Un senso di aderenza quasi strappata dall’asfalto che tira. Dosare senza scivolare, derapare, controsterzare, raddrizzare, lasciare andare, dare gas come fosse un telegrafo.
Correre su di una superficie bidimensionale apparendo immobili mentre è lei che corre sotto, mentre la controlli come lo scratch di un dj, evitando tubi verdi o talpe che saltano fuori dal terreno; evitando di toccare il fuori pista, evitando bucce di banana, gusci, funghi. Sfrecciando sopra punti interrogativi.
E ti capita che stai facendo del blando time trial, nello scazzo di un pomeriggio che decadi dopo sarà l’Elisio, e mentre cerchi una traiettoria nuova cozzi contro un tubo e allora il giro è perso e per non sapere che fare magari vai dritto, a rimbalzare contro i respingenti arcobaleno che confinano la pista. Là, oltre: le collinette sinuose dove hai già saltellato per un’altra avventura. Quel mondo esiste. Puoi spegnere il motore, lasciare lì il go-kart, camminare sulla pista, che adesso è immobile mentre prima ti vorticava sotto le ruote quando tu tendevi le traiettorie come la corda di un arco.
Hai limato i tuoi record, hai giocato a nascondino nelle arene, grazie allo split screen sempre presente. Hai lottato con Bowser, con Donkey Kong, con Yoshi, hai inveito contro la flemma di Lakita Inu nel risollevarti dall’abisso delle ghost house. Sei stato al gioco.
Ma nei tuoi time trial sei lì, da solo, in un pomeriggio assolato degli anni ’90 come tutti gli altri ed è la stessa vita di adesso, si è solo dilungata.
Per un attimo ti è sembrato di vederti, attraverso tutti questi anni, laggiù, sepolto sulla collina che sorride. Eri tu?
Adesso è ora di uscire e potresti benissimo esserti sbagliato, forse era un riflesso sullo schermo. Infili le scarpe e prendi il pallone. Lo senti, ma non lo puoi sapere, che di questa quotidianità beata saranno solo ricordi contraffatti. Una scatola, un libretto di istruzioni e della plastica che ora ingombrano saranno feticci. Ciascuno si muove sempre in un habitat di futuri feticci ma tu sei troppo giovane per pensarci e butterai via tutto.
Esci. Non ti sei accorto che c’è uno spettro che ti somiglia nella tua camera, che si sforza di guardarti e che rimane lì dopo che te ne sei scappato ai giardini. Nella penombra rarefatta lo spettro cerca anch’egli il suo sepolcro, tra le cose che ti ha fatto buttare. Il sole che sfila tra le aste della tapparella, vecchi mobili, suoni e persino voci. Ci sono già stato. Infinite volte sono stato qui e infinitamente vi tornerò. Tu sei uscito, ora stai correndo al sole.
Lo spettro si china al tuo posto, risale sul go-kart e riprende la pista. Qualche curva per rinfrescare una memoria che si fa subito vivida, qualche giro per ritrovare le malizie, le traiettorie. Nel rinsaldarsi di un pattern, di un imprinting, quasi si fa materia, quasi potesse uscire da quella stanza, toccare e aprire la porta che tu hai appena chiuso, rivedere i volti così come erano, parlare e dire parole nuove in circostanze vecchie.
Niente di tutto questo, naturalmente lo spettro non può impugnare il pad, che gli passa tra le dita, sta correndo con gli occhi chiusi e non lo troverai quando rincaserai per finire i compiti.
(revisione di un post pubblicato nel 2013 sulla prima Silicon Arcadia)