente Elden Ring, ché nonostante lui dichiari amare i Souls, si è detto spaventato dalla stazza del più recente lavoro di FromSoftware.
Quello che colpisce non è ciò di cui si occupa — i videogiochi sono l’humus contenutistico di gran parte di Twitch — e forse neppure la sua lucidità critica e la sua capacità di analisi, cose per cui comunque vale sempre la pena di ascoltarlo; ciò che maggiormente rimane di una sua live sono piuttosto i modi morigerati: che stia parlando di un’opera a lui cara o che si stia lanciando in una critica feroce verso l’industria, Daniele mantiene sempre un tono e una pacatezza quasi inediti per la piattaforma. Difficile dire se sia questa la ragione per cui i numeri, ancora oggi, non lo premiano come dichiarano i suoi contenuti, ma di certo c’è che è sempre stimolante trovare una persona che non si risparmia mai nel giudizio, e soprattutto nell’aplomb quasi monotòno (in senso positivo) con cui riesce a farlo. La sua critica parla il linguaggio della lentezza e della trasparenza espositiva, e soprattutto non è mai scomposta, sia essa elogiativa o reprensiva: Daniele fa tutto questo silenziosamente eppure alla luce del giorno, facendo per così dire coesistere due anime, quella dello scrittore e quella dello streamer. Così, abbiamo provato a chiedergli cosa pensa di ciò che sembra amare di più, i videogiochi, e dell’attività di cui si occupa al riguardo, la scrittura e la critica.
ANDREA: Daniele, tu scrivi di videogiochi professionalmente ormai da quasi sei anni. Secondo te il tuo rapporto con i videogiochi è migliorato? Ritieni che scrivere e giocare per professione abbiano fatto aumentare la tua voglia di giocare?
DANIELE (sorride): La risposta onesta è assolutamente no. Succede esattamente il contrario. Quando inizi hai un po’ quel fuoco sacro, spinto dalla voglia di raggiungere dei risultati. Però poi scopri che in realtà non è un sacrificio che porta a molto, e soprattutto che è un percorso che ti preclude tanto altro. Parlare di videogiochi — come anche di cinema o letteratura — richiede di incamerare tante informazioni; poi, però, magari non giochi a cose che ti interessano o non approfondisci cose che vorresti approfondire. Questo specie nei primi anni, in cui mi sono sentito impoverito più che arricchito. Certo, sono stato arricchito da altri punti di vista, per esempio in quanto a consapevolezza. Col tempo però ho preso delle precauzioni per fare in modo che la passione non si spegnesse.
And.: Tu dici che questo percorso ti preclude tante strade, però visto dall’esterno verrebbe da chiedere: perché pensi che sia così? Essendo scrittore da anni, non pensi che ciò possa aprirti delle porte in futuro?
D.: Da un punto di vista lavorativo, tutto ciò ha a che fare con lo stato del lavoro freelance. Io sono sì un professionista, ma questo non mi permette di guadagnare in modo da mantenermi solo scrivendo. Scrivere di videogiochi (da freelance, n.d.A.) è una cosa che fai affiancandolo a qualcos’altro, e non riesci mai a trovare una stabilità: i siti pagano poco e non ci sono molte possibilità di avere dei contratti. Poi è vero, ti apre alcune porte: a me ha permesso di entrare in contatto con tante persone, con cui ora ho instaurato un rapporto di amicizia; e mi ha permesso di incontrare sviluppatori, di andare nelle sedi dei team di sviluppo. Tutte queste cose sono esperienze che mi hanno sicuramente arricchito. Poi, però, se qualcuno chiedesse se questo è il lavoro dei sogni, gli direi di no; non consiglierei questa strada. Non è un lavoro su cui vale la pena costruire qualcosa per il futuro. Se hai fortuna — e anche bravura, certo — qualche opportunità c’è. Ma non è una strada semplice.
ANGELO: A proposito di questo, come fai a conciliare — sempre che tu ritenga di farlo — la tua schiettezza e il fatto che comunque hai una posizione professionale precisa?
D.: Non è semplice, però di fatto le redazioni ti lasciano abbastanza libero. Essendo freelance io non ho dei contatti strettissimi, di solito io propongo dei pezzi e mi vengono accolti o meno. Oppure, se c’è un gioco o un evento da coprire mi chiamano, e se sono a disposizione io copro quell’evento o videogioco. Certo, parlarne con schiettezza non è un buon modo se uno vuole ambire a determinate posizioni: se sei membro fisso, e quindi anche un po’ l’immagine di quella redazione, non so quanto è conciliabile parlare così come faccio io.
Ang.: Diciamo che in questo senso sei un po’ in una posizione di privilegio.
D.: Il freelance è un po’ il cane senza guinzaglio.
And.: Immagino che per chiunque faccia il tuo stesso lavoro nel mondo dei videogiochi, l’ideale sarebbe avere questa posizione ma con la capacità di sostenersi. In una live recente, in cui parlavi dei disagi di essere freelance, hai accennato al ruolo di Twitch: secondo te, visto gli argomenti di cui parli e come ne parli in relazione ai videogiochi, è possibile arrivare a mantenersi?
D.: Possibile, sì. Ma è molto molto difficile. Conosco tanti canali — perlopiù su YouTube — che fanno cose molto interessanti, e per me le fanno anche in maniera diversa e seguendo delle strade che dovrebbero seguire molte più penne. Il problema è che il riscontro è poco. I problemi più grandi, anzi, secondo me sono due: da una parte c’è un gruppo di lettori che non è abituato, perché i siti più grandi — che comunque c’è da dirlo, non se la passano benissimo — abituano a un certo tipo di contenuto standard, cosa che fa sì che uscire dai binari richieda ricerca, e che qualcuno magari ti sponsorizzi. Il secondo problema è quello della lingua: in italiano… (fa uno strano gesto con le mani). In inglese ti direi di sì, ci sono un sacco di canali che ce la fanno. C’è per esempio il canale di Action Button con Tim Rogers, che fa recensioni da sei ore o anche più, e che comunque è seguito. Ha circa centomila iscritti: certo, nel panorama internazionale sono pochi, ma in Italia sarebbero tanti. Immettersi nel panorama inglese renderebbe questo tipo di mestiere più semplice. In effetti anche io per un momento ci ho pensato; magari in futuro ci penserò in maniera più seria. Resta il fatto che farlo in italiano non aiuta.
And.: È una cosa a cui ho pensato molto anche io in passato, e di cui ho discusso spesso: fare cose in una lingua diversa dall’inglese ti chiude in una sorta di giardino, dove hai sempre un po’ la sensazione che le cose o stanno così o stanno così; giocoforza il mondo anglofono, che ha un’utenza esponenzialmente più grande, sembra darti una libertà maggiore nell’esprimerti. E questo vale ovviamente per ogni settore, non solo quello dei videogiochi. Al contrario, più il nucleo è piccolo e più è facile che si stabiliscano delle voci e che rimangano quelle per tanto tempo. Tu la ritrovi possibile una forma di cambiamento in questo senso?
D.: Attualmente mi sembra molto difficile, anche perché la tendenza è completamente opposta. Si va verso una ulteriore semplificazione, un’aderenza a quelli che qualcuno definirebbe i canali degli influencer — e lo dico senza alcun intento dispregiativo; ma si punta di più al video breve, molte testate di videogiochi per esempio stanno iniziando a investire su TikTok, anche se in ritardo. Il discorso un po’ più complesso, e che per forza di cose non può essere riassunto, tende ad avere sempre più sfortuna, forse più che in passato. Per queste ragioni è difficile che il panorama italiano cambi, almeno nel breve. Diverso, lo ripeto, il panorama internazionale. Se uno volesse puntare a crescere in questo senso, consiglierei di farlo in inglese.
Ang.: A proposito, quali sono i punti di riferimento che hai? Sono italiani o internazionali?
D.: Di italiani ce n’è qualcuno. Per esempio Gekigemu e Glitch, che è un’appendice di Stay Nerd. Di internazionali ce ne sono tanti: Action Button, Jacob Geller, Game Maker’s Toolkit… ce ne sono tanti. Non sono sempre d’accordo con loro, ma mi smuovono un po’ i neuroni, ecco.
And.: Hai detto che una delle cose positive di questo lavoro è proprio l’averti fatto viaggiare e vedere altre realtà. Avendo avuto modo di confrontarti con professionisti esteri del settore, ti sei fatto un’idea di come sia la loro situazione?
D.: La condizione è più o meno la stessa. Ci sono però anche i cambiamenti: per esempio, i grandi siti in inglese pagano anche 5-10 volte quanto quelli italiani. Conosco delle persone italiane che scrivono in inglese, e mi hanno confermato questa cosa. Ovviamente poi dipende sempre dal tipo di articolo, ma si può arrivare anche a retribuzioni decuplicate.
Ang: Che è la differenza fra poter vivere di questo lavoro oppure no.
D.: Esattamente. Diciamo che all’estero, soprattutto in posti come Stati Uniti o Inghilterra, ci sono molte più persone che pur non vivendo solo di quello, magari ce l’hanno come seconda forma di entrata. Poi, però, nonostante da questo punto di vista le cose siano migliori, per quanto riguarda tempi, richieste e pressioni, la situazione resta più o meno simile.
And.: Eppure c’è una cosa che mi chiedo: hai detto di scrivere professionalmente da ormai quasi sei anni, quindi immagino che nonostante tutto tu ci trovi delle forme di gratificazione personale ancora adesso.
D.: Sì. Comunque scrivere per una piattaforma mi consente di esprimermi. Per quanto ci siano dei problemi — e quindi inevitabilmente non puoi dire tutto quello che vorresti — comunque molte recensioni e speciali erano parto delle mie idee. Magari poi sono versioni un po’ edulcorate, ma è comunque un modo che mi consente di raccontare qualcosa e di interagire con delle persone. Vedere un proprio articolo pubblicato su un grande sito in ogni caso ti dà un po’ di soddisfazione, perché ci sono persone che ti leggono, che commentano e che in questo modo possono conoscerti. Questo per me rimane un aspetto molto positivo.
Ang.: A proposito di interazione, come hai vissuto l’esperienza di fare qualcosa su internet? Come si sono relazionati con te gli utenti nel corso del tempo?
D.: Generalmente, l’idea dell’utente malvagio è un mito. Certo, ce ne sono tanti, però si tende a dare più peso a loro che agli altri. Mi è capitato che qualcuno mi insultasse, ma impari a non darci peso. Do molto più peso a una critica strutturata che a chi mi manda a quel paese (ride). In generale comunque direi che il mio rapporto coi lettori è positivo.
Ang.: Prima ancora che essere critica, una recensione è un pezzo letterario vero e proprio, potremmo dire un genere. Tu come ti relazioni alla scrittura? Nel tuo caso, è nato prima il rapporto con la scrittura in generale e l’hai approfondito attraverso la critica, oppure è stato il contrario?
D.: Io ho iniziato prima a scrivere che a giocare. Da piccolo leggevo molto, e poi scrivevo. Perlopiù robacce immonde (ride), poesia o cose così; non so neppure se le ho ancora, spero di aver bruciato tutto. Poi, dopo aver iniziato a giocare, ho tastato un po’ il genere fanfiction, per esempio ho scritto dei racconti sui Fallout. Dopo ho ripiegato su testi più critici. Ancora non sapevo come si impostasse un testo critico, quindi all’inizio la cosa che fai è prendere spunto dagli altri. Prendevo spunti dai siti o dalle riviste più grandi, e piano piano ho iniziato a delineare un certo stile. Però sì, la passione per la scrittura (nel mio caso la narrativa) viene prima rispetto al desiderio di fare critica.
Ang.: È curioso, molti seguono il percorso inverso, dalla critica alla narrativa.
D.: Sì, una volta per me era più facile scrivere narrativa che un testo critico, ora è il contrario. Dovessi tornare alla narrativa, sarei costretto a ricominciare daccapo. In realtà ci ho anche pensato, di recente. Poi chiaro, tutte idee che butti nel cassetto e chissà quando le realizzerai.
And.: Cosa scriveresti? Basandomi sui videogiochi a cui ti dedichi, posso azzardare qualcosa sul fantascientifico o sul fantapolitico. Mi sbaglio?
D.: In realtà provo a fare cose un po’ più sperimentali, non mi piace l’aderenza a un genere specifico. Ho provato a scrivere sia di fantasy che di fantascienza, ma mi annoiano. Leggo così tanti libri di questo genere che non farei che scriverne l’ennesimo.
Ang.: Se potessi, preferiresti scrivere un grande romanzo o fare un grande videogioco?
D.: Proprio perché ho visto dall’interno alcune realtà di sviluppo, so che non riuscirei mai a fare un videogioco. Il videogioco è sempre estremamente complesso. Pochissime persone, che riescono a coniugare capacità di scrittura, programmazione e via dicendo, riescono a fare un videogioco da soli. Però far parte dello sviluppo di un videogioco — anche qualcosa di semplice — mi piacerebbe. Diciamo che preferirei essere associato a un videogioco più che a un grande romanzo. Nonostante ami ancora i romanzi, mi sembra che il videogioco sia uno strumento comunicativo più efficace e non ancora sondato del tutto.
And.: Di recente, parlando di Scorn (2022), hai detto che il gioco “fallisce nel raccontare la sua storia attraverso le meccaniche”. Quello del raccontare attraverso gli elementi di gameplay è un tema che mi ha sempre affascinato molto. C’è qualche gioco che ti ha colpito in particolare a proposito? E soprattutto, visto che hai detto di ritenere il videogioco non completamente sondato, pensi che questo sia il suo terreno più fertile?
D.: Indubbiamente. Le meccaniche sono un po’ la cartina di tornasole del modo di comunicare del videogioco. Se vuoi inviare un messaggio, arriverai per forza a un momento in cui questo dovrà essere veicolato e supportato dalle meccaniche. Ed è la cosa che ancora non si è riuscito a capire del tutto, soprattutto per quanto riguarda il videogioco mainstream. Si prende ancora troppo il videogioco come un giocattolo, che ti dovrebbe intrattenere: le meccaniche devono funzionare, ma non per forza essere funzionali; devono essere fatte bene, ma non frustrarti ed esserti d’intralcio. È un modo un po’ infantile di vedere le cose, e secondo me dobbiamo un po’ scostarci da questo punto di vista. Nei videogiochi che partono proprio con l’idea di alienarti dal mondo questo va bene, però in altri videogiochi che hanno l’ambizione di raccontarti qualcosa — come nel caso di Scorn, che vuole raccontarti una sorta di braccio di ferro tra caos e ordine, o comunque tutti i temi che si possono rintracciare in un gioco del genere — farlo attraverso elementi forti come una narrativa ambientale o silenziosa, per poi rimanere indietro di decenni sulle meccaniche, vuol dire che quella cosa non viene davvero da te. Ci hai appiccicato quell’elemento perché lo devi fare, perché lo fanno anche gli altri. E per motivi che non sono comunicativi. Chiaramente questo stimolo dovrebbe venire da chi i videogiochi li fa, ma anche comunicato in modo più chiaro da chi fa critica. Deve essere chiaro questo, che le meccaniche hanno questa funzione. Nei videogiochi il genere è praticamente la meccanica — tranne forse l’horror che è un po’ di discendenza letteraria e cinematografica, e che quindi può essere di tutto (sparatutto, metroidvania, walking simulator). Però a grandi linee, appunto, sono le meccaniche a definire il genere.
Quindi spesso si parte da questo assunto — che il genere è dato — e non lo si mette più in discussione. Per esempio, se un gioco vuole essere un FPS, noi lo valutiamo per il fatto di voler essere un FPS. Però io mi chiedo, perché non mettere in discussione il fatto di essere un FPS in funzione del messaggio che vuol mandare?
And.: Decisamente, è un terreno che andrebbe continuamente approfondito e ripensato. E per quanto riguarda l’altra domanda: ci sono giochi che di recente ti hanno colpito in questo senso?
D.: Di molto recente direi Immortality (2022). È un gioco che potrebbe piacere a chi ama il cinema. Cita molto cinema degli anni ‘70-’80-’90, e ti spinge a ricostruire la storia di un’attrice scomparsa attraverso i film in cui ha recitato. Come gioco, dà grande valore all’immagine e alla sua funzione nel ricostruire una storia.
And.: Secondo te, gli indie possono essere un terreno fertile per approfondire queste nozioni del linguaggio del videogioco? Magari rispetto ai tripla A, che spesso sembrano stagnanti.
D.: Indubbiamente il tripla A è stagnato da tempo, e l’innovazione è spesso di facciata, non sostanziale. Però non me la sento di parlare troppo bene neppure del mercato indie: già la definizione di indie è stata un po’ travisata, presa dal mercato e rimasticata. Adesso vengono chiamati indie anche videogiochi che hanno investimenti se non milionari, poco ci manca; ormai è difficile capire se l’indie sia davvero sviluppato da un tizio in un garage o da un team che ha un budget consistente. Poi senza dubbio il fatto che il mercato indie abbia meno restrizioni lo rende un terreno fertile, per quanto resti un mercato che dà vita a una serie di epigoni e di copie gigantesche. Ci sono tanti indie che riprendono tripla A ma con meccaniche un po’ più innovative o che osano un po’ di più, anche se alla fine bene o male restano quelle. Di giochi ne escono tanti, per me bisogna essere molto selettivi. Anche nel mercato indie.
Ang.: Secondo te, Daniele, come mai nel caso dei videogiochi si è arrivati così tanto a costruire tutto un discorso attorno alla critica? Mi riferisco ad altri mondi, come quelli cinematografico o letterario, dove il riferimento è più spesso alle opere; nel caso della critica di videogiochi c’è il fenomeno opposto, si parla di industria quasi più che delle opere.
D.: È vero. Una risposta che posso darti è che i videogiochi, essendo sforzo collettivo e quindi dipendenti da un sacco di aziende, per forza di cose costringono ad ampliare il discorso attorno a essi. Poi per me un altro motivo è che si tende a ripetere le cose a pappagallo. Il linguaggio dei videogiochi è molto autoreferenziale. Quando viene introdotto un nuovo termine, per esempio, questo viene spesso introdotto direttamente dal marketing: lo si utilizza sempre, e alla fine rimane. Che possa essere adatto o meno alla sua funzione non è neppure messo in dubbio. Un terzo motivo è che il legame fra critica e mercato è morboso. Per quanto mi riguarda è un legame troppo stretto: la critica fa più l’interesse del mercato che del lettore, e banalmente lo testimonia proprio dal modo che ha di parlare dell’industria. Un problema grosso è proprio quello del linguaggio: un linguaggio che non è selezionato è un linguaggio che percola: arriva dal marketing ed è preso per buono.
And.: Secondo te questa autoreferenzialità, dei produttori così come del pubblico, si attenuerà col tempo? Istintivamente mi viene da pensare di sì — anche se molto lentamente — perché col passare del tempo la percezione che si ha del giocare ai videogiochi tende sempre più a normalizzarsi: l’età media di chi gioca si alza, e così inizia a mutare anche il circuito di discussione attorno al mezzo.
D.: Ci deve comunque essere una spinta dall’alto.
Ang.: Forse uno dei problemi è l’opposto, e cioè che nel mondo dei videogiochi c’è un ricambio costante di utenza, e poi crescendo le persone non giocano più, venendo sostituite dai “nuovi giovani”.
D.: Secondo me non è così vero. Il ricambio generazionale era più evidente prima. Certo è sempre un discorso soggettivo, ma vedo sempre più giocatori grandi, che hanno tranquillamente quaranta o cinquant’anni. Magari non giocano come una volta, ma si ritagliano comunque uno spazio. Soprattutto, il ricambio non avviene se il videogioco non riesce ad aggiornarsi. Fin quando il videogioco era percepito come una “cosa da ragazzi”, come negli anni ‘80, veniva associato a quest’idea, ma oggi è diverso. Prendete Kentucky Route Zero: lo giochi se sei una persona matura. Diciamo che è una questione complessa, e che lo spettro è abbastanza ampio da questo punto di vista.
Per quanto riguarda l’autoreferenzialità del linguaggio: è vero, i videogiocatori tendono a essere un po’ chiusi, non so se per una reazione alla ghettizzazione subita dal mezzo. Ma rimane ancora una separazione. Un esempio simpatico: mia nonna ogni tanto legge quello che scrivo, e mi dice: “Io non riesco a capire niente di quello che scrivi, è tutto in inglese”, quando invece non è vero, io scrivo in italiano, ma con dei termini specifici. Non hai capito niente se non riesci a spiegarlo a tua nonna (ride). Diciamo che questo è un esempio calzante: se non riusciamo a spiegare cosa sono i videogiochi a chi non li conosce, bisognerebbe utilizzare un linguaggio più adatto. I videogiochi sono molto specifici, e questo forse li danneggia.
Ang.: In effetti un altro scoglio per chi non gioca è che i videogiochi non sono facilmente accessibili. Per un non giocatore, capire per esempio come coordinare i movimenti dell’avatar e della telecamera è molto complicato.
D.: È verissimo, da questo punto di vista i videogiochi ti respingono un sacco. Poi, banalmente, sono esclusivi anche a livello di tempo: sono spesso molto lunghi e richiedono tanta concentrazione. In generale, si può giocare a pochi videogiochi rispetto a quanti film si possono guardare. Specie per i tripla A, che ormai sono diventati mastodontici. Anche questo li rende spesso respingenti.
Un’altra cosa che li rende respingenti è che non tutti riescono a capire che tu comunque stai sempre “scrivendo un storia”: quando giochi, anche mentre cammini o ti muovi stai scrivendo quella storia. Certo, non sempre sono frammenti significativi del racconto, però il videogioco sta raccontando, e tu giocatore stai assorbendo. La meccanica è narrativa. E spesso anche i videogiocatori più esperti questa cosa la tralasciano. Paradossalmente forse è più facile che chi gioca per la prima volta a un videogioco capisca che la meccanica è narrativa, perché chi ha giocato tanto non ci pensa più. E ti dice qualcosa come: “Ah, la trama va avanti solo nei filmati”, mentre quando spara non crede che la trama stia andando avanti. E invece non sono cose separate: non è che voglio raccontarti una storia e poi come contentino ti do le sequenze di gameplay. E se questo non lo capisce la critica, abbiamo un problema.
And.: Forse è anche un problema di assuefazione: ormai tante persone hanno giocato così tanti videogiochi che non pensano più ad alcuni fondamenti del linguaggio. La sensazione è che chi i videogiochi li fa si comporti allo stesso modo, mancando spesso un’occasione di rendere giustizia al mezzo.
D.: Sì, questa cosa viene dall’alto, e poi la critica tende a sua volta a separare le cose in comparti. Si legge spesso: “è un bel gioco, ma l’atmosfera è brutta”, “ha un buon gameplay, ma ha una brutta trama”. Non funziona così, non si tratta di aspetti separati. È una differenziazione quasi primitiva, e questo scoglio dovrebbe essere ormai superato.
Ang.: Tu come selezioni i videogiochi? Come scegli a cosa giocare?
D.: Dipende, ci sono tanti fattori. Ci può essere il fattore nostalgia, se c’è un gioco che appartiene a una serie che mi piace; se ne ho sentito parlare bene; se quel gioco è considerato importante a livello storico; se li trovo in servizi come il Game Pass e mi incuriosiscono. Poi cerco di essere selettivo: se un videogioco non mi piace, lo lascio stare.
And.: Che rapporto hai con lo studiare i videogiochi? Pensi che si studino abbastanza, in generale?
D.: Non c’è dubbio che i videogiochi si studino molto di più rispetto a una volta, soprattutto in ambito accademico. Si studiano poco magari sui siti di videogiochi: per una recensione o uno speciale spesso non c’è tanto studio, e le persone che scrivono non si preparano tantissimo. Questo avviene perché non hai l’interesse a farlo, non vieni incentivato. In ogni caso lo studio si è ampliato, e i buoni libri sui videogiochi sono aumentati. Per esempio, un docente come Francesco Toniolo ha un sito con un elenco di libri sui videogiochi da cui si può spulciare. È difficile rispondere alla domanda se si studiano abbastanza. Sono “giovani”, ma andrebbero senza dubbio approfonditi di più.
And.: “Giovani” ma forse in crisi di adolescenza.
D.: Una adolescenza molto lunga.
And.: Una crisi d’adolescenza che è tracimata direttamente nella crisi del quarto di vita.
D.: Esatto.
And.: Ricordo che hai raccontato di aver iniziato a giocare verso i dieci anni. Qual è il tuo imprinting in questo senso? C’è qualcosa che ti ha segnato e che è rimasto ancora oggi?
D.: Rispondere è difficile. Posso nominare quelli con cui ho cominciato. Ho iniziato con i Pokémon o con Super Mario, ma in modo disinteressato. Poi sono passato alle sale giochi, che però erano già in una fase calante, riempiendole di soldi che per fortuna non erano miei. Poi ho iniziato a giocare per PC, con giochi come Doom 3 (2004), Age of Empires III: Age of Discovery (2005) e anche Fallout 3 (2008)… tutti i 3 delle saghe, ci sto facendo caso solo adesso (ride). Direi che quello con cui sono entrato più in sintonia è proprio Fallout 3.
And.: Giocare a qualcosa, oggi, riesce ancora a darti quella sensazione? Quando vedi un trailer di un gioco potenzialmente interessante, senti ancora quel desiderio?
D.: Dal punto di vista dell’attesa per un gioco, molto meno. Ho maturato un altro piacere, quello di giocare a un gioco e poi discuterne con qualcuno. Non c’è niente di male nell’aspettare un gioco o vedere un trailer e farsi prendere dall’impazienza, ma diciamo che quella cosa è un po’ cambiata, personalmente.
Ang.: L’ultima volta che ho avuto quella sensazione è stato con Elden Ring.
D.: Non l’ho ancora giocato. Quando ho sentito della durata e dell’impegno mentale ho desistito. Sicuramente lo giocherò, ma mi sto dando del tempo.
And.: Non credo di avere altre domande. Anzi sì, e te la faccio proprio perché è la più banale di tutte: hai un videogioco che preferisci? O anche più di uno?
D. (ride): È difficile. Diciamo che se c’è un videogioco che preferisco, questo cambia ogni volta. Ne voglio ricordare qualcuno: The Witness (2016), per come gestisce la narrativa ambientale e integra gli enigmi; Return of the Obra Dinn (2018), sempre un gioco a enigmi; Disco Elysium (2019), che per me ha il suo punto forte nella scrittura ed è molto furbo nell’organizzare le sue caratteristiche da CRPG; andando sul classico dico Dark Souls (2011), il primo, che ritengo il Souls migliore nel complesso, principalmente per la gestione della mappa; il primo Doom (1993), che per me è l’estasi, quel gioco che giocato ancora oggi è una goduria dall’inizio alla fine; Shadow of the Colossus (2005), che ho recuperato di recente, e Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty (2001), che ho apprezzato molto. Poi voglio citare magari opere meno conosciute: due walking simulator come What Remains of Edith Finch (2017) e Dear Esther (2012), e infine anche Journey (2012).
Vi lascio le pagine di Daniele e Angelo, che hanno partecipato e che meritano lo spam:
Il canale Twitch di Daniele
Il canale YouTube di Daniele
Il video della conversazione intera con Daniele, dove ha dato risposte molto più articolate. Nella seconda parte della conversazione, per chi fosse interessato, sono stati trattati altri temi più a braccio.
La conversazione da cui è tratta questa intervista si è tenuta il 22/10/2022.