Gli art games stanno ai videogames così come l’arte contemporanea sta all’arte classica: sono i “freaks” del gruppo, spesso bistrattati per la loro mancanza di caratteristiche ritenute fondamentali (gameplay poco curato, durata spesso sotto le 2 ore, trame nascoste dietro simbolismi estremi). Sono quindi videogiochi creati con l’idea di essere prodotti artistici, e spesso sono completamente slegati dall’idea di industria o anche solo di guadagno.
Solitamente quando si parla di art games si parla di Journey, ma qui voglio mettere in luce un gioco diverso: parliamo di un’esperienza che dura 10 minuti circa, in prima persona, praticamente privo di texture, con soli 6 obiettivi (missioni), e gratuito.
Nota bene: se lo avete giocato e vi interessa solo un commento alle idee del gioco, potete direttamente saltare al paragrafo finale “the end”, in cui racconto le mie idee sul gioco. La prossima parte sarà un racconto dell’esperienza di gioco e di come l’ho vissuta. Se non lo avete giocato, questo intero racconto è uno spoiler. Se potete giocatelo, è gratis e dura massimo 20 minuti, lo trovate su Steam qui.
“Today will be a better day”
the static speaks my name, gioco “horror” del 2015, inizia in un vuoto cosmico. Mi ritrovo davanti a una sfera gassosa (un po’ alla Lynch), e interagendoci posso leggere un nome (Jacob Ernholtz), un’età (31 anni), e una causa di morte (asfissia tramite impiccagione). Prima ancora di iniziare sappiamo che la storia del nostro protagonista non potrà finire che in un modo: suicidio.
Objective 1: use the bathroom
Mi risveglio alle 3:22 del mattino, vedo un poster appeso al soffitto che tenta di rassicurarmi (“today will be a better day”), e subito il gioco mi fornisce il primo obiettivo: usare il bagno. Fin da subito capisco quindi che il gioco mi darà delle “missioni” per progredire, e di questo non mi lamento: a volte i giochi che vogliono puntare tutto sul lato artistico oscurano di proposito i propri obiettivi, e qui mi trovo davanti a una piacevole eccezione.
Mentre mi avvio verso il gabinetto, dò un’occhiata alla camera da letto: un acquario con dei gamberi, libri che sembrano interessanti ma che probabilmente non sono mai stati aperti, e poco altro. Provo ad aprire le porte per uscire ma, come ci si aspetta, ancora non si può: nei videogiochi bisogna rispettare gli obiettivi, altrimenti non si va avanti.
Allora mi muovo verso il bagno: mi svuoto e, subito, mi viene comunicato un secondo obiettivo.
Objective 2: eat breakfast
Adesso le porte sono tutte aperte, e mi invitano ad esplorare la casa. Supero un dipinto di due palme speculari e noto subito qualcosa di strano: le finestre sono tutte sbarrate e non posso uscire dalla porta principale.
Allora osservo la casa, e oltre a quattro televisori sintonizzati su dello statico, la cosa che mi cattura è una stanza, in cui Jacob (il protagonista) ha appeso copie e copie del dipinto con le due palme, alcune con il contrasto aumentato, altre in bianco e nero, capovolte, tagliate, ripiegate o ingrandite. Ha analizzato queste immagini in ogni minimo dettaglio, trovando riferimenti biblici e simbolismi anche nelle foglie degli arbusti. Questo è sicuramente l’indizio di qualcosa di più grande.
Devo però fare colazione, allora apro il frigorifero… ed è vuoto.
“ancora vuoto… vada ancora per i gamberi”
Cosa? Vado allora a controllare l’acquario, e li confermo i miei sospetti: un prompt (comando) ci invita a mangiare i gamberi, prendendoli dall’acquario e mangiandoli vivi (il tutto privo di animazioni). Se per l’obiettivo è richiesto questo posso farlo - non senza una certa dose di disgusto.
Objective 3: chat online with friends
Con la pancia piena, raggiungo il terzo obiettivo: chattare con degli amici. Nella barra laterale del pc gli amici di Jacob (tre in tutto) sono offline, ma poco prima di perdere le speranze arriva un messaggio, al quale posso rispondere scegliendo tra due opzioni. La chat, come si capisce rapidamente, è probabilmente di una camgirl, ma provo lo stesso a fare una conversazione… anche perché non posso fare altro, non essendoci un comando per alzarmi dalla sedia.
Non si riesce però. Se scelgo un’opzione (e le due scelte sono, a livello emotivo, “deprimente” è “più deprimente”), il personaggio non fa altro che scrivere “nevermind”, o interrompe le frasi che voleva scrivere a metà, negando effettivamente il mio input. Alla fine arriva il prompt che ci permette di alzarci dalla sedia, completando il nostro terzo obiettivo e facendo apparire il quarto.
Objective 4: clean the microwave
Ok allora, andiamo a pulire il microonde. Questo sarà forse il momento in cui succederà qualcosa, forse qualche messaggio strano, qualche segnale… Invece niente. Prendiamo un pezzo di carta assorbente, e puliamo il microonde.
Objective 5: decide what to do with the man in the cage
ADESSO CI SIAMO! Perché c’è un uomo in una gabbia? E sopratutto, dov’è? Sarà probabilmente un puzzle ambientale difficilissimo da risolvere, perché io qui non vedo nessuna gabbia. Mi torna in mente: c’erano dei fogli nella stanza piena di dipinti! L’indizio che ci trovo scritto non fa parte di un enigma: in due clic arrivo infatti ad un corridoio dietro una libreria (neanche nascosta), fin troppo semplice. Raggiungo quindi la fine del corridoio, e apro la porta.
Trovo così l’uomo nella gabbia, circondato da altri dipinti delle due palme, alcuni sicuramente fatti da Jacob. Questo è un momento particolare: mi rendo conto che sono stato io, cioè il protagonista, ad aver rinchiuso quest’uomo. Posso aprire la gabbia però! Aspetta… se questa fosse la fine? Meglio dare un’occhiata alla casa prima.
Niente è diverso, ma noto un ritaglio di giornale che parla di un’artista scomparso. Che sia la persona che abbiamo nella cella? Certo, ecco il mistero! Il protagonista, probabilmente schizofrenico o paranoico, ha rapito l’artista per capire il significato del quadro sul quale si era tanto fissato!
Finendo il nostro giro per la casa, troviamo un pannello elettrico, da cui possiamo scegliere se folgorare l’artista al posto di aprire la gabbia, una scelta ininfluente dal punto di vista della trama ma che io ho vissuto in maniera piuttosto intensa.
Final objective: return to your room e let your body rest
In entrambi i casi (la liberazione o la folgorazione dell’artista), si arriva all’ultimo obiettivo. Torno quindi nella camera da letto, e noto l’unica porta che è rimasta chiusa per tutto il tempo. Finalmente si apre e ho la conferma dell’informazione iniziale: un cappio ci aspetta, ed è l’unica cosa che ormai possiamo fare. Mi arrendo come giocatore e accetto il destino già scritto del nostro personaggio.
the end?
Il gioco è finito, e finalmente il cervello si mette in moto: ma qual era il messaggio? Possibile che fosse solo la storia di un pazzo e i suoi ultimi momenti di vita?
Si, e no. Il pregio di the static speaks my name sono le sue molteplici interpretazioni. C’è chi pensa che sia un’enorme metafora della depressione e dell’iper-fissazione a cui a volte si fa ricorso per evitare di pensare, chi invece pensa che i quadri nascondano veramente qualcosa, chi lo vede come la narrazione degli ultimi deliri di un pazzo.
È però un’altra l’idea che in me si è fatta strada quando lo giocai per la prima volta: possibile che l’autore del gioco abbia voluto fare un parallelo tra il personaggio e il giocatore? Se il personaggio si fissa su di un dipinto, fino ad arrivare ad analizzarne le minime parti, non è quello che facciamo anche noi mentre giochiamo?
La ricerca di un significato alla pazzia del protagonista, il completare obiettivi inutili e poco importanti solo perché ci aspettiamo che il prossimo sarà quello buono, che l’obiettivo successivo ci darà finalmente delle risposte. Questo effettivamente avviene, ma non fa altro che lasciarci con una sensazione di vuoto, perché gli obiettivi non erano altro che una lista di cose da fare di una persona poco prima del suo suicidio.
Il gioco ci induce ad essere psicotici tanto quanto lo è Jacob, e diventiamo ossessivi e maniacali nei confronti del gioco stesso, tanto quanto lui lo è nei confronti del dipinto.
Ed è vero, l’esperienza è probabilmente anche un modo di entrare nella mente di una persona depressa: la mancanza di un significato che cerchiamo di ridare a oggetti di poco conto, l’ambiente oppressivo e privo di ogni gioia per gli occhi, la chiusura della casa che riflette una chiusura personale, sono tutti simboli e concetti che ben si sposano con l’idea di depressione.
Ma il concetto principale, a mio parere, rimane l’idea dell’ossessione, e di come sia facile caderne prede se il nostro cervello è stimolato abbastanza. Jacob vede qualcosa nei dipinti che a prima vista è invisibile: trova per esempio la firma dell’autore usando un filtro infrarosso sul disegno, e questo lo spinge ad andare avanti, in uno sforzo continuo di trovare dei pattern, perché se la firma era nascosta, chissà cos’altro potrebbe esserlo. Vede quindi nella foglia morta della palma un riferimento biblico, essendo la settima; il cielo sembra morto, e il dipinto sicuramente vuole dirci qualcosa riguardo questo; le palme sono speculari, e questo non può essere altro che un concetto che si riferisce alla struttura del mondo. Tutto questo lo porta quindi a rapire l’autore del dipinto, così da poter chiedere a lui il significato. Non sappiamo quali domande Jacob abbia fatto al pittore: sappiamo solo che la sua curiosità non è sazia, è anzi lui adesso che cerca di riprodurre il quadro, diventando, tramite il dipinto, la persona più importante del mondo, l’unico che ne può svelare i segreti (la mancanza di contesto riporta un po’ alla mente i Sekaikei).
Questo concetto viene riflettuto sul giocatore: la stranezza che pervade il gioco non fa altro che spingere il nostro cervello, condizionato ormai a vedere oltre la stranezza, a credere che ci sia qualcosa dietro, un complotto, un’amnesia forse, magari violenze se non la fine del mondo. La parte più interessante del gioco è prima del finale: quando non sappiamo ancora niente, noi diventiamo come Jacob, cerchiamo di teorizzare chissà quale avvenimento. Vediamo un ritaglio di giornale, e pensiamo a cosa potrebbe essere collegato, i quadri diventano indizi, i televisori con lo statico anche, e pensiamo che qualcosa si possa nascondere anche dietro alla pulizia del microonde. Solo alla fine si capisce che stavamo interpretando noi stessi la parte dei pazzi, che c’era poco dietro a quello che pensavamo. Oppure potremmo esser contenti così: il mistero dell’artista viene svelato, ma non completamente, e rimaniamo felici di poter riempire noi dei buchi che l’autore del gioco ha lasciato.
L’opera si presta anche per una piccola analisi: sono molto critico di questi videogiochi, soprattutto quando toccano temi come la depressione. È fin troppo facile farsi dare complimenti e buone recensioni solo perché si toccano dei temi tristi o importanti come le malattie mentali, e questo contribuisce ad un ambiente nel quale molti di questi cosiddetti art games (ma non solo loro) non fanno altro che prendere questi concetti, buttarli in una storia ricoperta di simbologie astruse, e chiuderla li. Non basta, e static dimostra che si può costruire un’esperienza importante in soli 10 minuti, a patto di saper scrivere.
C’è bisogno di saper raccontare le cose in maniera appropriata, e non sbatterle in faccia al giocatore giusto per includere questi termine nelle opere, o visto che si paura che non vengano capite le si svuota delle loro complicazioni tanto da renderle inutili imitazioni. L’avere un tema e renderlo complesso (ma non complicato) e un po’ velato, nascosto, è quello che spesso rendere una storia degna di essere vissuta. Questo succede perché una delle bellezze dell’arte è anche interpretarla, e senza veli questo diventa impossibile. Tutto sarebbe facile, le sottigliezze e i non detti verrebbero persi e i simboli di cui ci piace tanto parlare diventerebbero vuoti.
Come ho detto, le interpretazioni di questo gioco sono molte, come molte sono le idee dietro alla sua creazione e al suo design. Il racconto minimalistico, la mancanza di texture, l’illuminazione e la musica sono tutte cose funzionali alla narrazione. L’idea di tenere il gioco all’interno di un solo ambiente aiuta il concetto di claustrofobia e tristezza.
Queste sono opere importanti: ci dimostrano che nessun preconcetto che abbiamo rispetto ad una determinata forma d’arte è assoluto, un’opera di 10 minuti ci può dire molto di più di 20 ore in un open world quasi infinito.
the static speaks my name
Questo gioco è stato per me un’opera fondamentale: mi ha fatto rendere conto che il videogioco è più di un continuo conflitto, o un gameplay emozionante, o meta-narrazioni. Il videogioco è interazione, il poter vivere storie completamente diverse da quello che potremmo mai sognarci.
Mi ha toccato in un momento in cui la mia vita era simile a quella di Jacob, in cui quella casa era anche casa mia, e l’atto di mangiare gamberetti vivi da un’acquario non era un qualcosa di troppo assurdo, in alcuni momenti. Ai tempi lo statico diceva il mio di nome (perdonate la frase molto cheesy).
Vivere quest’esperienza in un momento così buio della mia vita mi ha aiutato ad estraniarmi da quest’ultima: mi ha fatto rendere conto quante altre persone fossero nello stesso momento nella mia stessa situazione, quanto non fossi solo. Il vivere un’esperienza deprimente dal punto di vista di un terzo, mi ha spinto a chiedere aiuto, a capire che arrivare a quel momento non è cosa sana.
L’enorme pregio di the static speaks my name è l’essere riuscito ad astrarre abbastanza una situazione per permettere a chiunque di goderne, senza renderla però troppo sui generis, magari fallendo nel raccontare quello che aveva da raccontare.
La situazione è ovviamente estrema, ma l’architettura che c’è intorno, il modo con cui tenta di raccontare una situazione che così tante storie fanno fatica a narrare e che così molte persone vivono nella vita di tutti i giorni, lo rende per me un’opera insostituibile.