To The Moon è un videogioco del 2011 creato da Kan Gao per la Freebird Games. Si tratta di un adventure game sviluppato con RPG Maker dalla grafica in pixel art dalla trama abbastanza semplice: la dottoressa Eva Rosalene e il dottor Neil Watts lavorano per la Sigmund Agency of Life Generation, un'azienda fondata con lo scopo di aiutare gli esseri umani a realizzare un desiderio attraverso l'impianto di ricordi artificiali. Questo processo viene effettuato esclusivamente su persone che si trovano nelle fasi finali della loro vita, in modo da assicurare loro una morte serena e senza rimpianti, considerando che tali ricordi potrebbero entrare in conflitto con le loro convinzioni autentiche.
All’inizio del gioco i due dottori arrivano presso una maestosa dimora costruita su una scogliera, situata in prossimità di un faro. Al suo interno risiede l'anziano Johnny Wyles, che si trova ormai in prossimità della morte: Eva e Neil devono esaudire la volontà del paziente di “andare sulla luna”, e per farlo devono risalire al motivo che sta alla base di questo desiderio entrando nella mente del paziente e risalendo ai suoi ricordi più remoti. L’impresa è complicata dagli intricati rapporti del paziente con la ormai deceduta moglie River e con il fratello Joey: alla fine (spoiler alert) i due dottori riescono a ricostruire al meglio la vita di Johnny risolvendo i suoi problemi e realizzando il suo sogno di andare sulla Luna. Nella scena finale, lo shuttle si avvicina alla Luna mentre in sottofondo sentiamo il suono dell'elettrocardiogramma di Johnny che ne annuncia la morte.
Sebbene Eva e Neil riescano nel loro intento, al lieto fine del gioco si accompagna però un certo senso di amarezza: da un lato abbiamo fatto un buon lavoro nel senso che abbiamo esaudito i desideri del paziente; tuttavia, ci sembra anche che qualcosa sia andato perduto. La “nuova” vita di Johnny, sebbene più felice di quella “vecchia”, è davvero migliore? Più precisamente: grazie ai dottori della Sigmund Agency, Johnny ha realmente vissuto una vita migliore? L’esperienza (o il ricordo) di una vita costruita appositamente per esaudire ogni nostro desiderio ha lo stesso valore di una vita imperfetta ma reale?
Il filosofo americano Robert Nozick si è posto una domanda molto simile nel suo libro del 1974, Anarchia, Stato e Utopia, in cui (nel contesto di una critica dell’utilitarismo come teoria politica) propone il seguente esperimento mentale:
Supponiamo che esista una macchina dell’esperienza capace di darci qualsiasi esperienza desideriamo. Un gruppo di neuropsicologi eccezionali si offre di stimolarci il cervello in modo da farci pensare e sentire come se stessimo scrivendo un grande romanzo, o stringessimo amicizie, o leggessimo un libro interessante. Per tutto il tempo galleggeremmo in una vasca, con elettrodi applicati al cervello. Resteremmo collegati a questa macchina per tutta la vita, pre-programmando le nostre esperienze? […] Ci collegheremmo a questa macchina? Che altro può importarci se non come sentiamo le nostre vite dall’interno?
Robert Nozick, Anarchia Stato e Utopia, p.63.
Per Nozick la risposta è negativa: non sceglieremmo di entrare nella macchina perché «noi vogliamo fare certe cose, e non soltanto avere l’esperienza di farle». Inoltre, per noi è importante «essere in un certo modo, essere un certo tipo di persona. Galleggiare in una vasca significa essere un qualcosa di totalmente indeterminato». Ovvero, anche se all’interno della simulazione prodotta dalla macchina noi compissimo imprese eroiche o scrivessimo bellissime poesie, ciò non ci renderebbe delle persone coraggiose né dei grandi poeti: saremmo solo delle persone in una vasca con degli elettrodi collegati.In breve, per Nozick non faremmo uso di una simile macchina dell’esperienza perché sappiamo che c’è qualcos’altro che ci importa oltre l’esperienza. Ma in che senso?
Ciò che esiste
Intuitivamente riconosciamo che c’è una differenza tra un mondo immaginario e quello reale: la persona dentro la macchina dell’esperienza di Nozick sta vivendo nel mondo dei sogni, traendo piacere da cose che non sono reali. Molti filosofi concordano infatti con Nozick: secondo un sondaggio del 2020, tra i filosofi professionisti che hanno partecipato solamente il 13% entrerebbe nella macchina dell’esperienza, mentre il 77% si rifiuterebbe (chiaramente, con motivazioni diverse tra loro).
Tuttavia, la differenza apparentemente ovvia tra “mondo immaginario” e “mondo reale” potrebbe apparire più ambigua se ci soffermiamo su cosa intendiamo precisamente con “immaginario” e “reale”. Ovvero, mentre per Nozick c’è una distinzione tra il fare certe cose e l’avere esperienza di farle, qualcuno potrebbe argomentare che questa distinzione sia in realtà meno chiara di quanto sembri. Se, dal mio punto di vista di soggetto agente, non cambia nulla tra una passeggiata nel mondo fisico “reale” e una passeggiata “simulata” nella macchina dell’esperienza, perché dovrei valutarle diversamente? Perché dovrei considerare una più reale rispetto all’altra?
Su questa linea, il filosofo australiano David Chalmers ha sostenuto che la realtà virtuale non è una realtà di secondo livello:
« In realtà virtuali perfette, gli utenti potranno costruire le loro vite come vogliono, genuinamente interagendo con gli altri e conducendo una vita ricca di significato e di valore ».
David Chalmers, Reality + (New York: Norton & Company: 2010), p.16.
Chalmers definisce la sua concezione una forma di “realismo virtuale", ovvero la tesi secondo la quale la realtà virtuale è genuinamente una realtà, e non un’illusione. Nel contesto di una simulazione virtuale, gli oggetti intorno a noi sono reali e non illusori: sono esattamente come sembrano. Certo, gli oggetti in una realtà virtuale sono oggetti digitali, strutture di 0 e 1, e non oggetti fisici composti da atomi, ma sono perfettamente reali. Nel mondo fisico gli oggetti sono fisici; nel mondo virtuale gli oggetti sono digitali. Ma il mondo fisico non è “più reale” di quello virtuale: si tratta semplicemente di due realtà.
La domanda sorge quindi spontanea: cosa significa “realtà”? Noi usiamo il termine “realtà” in almeno tre modi diversi:
Come entità: la realtà è tutto ciò che esiste (quindi, in questo contesto, tutto ciò che è fisico più tutto ciò è virtuale).
Come mondo: cioè come spazio interconnesso e completo (quindi, il “mondo fisico” da una parte e il “mondo virtuale” dall’altra).
Come proprietà: alcune cose sono reali, altre no (quindi, realtà come realità, cioè come proprietà di “essere reale”).
Nella visione di Chalmers, questi tre sensi coesistono: la realtà (1) contiene molte realtà (2), e queste realtà sono reali (3). Il punto della discordia è soprattutto il 3: come dobbiamo intendere “reale”?
Innanzi tutto, qualcosa è reale se esiste davvero: i cavalli sono reali, sono parte dell’universo; gli unicorni no. Inoltre, essere reale significa avere poteri causali: ogni oggetto che percepiamo ha poteri causai perché può produrre una differenza in noi che lo percepiamo. Un altro elemento fondamentale è l’indipendenza dalla mente: come ha scritto Philip K. Dick, «la Realtà è quella cosa che, quando smetti di crederci, non se ne va». Ovviamente, la realtà è non-illusoria: cioè, è (più o meno) come sembra. Infine, come suggerito da John L. Austin, la domanda rilevante non è tanto se qualcosa è reale ma se un certo oggetto sia realmente quell’oggetto: invece di chiedere se X è reale, dovremmo chiedere se questo oggetto che mi sembra un X sia realmente un X.
Abbiamo quindi cinque criteri: esistenza, causalità, indipendenza dalla mente, non illusorietà e genuinità. Quando diciamo di qualcosa che è reale, intendiamo o una o un mix di alcune di queste cose. Diversi aspetti sono ovviamente rilevanti per scopi diversi.
Ora, per Chalmers questi cinque criteri si applicano sia alla realtà fisica nella quale viviamo sia a una (oggi ancora ideale) realtà virtuale completa. I cinque criteri della realtà si applicano, quindi, anche a una simulazione perfetta: in una simulazione perfetta, le cose sono perfettamente reali. Anche se ora ci trovassimo in una simulazione (come ipotizzato già da René Descartes nel 1641, immaginando che ci fosse un “genio maligno” che ci inganna su ogni percezione che abbiamo del mondo esterno), all’interno della simulazione le nostre credenze sul mondo sarebbero comunque valide: nel contesto del mondo che noi chiamiamo “reale”, gli oggetti di cui abbiamo esperienza sono “reali”.
David Chalmers, quindi, ammette la possibilità del dubbio scettico secondo il quale tutta la nostra realtà sarebbe il prodotto di un genio maligno o di scariche elettriche sul nostro cervello in una vasca; e, proprio perché non possiamo escludere questa possibilità, non ci sono motivi per non considerare il mondo in una realtà virtuale perfetta come altrettanto reale. In questo modo, la distinzione intuitivamente ovvia tra fare qualcosa e avere l’esperienza di farlo viene meno: gli oggetti di un mondo virtuale sono reali all’interno del mondo virtuale, e gli oggetti nel mondo fisico sono reali all’interno del mondo fisico.
L’argomento di Chalmers si fonda su una radicale contestualizzazione dei nostri giudizi: possiamo dire correttamente che un oggetto virtuale è “reale” solo se noi siamo in quella realtà virtuale. Non possiamo dire che la nostra realtà non è reale, perché ciò che noi intendiamo per “reale” è precisamente questa realtà. Anche se la nostra realtà fosse prodotta da un genio maligno per ingannarci, ciò che noi chiamiamo “reale” e “vero” è tale solamente all’interno di questa realtà, ed è dentro questa realtà che viviamo le nostre vite, con le loro esperienze e il loro valore.
Ma nel caso della macchina dell’esperienza di Nozick, così come nel caso di To The Moon, noi non siamo bloccati in una sola realtà. O meglio, una volta che siamo dentro la simulazione noi non sappiamo di esserlo, ma scegliamo di entrarvi quando ne siamo ancora fuori. Da questa prospettiva, esterna alla macchina, noi abbiamo eccome una distinzione tra due realtà: abbiamo, cioè, nel momento in cui decidiamo se entrare o meno nella macchina, la concezione di una realtà diversa da quella presente. La prospettiva di Chalmers, secondo cui potremmo essere tutt’ora in una simulazione e non saperlo ma usare comunque parole come “reale” e “valore”, è dunque indebolita dal fatto che, per chi è fuori dalla simulazione, si tratta pur sempre di una costruzione illusoria.
Ciò che vale
Ma anche ammettendo la possibilità che la nostra realtà attuale sia una simulazione, è a questa realtà che noi attribuiamo valore, e non a un’altra (per quanto simile). La domanda di Nozick, infatti, non è una domanda epistemologica – Possiamo sapere di non essere già in una simulazione? – né una domanda metafisica –Il mondo interno alla macchina non è un mondo reale? – ma è una domanda sul valore: Gli stati mentali sono tutto ciò che conta?
In questo senso, la domanda posta dall’esperimento mentale di Nozick è una domanda su quello che Moore chiama “valore intrinseco”, ovvero la bontà di una cosa in sé, e non in quanto mezzo per qualcos’altro. Per verificare se qualcosa costituisca un valore intrinseco, bisogna considerare quella cosa in isolamento rispetto a tutto il resto. L’esperimento di Nozick serve allora a mostrare che il piacere, cioè l’unica cosa prodotta dalla macchina dell’esperienza, non ha valore intrinseco in quanto una vita che contenesse solo quella sensazione di piacere non sarebbe ricca di valore: non la preferiremmo a un’altra.
« La domanda non è se entrare nella macchina sia preferibile rispetto ad alternative estremamente terribili – per esempio una vita sotto tortura – ma se entrare nella macchina costituisca la migliore vita possibile, o una delle migliori, in quanto tutto ciò che conta nella vita è solo come ci si sente dall’interno ».
Robert Nozick, The Examined Life (New York: Touchstone, 1989), p.105.
Nozick non sta dicendo che non dovremmo mai entrare nella macchina, nemmeno temporaneamente. Al contrario, essa potrebbe essere molto utile in molti casi. Tuttavia, raramente giudicheremmo una vita passata dentro quella macchina (con tutto il piacere che ne consegue) come preferibile a una vita vissuta fuori di essa.
Ma, allora, cos’è che rende una vita una buona vita, o una vita felice? La domanda è ancora una domanda sul valore: cos’è importante? Molte risposte sono state date nella storia, e nessuna di esse è stata finora accettata come definitiva. Una delle risposte più popolari, se escludiamo visioni religiose e idealistiche, è che ciò che conta è il piacere: una vita con più piacere è semplicemente più felice di una con meno piacere. Tuttavia, Nozick con il suo esperimento mentale e Kan Gao con il senso di amarezza lasciato dal suo gioco ci mostrano che forse la storia non è così semplice: c’è qualcos’altro che dà valore alla vita oltre al piacere soggettivamente percepito. Non vogliamo semplicemente la felicità intesa come stato mentale, ma vogliamo una vita completa, con le sue esperienze e le sue relazioni, la sua comprensione del mondo e il suo contatto con la realtà.
Non siamo semplicemente dei secchi vuoti che devono essere riempiti di felicità o di piacere. Ciò che importa è soprattutto la nostra vita, il nostro Sé, il modo in cui esso si trasforma. Non a caso, in To The Moon è solo ripercorrendo i cambiamenti che avvengono nella vita di Johnny, e quindi gli eventi che lo hanno reso quello che è, che possiamo migliorare i suoi ricordi.
Tuttavia, nel caso di To The Moon il processo di ri-creazione del Sé è portato avanti con un’idea generale di come questo debba essere alla fine: noi sappiamo che per rendere felice Johnny dobbiamo fargli credere di essere stato sulla Luna. Tuttavia, non è così che agiamo realmente nella nostra vita: non abbiamo quasi mai un’idea chiara e distinta di cosa vogliamo davvero, e, in ogni caso, non c’è nessuno che abbia il compito di realizzare il nostro sogno. Parte del senso di amarezza che proviamo alla fine del gioco deriva proprio dal fatto che nonostante Johnny muoia felice nella convinzione di aver effettivamente realizzato il suo desiderio, anche ammettendo che la sua realtà soggettiva sia l’unica che conta per lui, noi sappiamo che in realtà Johnny non ha realmente realizzato il suo desiderio. Ma non tanto perché esso sia stato esaudito solamente nella sua testa, quanto perché non è stato lui a realizzarlo: siamo stati noi. Nel rendere più piacevole la morte di Johnny, noi gli abbiamo sottratto autonomia.
Non mi interessa entrare nella questione assai poco rilevante del libero arbitrio: che ci crediamo o meno, compiamo scelte ogni giorno. Qui il problema è un problema di autonomia: agendo come gli angeli custodi di Johnny, noi gli sottraiamo la libertà di decidere da sé che cosa è importante e cosa no. Decidiamo noi cosa è importante per lui, su cosa concentrarsi, e a cosa dare valore. Ma la possibilità di scegliere su cosa concentrare la nostra attenzione è una componente importante della nostra autonomia. In generale, noi abbiamo bisogno di poter cambiare il focus della nostra attenzione, avanti e indietro, dal generale al particolare, da ciò che va a ciò che non va, dal breve al lungo termine. Ciò che siamo dipende in larga parte da ciò a cui abbiamo dato e diamo importanza. Per questo è importante, per quanto possibile, avere il controllo della nostra attenzione e focalizzarla su ciò che realmente riteniamo importante. Se affidiamo a qualcun altro – il genio maligno, Eva e Neil, o la macchina dell’esperienza – la decisione di cosa è importante per noi, stiamo rinunciando alla nostra unica possibilità di dare forma alla nostra vita. Ciò che Nozick mostra con il suo esperimento mentale è che questa vita non può essere felice se l’unica cosa che contiene è la felicità come stato di piacere.
Una vita non può semplicemente essere felice senza che al suo interno ci sia altro di valore. La felicità va a braccetto con altre cose che sono correttamente valutate positivamente. Senza di queste, la felicità non avrebbe nemmeno inizio.
Nozick, The Examined Life, p.113.
Vogliamo una vita felice nel senso in cui vogliamo una vita rispetto alla quale la felicità sia una risposta appropriata. Vogliamo una vita che sia bella da guardare. Ciò che, con Nozick e con Kan Gao voglio sostenere, è che la felicità non è una risposta appropriata a una vita vissuta nell’illusione. La realtà ha, di per sé, valore: una vita vissuta non nell’accettazione ma nel rifiuto della realtà, una vita da hikikomori o da Madame Bovary, in cui si preferisce il mondo ideale della fantasia a quello reale della realtà, è una vita che raramente considereremmo felice.
Postilla: To The Moon ed eutanasia
Finora, ho tralasciato una questione non del tutto irrilevante. Mentre la macchina dell’esperienza di Nozick è pensata come un’alternativa alla vita reale, il macchinario usato in To The Moon non è che una potentissima macchina per il lavaggio del cervello che viene usata alla fine della vita del paziente. Dunque, sebbene condivido con Nozick la non desiderabilità di una vita nella sua macchina dell’esperienza, capisco però la scelta di Johnny di utilizzare il macchinario della Sigmund per alleviare i suoi ultimi istanti. La felicità non è tutto ciò che conta perché una vita sia una buona vita, ma magari il ricordo di una vita felice è una cosa molto importante per rendere la morte una buona morte.