Verso gli undici, dodici anni, discutevo animatamente con i miei genitori e i loro amici su una questione: ma i videogiochi sono arte? Ad innescare la domanda era il mio ripetuto ascolto delle track orchestrali del primo Tomb Raider, che nel giro di due anni smarrirà la sua identità e da gioco riflessivo e malinconico di esplorazione in mondi decrepiti diverrà la celebrazione di un discutibile sex symbol. Ma non allora: allora c’era solo da inserire il TR1 in un lettore musicale per ascoltare alcune delle colonne sonore videoludiche più avanguardiste di sempre, almeno finché Uematsu non debutterà su PS1. Ma da dove vengono queste musiche così evocative? Da un videogioco, rispondevo io. Incredulità, scetticismo, reprimende e ovviamente sfottò. Mi irritava molto. Che i videogiochi fossero arte (o meglio: un mezzo con cui è possibile esprimerla) mi sembrava ovvio quanto a loro sembrava ovvio che non potessero esserlo mai. Quale magia nera accadeva secondo loro, per la quale combinando diversi mezzi artistici (musica, immagini, narrazioni, design) si otteneva qualcosa che incredibilmente NON POTEVA esprimere arte? Come poteva l’uno diventare così minore della somma delle sue parti? Come si poteva essere così chiusi da sostenere questo nonsenso?
Fast forward di venticinque anni. Si va ad acquistare Steelrising con moderata trepidazione, l’idea di fondo è ispirata e intrigante: la Rivoluzione Francese come guerra di automi, macchine barocche e sfarzose che portano morte per le strade di una Parigi infuocata dalle rivolte. Che grande idea: non resta che da vedere come il gioco saprà svilupparla. Cosa vogliono comunicarci gli autori di Spiders, nel loro chiaro interesse per epoche storiche snobbate dal fantasy (come già nel loro Greedfall, ambientato al tempo dei Conquistadores)? Forse le armate meccaniche sono metafora dell’Illuminismo, e preconizzano che il progresso umano verrà ancor una volta posto al servizio della violenza bellica? O forse vogliono rappresentare la Rivoluzione come uno di quei momenti storici in cui la violenza sfugge di mano all’eterogenesi di cause e di fini e diventa massacro automatico, lasciando ai posteri di chiedersi “come è potuto accadere”? O forse, ancora, la protagonista Aegis (automa anch’essa) simboleggia l’intellettualismo aristocratico che finisce col produrre quegli stessi pensatori che lo criticano, una marionetta ingioiellata che diventa non solo senziente, ma addirittura eroina rivoluzionaria? O forse Aegis è solo la prima di tante macchine da lavoro che prenderà coscienza di sé? Tanti memorabili personaggi da riadattare che quasi si scrivono da soli: il rivoluzionario di due mondi Lafayette, il sarcastico Marat, quel Luigi XVI che si sognava di essere re del popolo e quella Marie Antoinette depressa e mai assolta dal peccato di discendenza austriaca, un carismatico Robespierre che si avvia all’ascesa e che non incute ancora (il) Terrore, uno sfuggente Jaques Necker in sospetto di essere sempre stato un impostore e un Lavoisier scienziato buono della situazione. C’è persino un misconosciuto Julien Raimond che fa gridare: “nero di rappresentanza!” allo schermo (e invece no: Raimond, storicamente, era proprio nero, ma nei ritratti veniva raffigurato bianco per via del suo rango; epoca che vai perbenismo che trovi) e che ha un occhio alle Americhe e a una rivoluzione gemella oltremare che ci fa risuonare qualche motivetto dell’Hamilton di Lin-Manuel Miranda. C’è il casting per una miscela esplosiva, almeno quanto la sua acuta metafora di partenza e il suo setting storico avvincente, e ti scopri suggestionato, ti immagini di scorgere Lady Oscar e Andrè passare di corsa sotto la Bastiglia cannoneggiata. Certo, una ricombinazione di cose già viste: ma cosa non lo è? Ma di certo, un prodotto pieno di fascino.
Steelrising fa schifo.
Dire perché faccia schifo non è così semplice, però. Non è così incomprensibile come abbia preso voti tra il 6 e il 7: dopotutto, in qualche modo il gioco si difende. non è un pessimo prodotto, anzi qualcuno che se lo fosse comprato senza troppo occhio critico e senza essere più di tanto al passo con le ultime uscite, potrebbe trovarlo bello, persino sfidante, o innovativo. Questa – ed è la tesi di questo articolo, volendo – è la cosa più grave: Steelrising è un prodotto di consumo dignitoso, tanto quanto un prodotto artistico abominevole.
Il gameplay è quello che probabilmente viene fuori da un pitch-meeting di quindici minuti in cui qualcuno ha scritto “soulslike” alla lavagna, i personaggi riescono nel mirabile intento di contraddire apertamente quelli storici banalizzandoli o snaturandoli, la storia non ha il più minimo mordente e ripropone i dialoghi a ruota di Mass Effect e Dragon Age rendendoli però quanto più irrilevanti e inconseguenti possibile; del sonoro si può solo dire che bisognerebbe rigiocarlo per confermare che ne esista uno. La grafica è tenuta in piedi sugli sforzi erculei dell’artist Cyril Tahmassebi, un eroe incelebrato che ha messo nell’opera tutto ciò che in essa abbia un qualche valore: gli automi sono stupendi, il loro design è decadente, ingegnoso, elaborato, minaccioso, e il teatro su cui si muovono è una amorevole riproduzione di punti focali della Parigi antica. Lo spreco di questo lavoro estetico meraviglioso fa il paio con lo spreco della sua intrigante premessa di partenza: gli automi di Steelrising non rappresentano nulla e non vogliono dire nulla. Se fossero stati demoni, o orchi, o zombie, la storia si poteva fare tal quale. Sono l’opera di uno stregone cattivo che profitta della Rivoluzione Francese per nutrirli con le anime dei morti, il che vuol dire che a sua volta andava bene qualsiasi massacro storico o fittizio per ambientare la narrazione – e se avete pensato a Nioh e al Sengoku Jidai, avete ragione, solo che Nioh era sia più originale che più informativo; in Steelrising tutta la storia della Rivoluzione è distorta e appiattita, o dovremmo dire instupidita. La motivazione dello stregone è avere più potere, ci svela nei suoi fortunatamente rari minuti on screen, lasciandoci non troppo avvinti dal suo carisma né convinti dal curriculum dello sceneggiatore.
Fa uno strano effetto assistere a tutto questo, proprio perché questi automi sono così belli. Bisognerebbe immaginarsi che H.R. Giger avesse disegnato i suoi stupendi e mitizzati xenomorfi ma allo scopo di inserirli nel remake live-action di Beauty and the Beast, mentre il regista ha deciso che ciò che proprio non può mancare sia uno scimmiottamento puerile degli stilemi di Wes Anderson. Così, mentre degli iconici alieni dalla testa oblunga ti cantano in faccia “Stia Con Noi” danzando sullo sfondo di un simmetrico salone rosa pastello, stai lì mesmerizzato a chiederti quando esattamente si svelerà il significato profondo della psichedelia a cui stai assistendo. E quando ti rendi conto che non arriverà mai, ti chiedi per chi esattamente è stato fatto tutto questo mentre un Facehugger ti assicura: “Si rilassi d’ora in poi / Metta al Collo il Tovagliolo / Faremo tutto noi” e tu immagini che qualcuno quella scena ha effettivamente lavorato per produrla e forse ci ha persino creduto, e senti una crescente sensazione di tristezza e di imbarazzo vicario ma anche la realizzazione che quelle due ore di vita (molte di più con Steelrising) sono oltre l’orizzonte degli eventi, non le riavrai mai più. Arrivi alla fine per un perverso piacere, un gusto acquisito che ti hanno instillato: a ‘sto punto vuoi proprio vedere come m****ia hanno rifatto quella scena con la Xenomorph Queen al posto di Lumiere il candelabro parlante, perché a te sembra proprio che non c’entri uno strac***o, ma ormai è subentrato il gusto (acquisito) dell’orrido assieme a una tendenza a commentare per turpiloqui.
Steelrising non ha un senso artistico e nemmeno ci prova ad averlo. E’ la combinazione di mezzi artistici in qualcosa che magicamente di artistico non ha nulla, è il videogioco quando ha successo nell’essere la peggior versione di sé stesso, una somma minore delle sue parti. Persino, riesce a “bruciare” quei mezzi artistici: quel concept, quel setting e quell’art direction ora sono di Steelrising, ci piaccia o no, quando potevano facilmente fare un prodotto che avesse qualcosa da dire. Mancando una visione autoriale, diventa davvero solo una accozzaglia di cose dove il tutto significa meno, e ti trovi a domandarti se un gioco sulla Rivoluzione Francese non sia stato messo assieme – ironicamente – con un certo cinismo in luogo dell’ispirazione, o magari assemblato a casaccio dai lamantini satirici di South Park.
E al contempo, eppure, è un prodotto “sufficiente”: non esattamente un gioco indegno, anzi nelle mani di un casual gamer potrebbe persino essere un buon acquisto. Immagino che sarà presto consegnato all’irrilevanza, se non l’ha già raggiunta, ma mi ha generato una peculiare dissonanza cognitiva che non dimenticherò facilmente. Non è immondizia eppure mi ferisce che esista: sì, una commistione di prodotti artistici può generare qualcosa che suona del tutto privo di arte, di anima. Per la prima volta mi sono chiesto se non sto chiedendo al videogioco qualcosa che non vuole realmente fare, di darmi qualcosa che non è pensato per dare. O se, forse – come sta accadendo al cinema – non saremo sempre più inondati di prodotti senz’anima di cui nessuno sente realmente il bisogno, che sono semplicemente la risulta di una serie di calcoli di marketing che si credono furbi, produzioni formulaiche e qualche buona idea sprecata nel mezzo; carrozzoni che si iperproducono e ricombinano incessanti alla faccia del “meh” generale. Forse questo degrado è inevitabile per tutta l’arte? No di certo: è direttamente proporzionato ai mezzi economici che servono per produrla; più la base economica è alta più sottende un investimento rischioso, ergo un occhio alla vendibilità e alla consumabilità. Aspettarsi da videogiochi (aspiranti) blockbuster scelte artistiche e per definizione rischiose - come ebbe a dire il filosofo Han, forse un pò semplificando, “l’arte deve dispiacere” - potrebbe diventare sempre più una aspettativa assurda, dati i costi elevati necessari a produrli. Meglio tentare di ricombinare infinitamente tropi, trend e concept sfornando chimere senza troppa ispirazione, sperando di centrare come missili intelligenti un segmento di mercato indifeso.
In una videorecensione di Thor: Ragnarok lo youtuber Synergo (“Cose Dell’Altro Cinema”) gettò en passant una osservazione ficcante: la gente odia questo film perchè non accetta che un carrozzone caciarone si venda come carrozzone caciarone, consapevole e felice di esserlo, perchè vorrebbero credere che il loro amato MCU sia una odissea di spessore culturale, e non lo sarà mai. Gli do ragione, certo. A volte la pretesa che l’intrattenimento sia spessore culturale è infantile, o patetica. A volte è letteralmente - e per forza - contestualizzata all’infanzia: crescere guardando Saint Seiya o Hokuto No Ken ha avuto per molti un grande valore pedagogico, ma lo spessore di questi lavori non può essere lo stesso agli occhi di un trentenne o quarantenne, e da adulti dovremmo riconoscerli per quello che sono. Meglio non prendersi troppo sul serio insomma - come sempre. Ma puntare in basso è sempre giusto? A istinto, direi di no. Sarebbe il caso di apprezzare - e dunque non pretendere, ma almeno attendere - spessore e significato, dall’arte. Ma a guardare Steelrising mi interrogo sul j’accuse implicito (molto implicito, anzi anche contra tabula) di Shigeru Miyamoto: i giochi devono essere giochi, non pretendere di elevarsi a letteratura, e forse se lo pretendono si rendono - a volte, almeno - ridicoli. Ancora, non sono (sempre) d’accordo: guardo al videogioco come una forma narrativa, principalmente, e forse sono ridicolo anche io. Come una Xenomorph Queen che canta in un salotto color salmone.
O forse no, forse; forse resta ancora qualcosa di bello e grande nell’intrattenimento che prova ad essere anche altro, resta qualcosa di profondo e toccante in quello Juza delle Nuvole che, sprizzando sangue da tutti i pori per un amore impossibile, rifletteva nel suo icore le nubi del cielo, e sorridendo diceva a un attonito Raul: “sono un uomo libero, e nessuno può dirmi dove andare”, insegnando a un mini-me sfinito e traumatizzato dalle continue morti di personaggi amati tanto sull’amore, la libertà, la futile smania di conquista. Forse c’è qualcosa di bello.
Ma non in Steelrising, d****ne del c***o