The Witcher 3: Wild Hunt, riflessioni di un ritardatario
Un bilancio fuori tempo massimo, riflessioni sul fantasy open world e speranze per il genere
Sarà strano trovarsi in questi anni a disquisire sulla validità di The Witcher 3, ma chi scrive lo ha recuperato solo durante il lockdown del 2020. Non sono affatto pentito di aver aspettato: negli anni della sua uscita, questo titolo era venerato, menzionato ovunque. Sviluppo sempre una forte “allergia” a ciò che è in voga e mi compare insistentemente davanti; o sono già a bordo di quella nave, e allora do il benvenuto ai nuovi arrivati al meglio delle mie possibilità, oppure rifuggo dall’ondata di successo e rimando a quando potrò godermi le cose in santa pace. Inoltre, in quei 3 mesi di clausura, chi conosce questo gioco può immaginare fin troppo bene quale sollazzo possa aver portato girovagare in ambienti così ampi, seppur virtuali.
“Va bene, ma se ti rendi conto di essere l’ultimo arrivato che cosa ci vuoi dire su The Witcher 3 che non sia ancora stato detto?”
Vorrei andare un po’ oltre il classico “è meglio” ripercorrendo prima i suoi incredibili pregi, quello in cui riesce, per passare poi a individuare quelli che trovo essere invece problemi sostanziali. In questo modo intendo smitizzarlo (pur avendolo amato e amandolo come pochi altri titoli), ridare al gioco una dimensione più “puramente tecnica” possibile, ripulita dall’adorazione che non permette di guardarlo lucidamente, e capire in buona sostanza che cosa dovrebbe essere un open world. Non sarò breve, non farò spoiler.
Setting, feeling, mood e altre parole inglesi
Si intende per “setting” l’ambientazione in generale, lo sfondo, il contesto. Nel caso di The Witcher 3, abbiamo un setting di stampo medievale europeo fantasy (probabilmente il più in voga nel genere fantasy fin dai tempi di J.R.R. Tolkien). Se da un lato abbiamo tutti gli elementi più tipici di questo tipo di scenario, dall’altro possiamo notare alcune differenze nelle atmosfere e nel look di ambienti e creature. Il materiale originale di questa saga proviene dalla Polonia e il folklore di quel paese ne ha fortemente influenzato i contenuti e il mood. In questo, The Witcher 3 trova grande ricchezza: è cupo senza perdere in colore e varietà, è sporco e gretto senza ridurre la dimensione eroica delle imprese, il clima unico delle diverse mappe è quasi avvertibile, dall’umidità delle paludi agli odori di Novigrad. Questo punto zoppica quando si passa a Skellige, che è poco più di uno scimmiottamento 1:1 dello stile vichingo degli stereotipi e che reputo per distacco la parte meno interessante e memorabile dell’avventura.
La cosa curiosa, in tal senso, è che questa differenza di atmosfere rispetto al normale fantasy medievale è più avvertibile nei videogiochi del franchise di quanto non sia nei libri: questo può voler dire o che CD Project Red ha reso quell’ambientazione meglio dell’autore, Sapkowski (possibile, stiamo parlando di un autore che ha avuto varie idee originali ed efficaci ma non certo della stella polare della narrativa), oppure - e propendo per questo - che nei videogiochi vedere ambientazioni davvero curate e dettagliate nei punti importanti è molto più raro che nella narrativa letteraria, quindi che lo standard qualitativo degli autori di videogiochi sia, nonostante i progressi, mediamente ancora molto più basso di quello degli autori di libri (o film). Per questo, ritengo, molti titoli che sono solo “ben fatti” risaltano spesso con così tanta evidenza da creare un vero e proprio culto attorno a chi li ha sviluppati. In merito a questo potrebbero esser fatti molti nomi anche fra chi non arriva neppure al livello del “ben fatto” ma che riesce a godere comunque dell’onda generata dall’emotività dei fan.
Le creature mostruose di The Witcher 3 contribuiscono a loro volta a sostenere la credibilità del mosaico, non sono così varie, ma paradossalmente questo aiuta. In primo luogo, gli abitanti di quel mondo hanno un’idea almeno indicativa dei tipi di creatura (almeno quando si parla di quelle più comuni) e la differenza sta solo nel fatto che un witcher le conosce come un biologo conoscerebbe gli animali del mondo reale; c’è quindi una percezione molto forte della differenza fra voce di corridoio, leggenda del folklore e “parere dello specialista”. In secondo luogo, Geralt nello svolgere il suo lavoro riconosce i mostri responsabili delle uccisioni o dei disastri grazie a tracce, ferite inferte, territorio, cose che accadono nei dintorni del fattaccio e altri elementi investigativi di questo genere. Anche se la meccanica dei sensi da witcher annulla di fatto la difficoltà in questo senso (problema da risolvere nei titoli futuri, a mio parere), è possibile per il giocatore riconoscere da solo quei segni e capire di quale creatura andrà a caccia ancor prima che le linee di dialogo glielo abbiano confermato (a dire il vero, sarebbe ottimale poter fare del tutto a meno di quella conferma e sarebbe ancor più gratificante). Il fatto che i mostri siano “tanti ma non troppi” consente a chi tiene in mano il joypad di avere una panoramica chiara in tempi brevi e di sentirsi “un po’ witcher” relativamente presto. Potrebbe capitare di incontrare dei ghoul, necrofagi che si spostano in branchi, ben noti agli abitanti di territori in guerra colmi di fosse comuni; fra di loro potrebbero esserci i più pericolosi alghoul, molto simili a prima vista, ma un witcher esperto sa distinguerli… e anche un giocatore medio. Distinguere le creature non è qualcosa che accade solo in The Witcher 3 ma, essendo in questo caso il “lavoro a tempo indeterminato” del nostro avatar e dovendolo fare nel corso di ricerche montate su misura, è molto soddisfacente saperlo fare e adottare le contromisure più adeguate. Far sentire il giocatore pronto a ogni situazione ancor prima di conoscerne i dettagli è un ottimo punto a favore del titolo.
Anche nel gameplay abbiamo forti elementi di credibilità. Le strategie sono molto ben bilanciate: anche se quelle più indicate contro un dato mostro sono molto più efficaci, non usarle non pregiudica di per sé il successo e ce ne sono comunque altre di valide. Se un nemico è noto per essere vulnerabile alla cecità, non sarò comunque costretto ad accecarlo per contrastarlo e anzi, avrò comunque buoni risultati usando il cervello, guardando come si muove per affrontarlo nel punto più vantaggioso o accontentandomi di usare tattiche generiche e quasi sempre efficaci. Il potere di controllo mentale di Geralt, il segno Axii, non è relegato a pochissime occasioni prestabilite come spesso accade nei videogiochi ma può essere usato praticamente in ogni dialogo delicato e funziona su quasi chiunque senza minare il livello della sfida.
La trama, niente di eclatante ma fila
La storia di The Witcher 3 non ha niente di originale. L’eroe in cerca della predestinata della profezia per salvare il mondo dall’apocalisse, il tutto condito da un temuto gruppo di potenti villain che vogliono usare lo stesso potere per i loro obiettivi e, perché no, un po’ di romance. Esiste una storia più inflazionata? Probabilmente no, infatti c’è ben poco da dire in proposito. Ma chi ha scritto The Witcher 3 lo sa. È dunque un pregio solo perché gli autori sono consapevoli di star offrendo una trama scontata? No, rimane una mancanza, tuttavia una trama scontata non è necessariamente brutta per il solo fatto di seguire tropi narrativi molto comuni o perfino cliché e anzi, se l’autore non è in grado di gestire una struttura complessa, si ottengono risultati ben migliori nel proporre qualcosa di già visto e collaudato impiegando piuttosto le energie nel perfezionare gli aspetti centrali dell’esperienza. Se vogliamo, è uno slancio di umiltà (o forse un’astuta pigrizia) che in questo caso ha pagato.
Menzione d’onore per:
la Caccia Selvaggia, che ai profani della lore riserva notevoli sorprese nel corso del gioco pur rimanendo stabilmente “il gruppo di cattivoni”;
i due DLC che, per quanto mi riguarda, con la loro struttura estremamente tradizionale mista a pochi ma ben collocati elementi originali e il loro ispirarsi a specifici tipi di storia classica, avrei ritenuto ottimi titoli fantasy anche se fossero usciti come giochi a sé stanti.
I personaggi, il carattere e la naturalezza
Come per la trama, The Witcher 3 non propone personaggi sopra le righe ma tutti sono ben integrati all’interno dell’ambientazione e del loro ruolo. Sentendo parlare i personaggi appare da subito chiaro quale sia il loro carattere, il che è utile sia per dipingerli in modo efficace e renderli riconoscibili sia per giocare con la contrapposizione fra “caratterizzazione”, cioé come appaiono, e “personaggio”, cioé come sono (cfr. McKee). Geralt è uno dei pochi protagonisti che non mi siano rimasti antipatici a pelle, è un tipo che “sa il fatto suo, in gamba”, sagace e tagliente ma prudente, quello che ti aspetti da un avventuriero navigato e che, nonostante la durezza, segue una morale condivisibile. Giocare nei panni di Geralt è comodo, è un ottimo personaggio. I personaggi femminili, pur soffrendo ancora di un’eccessiva sessualizzazione, hanno un carattere forte e specifico, coerente con la propria storia. Finché parliamo di protagonisti o villain principali, però, questa saga non è certo la sola a offrire personaggi sfaccettati. L’elemento di cura che spesso manca altrove sta nei personaggi minori e non parlo dei secondari ma proprio di chi si incontra appena una volta o due durante una quest facoltativa. Vocabolario, toni, atteggiamento e perfino temi che il personaggio contempla o non contempla nella sua visione dicono tutto sulla sua estrazione sociale e sulla sua prospettiva di vita.
Vale la pena tornare sulla questione degli standard qualitativi per fare un inciso: in qualsiasi opera (di qualsiasi medium) con dialoghi di qualità le cose funzionano in questo modo e The Witcher 3 brilla più per carenza di concorrenti che per un rappresentare di per sé chissà quale vetta, ma è ben fatto, funziona e questo aspetto contribuisce non poco alla resa dei vari contesti, dal palazzo reale al villaggio di pescatori.
Le side-quest
È molto comune, parlando di questo genere videoludico, sentir lodare l’estensione della mappa. È evidente che questo sia un importante elemento per un titolo che punta a far spaziare il giocatore in ambientazioni suggestive, ma la sola estensione è cartapesta senza qualcosa che la riempia e questo è un grande problema per gli aspiranti sviluppatori di open world: ormai la tecnologia consente di realizzare mappe davvero enormi, ma avere abbastanza idee da metterci dentro è tutt’altro che banale.
Non ho incontrato nessun altro RPG con side-quest così diverse fra loro sul piano narrativo. Ovunque nel Continente ci si imbatta in una piccola storia, è estesa quanto basta per farla percepire come “la vita di qualcuno” e racconta quasi sempre qualcosa di diverso. In The Witcher 3, non è semplice trovare due missioni delle quali dire “sono simili”. Spesso, le storyline secondarie sono perfino meglio scritte rispetto alla trama principale (ok, non la sfida più ardua, ma è comunque notevole quando questo accade per centinaia di piccole storie). Le si scopre quasi per caso, esplorando mappe gigantesche e aperte, per finire in una catena di eventi legati a personaggi ininfluenti sul grande schema delle cose ma comunque interessanti. Questo dà un contributo molto concreto alla varietà e alla credibilità del mondo.
L’impressione che si ha giocando è, grazie alle side-quest, quella di una terra abitata da persone “reali” con le loro questioni a cui badare anziché, come accade non di rado negli open world, da personaggi piatti con una curiosa necessità di avere 10x [inserire oggetto droppato] tanto per allungare il brodo.
La mappa, la bellezza del camminare per il Continente
Avendolo appena sfiorato arrivo al punto che, a mio parere, è la vera differenza fra The Witcher 3 e i suoi “fratelli e cugini” dello stesso genere.
Mi è capitato, giocando a The Witcher 3, di ripensare a un altro celebre fantasy open world che personalmente ho amato e che ritengo il secondo classificato nella categoria, ovvero Dragon Age: Inquisition. Quel gioco mi era molto piaciuto e mi piace tuttora: la trama è ben costruita (piena di indizi sparsi che a una seconda run risaltano perché si sa già a che cosa porteranno poi) e sviluppa con spunti davvero interessanti la densa e ricca lore del Thedas. I personaggi sono vari e ben scritti, approfondire la relazione con loro è sempre interessante e gli scenari sono tutto quello che un appassionato di fantasy possa chiedere. Ho perfino gradito il gameplay, che molti hanno criticato ma che io, molto poco amante dei sistemi “vecchio stile” alla Baldur’s Gate, ho trovato assai più fluido e meno “di disturbo” nel godermi il titolo.
Tuttavia, c’era qualcosa in quel titolo che mi lasciava perplesso e ho capito davvero che cosa fosse quando ho giocato The Witcher 3: le mappe di DA:Inquisition, per quanto ampie e ricche di bivi, sono spesso e visibilmente delle “grosse sacche” con all’interno dei percorsi definiti. Barriere “naturali” invalicabili limitano il movimento in modi che in genere passano inosservati ma che, dopo ore di gioco, magari in una seconda run, quando si vorrebbe spaziare di più, si fanno sentire. Solo dopo The Witcher 3 ho notato – a livelli che ormai risultano lesivi della mia esperienza di gioco – che DA:Inquisition offre quasi solo panorami con visuale bloccata da montagne o foreste poste a dividere le aree o a “recintare” le mappe. CD Project Red non ha avuto chissà quale colpo di genio, semplicemente ha scelto di consentire il viaggio rapido quando si sconfina dalla mappa - proprio come dai punti adibiti a quella meccanica - potendo così evitare di mettere un muro fisico sui bordi e regalando grandi panorami aperti. Nulla di arduo, ma meno comune di quanto dovrebbe essere.
Non è però solo questione di confini della mappa: fatta eccezione per alcune montagne particolarmente ostiche da scalare, le regioni del Continente di The Witcher 3 sono completamente aperte anche al loro interno “proprio come sarebbero nella realtà”. Spesso si può vedere la parte opposta dell’area di gioco grazie a torri, alberi, rocce che costituiscono un punto di riferimento e ci si può spostare anche solo guardandosi attorno e senza aprire la mappa, salendo sui punti sopraelevati e guardando il sole per capire dove andare: ho fatto questo test alla seconda run vivendo un’esperienza non del tutto funzionale – del resto il gioco prevede l’uso della mappa – ma comunque molto bella e assai sfidante (mi ha ricordato vagamente la boss fight contro The End in Metal Gear Solid 3: Snake Eater, ma estesa su tutto un gioco e su mappe enormi). Qualcosa che manca e che sarebbe non poco migliorativo di questa specifica esperienza è la possibilità di arrampicarsi per avere più spesso un’ampia visuale (dovrebbe, insomma, “fare un po’ più Zelda” - semi-cit.), mi auguro che si faccia questa scelta nei prossimi titoli, anche se richiede un lavoro sui geodata che non sempre sembra alla portata di questa software house.
In un mondo disegnato in questo modo, contrariamente a quanto accade in DA:Inquisition, fatto di avvallamenti chiusi fra monti inspiegabilmente alti e collegati da opportuni e limitati sentieri, si ha la sensazione di trovarsi in un luogo che era già lì, che è vissuto indipendentemente dalla nostra presenza come fruitori di un videogioco e nel quale poi ci addentriamo per scoprirne i segreti, non in uno disegnato attorno al nostro personaggio sulla base delle fasi di gioco e delle sfide da affrontare.
The Witcher 3 offre un mondo estremamente realistico, vivibile e godibile nonostante sia “molto fantasy” e molto ostile. Si riesce a rimanere sorpresi e incuriositi da ciò che scoviamo senza mai pensare “non ha senso che si trovi qui”. Per un giocatore come il sottoscritto, che trae dall’esplorare e dallo scoprire il principale appagamento videoludico (si potrebbe dire che io sia un tipico esempio di “explorer” secondo la tassonomia di Bartle), riuscire a fare una cosa simile a questi livelli significa conquistarmi completamente.
Rose e fiori, ma in mezzo a un roveto spesso ignorato
È il momento di parlare anche di quello che non mi ha convinto di questo gioco spesso definito insuperabile, cosa che non ritengo affatto sia, dei suoi problemi e dei margini di miglioramento per il genere “fantasy open world”.
Prima di tutto, anche se The Witcher 3 offre un rapporto varietà/estensione decisamente notevole, non lo fa sempre. Trattandosi di un gioco che richiede così tante ore per essere esperito a fondo, trovare sezioni di gioco ripetitive o palesemente riempitive risulta assai fastidioso: se mi stai chiedendo così tanto tempo, mi aspetto che ne valga la pena. Forse, dico forse, la quantità di scrigni è un po’ eccessiva (specialmente a Skellige, dove i forzieri sono così fitti da sembrare che spuntino come funghi in mare) e visto che già offri così tante side-quest, beh… le meno riuscite rimuovile. Lo stesso vale per le creature: per quanto la varietà ridotta remi a favore dell’immersione e della gratificazione del giocatore, nelle fasi finali di gioco è inevitabile pensare “certo che qualche creatura in più non avrebbe guastato”. Non sono poche, anzi, ma essendo il titolo molto esteso anche questo aspetto diventa (comunque dopo oltre un centinaio di ore) un segno di stanchezza.
Rimanendo su aspetti di game design, superate le prime fasi di gioco diventa piuttosto pedante essere sommersi dagli indicatori sulla mappa e dall’uso dei sensi da witcher. Non c’è dubbio che, dato l’attuale livello tecnico delle console, sia in qualche modo necessario porre nelle mani del giocatore un “superpotere” che gli permetta di avere input chiari su che cosa sia importante e che cosa no: è ancora impegnativo per un engine rendere le scritte leggibili a occhio e senza sottotitoli, oppure definire così dettagliatamente dei graffi da far capire quale creatura possa averli causati. Purtroppo, però, tutto il gioco è strutturato in modo tale che quella percezione sovrumana sia sempre necessaria e senza usare quella meccanica è pressoché impossibile notare gli indizi necessari a completare la missione. Il risultato finale è a mio giudizio assai deludente: basta attivare i sensi da witcher in qualunque situazione per avere indicatori luminosi che indicano i punti nei quali interagire. Con una mappa ricolma di segnalini e indizi pronti a brillare di rosso una volta che entrano nel nostro campo visivo, l’unica variabile rimasta è proseguire nella quest oppure no, perché non è pensabile “sbagliare” o perdere l’orientamento. Questo va a danneggiare inevitabilmente l’eccellente lavoro svolto per dare varietà alle diverse situazioni sul piano narrativo e anche il fenomenale design di aree così diverse fra loro. Cacciare drowner vicino a un villaggio seguendo le loro tracce è cosa ben diversa dal rispondere alla chiamata dell’aldermanno per sondare i misteri di un luogo infestato, tuttavia in termini di azioni compiute in gioco le due cose sono piuttosto simili: si attiva la missione, si raggiunge l’indicatore e, quando la mappa ci dà il suo ok, si attivano i “poteri” di Geralt andando a premere X nei punti indicati. In parte tutto questo è necessario, ma la formula è pigra e se non mi è pesata è stato solo per l’eccezionalità degli ambienti che rendevano visivamente le cose sempre diverse.
Altra problematica, sempre relativa al game design, è quella delle pozioni e degli unguenti: a fronte dell’idea ottima del risparmiarci la ripetizione della creazione manuale, il reperimento degli ingredienti è ben poco diverso dalle fetch quest farlocche che tanto gravano sugli altri RPG open world.
Passando ai menu, ci imbattiamo nel più goffo dei problemi di The Witcher 3: confusi, divisi in modo poco chiaro, non molto funzionali alla gestione degli oggetti contenuti nell’inventario e decisamente non di aiuto quando è necessario capire che cosa ci stia appesantendo al punto da non riuscire più a correre o che cosa potremmo vendere per ottenere più denaro possibile. La componente menu/inventario è senza dubbio quella più “da rifare” e che mai è stata rifinita in questo franchise.
In altri aspetti, il gioco risente della scarsa originalità del materiale. Mi riferisco all’intera mappa di Skellige, sicuramente l’ideale per conquistare i fan dei vichinghi (che a me hanno abbondantemente sfracellato i maroni da anni) ma certamente la meno caratteristica: è appunto una (vasta) parte del gioco la cui caratterizzazione è “isole piene di nordici che fanno cose da nordici”. Rispetto alle riuscitissime atmosfere del Velen e di Novigrad (ma anche di Touissant, nel secondo DLC), riservare un buon quarto del gioco base a qualcosa di così poco caratteristico è un peccato. Solo la presenza di Geralt e il bestiario “tipico” ricordano di trovarsi in The Witcher 3. Anche se la “colpa” di questa scarsa originalità di Skellige è imputabile a Sapkowski, autore dei libri, a CD Project Red non deve certo esser giunta prescrizione medica di inserire quelle isole nel gioco e, inoltre, essendo i videogiochi ritenuti dichiaratamente non canonici, c’era tutta la libertà del mondo per variare sul tema. La sensazione è che, nella volontà di inserire ancora molta trama, si sia un po’ deciso di risparmiare energie mentali offrendo un palcoscenico funzionale quanto bastava ma stereotipato (oltre che ricolmo di barriere naturali che poco hanno da aggiungere all’esperienza risultando anzi troppo spesso gratuiti fastidi).
Come già accennato, poi, la sessualizzazione della figura femminile non risparmia nessun personaggio vagamente di rilievo. Pur non raggiungendo i livelli del primo The Witcher, nel quale parte del gioco era letteralmente basata sul riuscire a “concludere” con tutte le possibili donzelle collezionandole manco fossero Pokémon, ho trovato di cattivo gusto (e anche lesivo dell’immersione che tanto ho lodato) vedere il Continente popolato da top model dalle forme scolpite nel marmo. Passi per l’aspetto delle maghe che modellano i propri corpi con la magia per apparire bellissime anche in età molto avanzata, ma questo non spiega il loro dress code da femme fatale e questa giustificazione non può valere per contadine e lavandaie dei villaggi, tutte all’altezza di una passerella. Celeberrima è l’erborista Tomira, le cui “mele” sono il prodotto più rinomato di Bianco Frutteto, e poco meno indimenticabile è la scollatura tendente all’infinito dell’oniromante Corinne, esperta di sogni - anche erotici. La sostanza del gioco non cambia a fronte di questo esercito di veline, ma proprio per questo ci si chiede: era proprio necessario? Il problema degli sviluppatori con la figura femminile si riflette anche nei siparietti onestamente imbarazzanti che si aprono quando Geralt deve interfacciarsi con una potenziale amante: i dialoghi, generalmente molto brillanti nel gioco, nelle situazioni intime diventano la definizione da dizionario di “cringe”. La cosa più stridente è che nessuno - in gioco - sembra notare quanto Geralt stia dicendo idiozie, quindi assumo che per gli scrittori quelli non siano dialoghi ridicoli (male). Anche agli occhi di chi è meno affezionato alle questioni di genere, questo continuo sfoggio di bamboline pronte a essere sedotte dal “vero uomo” ed essere “saggiate” dal giocatore per interposto avatar appare non poco ridicolo.
Altro punto che stride con l’immersione è la gestione dei fabbri: le spade e le armature in vendita sono puntualmente tarate sul livello corrente di Geralt. Questa è una pugnalata alla sospensione dell’incredulità: il giocatore ottiene svariate volte equipaggiamenti leggendari dopo lunghe esplorazioni o come premio per grandi atti eroici, ma prima ancora di aver finito di gioire per l’ottenimento dell’antica lama dinastica si imbatte in un fabbro che vende (a un prezzo insostenibile da chiunque non sia Geralt) ferraglia assolutamente competitiva con il nuovo e sudato cimelio. Classico, in un RPG fantasy, ma non volevamo un’esperienza quanto più credibile possibile?
Molto goffa è poi la modalità di determinazione del finale, non chiara e non soddisfacente. Durante l’avventura, alcune scelte specifiche fanno “acquistare punti” a un finale A, B o C e, giunti al termine, otterremo quello sul quale ci siamo orientati di più. Il problema è che la maggior parte di questi eventi e scelte di dialogo non sono a mio avviso sufficienti per giustificare narrativamente l’esito conclusivo al quale portano. Al contrario, con i finali migliori si è felici del lieto fine ma non è chiarissimo che cosa ci abbia portati lì, mentre con i peggiori è facile pensare “ma come? Questo casino perché quella volta ho fatto una cagata così minuscola”? Tutto ciò è alquanto deludente dato che, come detto, la storia è molto semplice e quindi dovrebbe esserlo altrettanto disporre i tasselli, mostrando una conclusione solida in qualunque caso e con qualsiasi combinazione di scelte del giocatore. In questo, Dragon Age: Inquisition rimane di gran lunga superiore, suddividendo tutte le grandi questioni e “componendo” il finale con un “collage” delle conseguenze di ciascuna.
Passando ai DLC, complessivamente ottimi, nel secondo si nota pesantemente l’esaurimento delle idee. Le creature sono troppo poco varie, le quest iniziano a somigliarsi di più fra loro e alcune sono chiaramente troppo lunghe e ripetitive rispetto a quanto avrebbero avuto senso di esserlo. In più di un’occasione, ciò che sarebbe bastato fare una sola volta viene richiesto ben oltre il necessario e, di nuovo, solo i paesaggi da fiaba e la bellezza del percorrerli salvano la situazione.
Conclusioni sul gioco
The Witcher 3 funziona perché, anche nei suoi eccessi, è estremamente credibile. Muovere i passi nel Continente disegnato da CD Project Red risulta interessante perché l’esperienza dell’esplorazione è ben progettata. Ci si guarda attorno, si vede un ambiente verosimile, un orizzonte, qualche elemento che spicca e si compiono delle scelte che portano quasi sempre alla scoperta di qualcosa che sembra avere tutti i motivi di trovarsi dove si trova e che permette di capire che cosa sia successo lì sulla base del contesto, si parla con personaggi a noi legati che riconosciamo al punto da immaginare che cosa faranno e ci interfacciamo con popolani e nobili locali che si comportano come serve per confermare dove ci troviamo. Sarebbe veramente interessante parlare con i designer della mappa di questo gioco e farsi raccontare le varie fasi del lavoro, capire come hanno cominciato a disegnarla e su quali basi l’hanno poi rifinita e riempita di vicende. Un titolo open world dovrebbe avere questa come stella polare: riuscire a far sentire in un mondo vero, quanto possibile per un videogioco. Ci sono però problemi gravi, per quanto inosservati: la trama risente facilmente della dispersione, la scrittura è altalenante, il gameplay è funestato da troppe indicazioni e difetti nei geodata (con danni da caduta stupidamente mortali), i menu sono disorientanti e lo skill tree è discutibile. Queste problematiche scompaiono quando si ripensa all’esperienza vissuta, all’immersione totale e “naturale” garantita dall’avventura, ma sono macigni che crollano fra The Witcher 3 e un “open world ideale”.
E ora?
Gli sviluppatori hanno ora un grosso problema: il primo The Witcher era un gioco nato mediocre e invecchiato male, il secondo è molto lineare e non ha granché da offrire a parte la sua storia fatta sì di intrighi politici ma molto “sui binari”, il terzo è stato il loro primo tentativo di open world, un tentativo ambizioso che li ha portati a superare tutta la concorrenza di larga misura ma che rimane un unicum. Questo successo è stato dettato dalla quantità e dalla varietà di materiale che è stato inserito nel titolo, quantità e varietà difficilmente replicabili. Le aspettative per un quarto capitolo, qualsiasi sia il tema e chiunque sia il protagonista, sono elevatissime.
Per quanto riguarda “la concorrenza”, non si trova in una situazione molto più rosea: una volta stabilito un termine di paragone così sopra le righe (relativamente ai titoli attualmente esistenti) le uniche vie che possono portare a un altro grande gioco passano tutte dal “ripartire da The Witcher 3”. Per quanto possa sembrare sacrilego agli occhi dei suoi fan, infatti, questo gioco (che, ribadisco, ho decisamente amato) offre sì un’esperienza videoludica immersiva e coinvolgente ma ha anche enormi margini di miglioramento.
In altre parole, essendo The Witcher 3 così funzionale grazie al suo “realismo”, le componenti “giocose” e “tecniche” da mantenere dovrebbero essere solo quelle snelle e divertenti, rivedendole o eliminandole invece ogni qual volta costituiscono un ostacolo, una scomodità o un’interruzione nell’esperienza di gioco. Ci si incaglia invece spesso su spigoli che – paradossalmente, in un titolo che tocca certe vette – sono al limite dell’inaccettabile.
Non credo, quindi, che The Witcher 3 sia insuperabile, tutt’altro. Credo però che sia uno dei pochi titoli che, votandosi a un’idea di open world, ha davvero creato un “world” e lo ha davvero lasciato “open”, non vendendo quindi la sola idea ma implementandola davvero, senza il timore di lasciare il giocatore troppo libero nell’esplorare. Resta da capire se, nell’attuale mercato videoludico, le software house abbiano intenzione di fare un lavoro costruttivo su un intero genere e di investire sul miglioramento di un “format” tanto impegnativo, anche per gli standard dei tripla A. Forse CD Project Red, che dopo Cyberpunk 2077 deve recuperare l’affetto dei suoi fan, potrebbe voler decidere di puntare il tutto per tutto su un progetto che tratti la sua attuale punta di diamante come ciò che è, cioè, sotto molti profili, uno straordinario punto di partenza.