Nel fondamentale testo di game design Theory of Fun for Game Design, un libro più volte citato in alcuni articoli precedenti, il teorico e studioso Ralph Koster scrive una frase molto iperbolica sul videogioco come mezzo e sul suo sviluppo: “l’evoluzione del videogioco moderno” scrive Koster, “può essere ampiamente spiegata in termini di topologia”1. Secondo Koster, la tassonomia in ambito di videogiochi può essere facilmente ristretta perché, come spiega, una volta ridotti ai loro schemi fondamentali i videogiochi tendono a ripetersi, e se l’apparato esterno serve ad abbellire le meccaniche e farle percepire diversificate e attraenti, esse in realtà rimangono fondamentalmente più simili tra loro di quanto non paia a un primo e ben mascherato impatto. Questa dicotomia fra vestiti e ludemi2 dei videogiochi, come li definisce Koster, fa sorgere tutta una serie di interrogativi sulla classificazione delle opere – operazione tanto spinosa quanto per certi versi avvincente proprio in virtù della sfida e della gratificazione critica che essa comporta. Non si tratta di una classificazione fine a se stessa: cercare di ricondurre i videogiochi a unità di fondo non ulteriormente suddivisibili è un’operazione cruciale per capire da più punti di vista quali siano e le ragioni del successo di molte opere e le possibili permutazioni che si presentano all’applicare di medesimi sintagmi base del linguaggio. In effetti, con un’operazione tassonomica di rara spavalderia, in questo senso i videogiochi possono essere suddivisi in due macro-categorie: quelli con uno spazio rappresentato all’interno del quale il giocatore muove il suo avatar (per capirci, uno Zelda o un Mario qualsiasi) e quelli senza uno spazio pensato per l'avatar, dove l’operatività viene da una serie di codici e operazioni per la risoluzione di un puzzle o compito (per capirci, i videogiochi di carte).
Essendo poi il videogioco un unicum pieno di fascinazioni all’interno del panorama vastissimo e liquido dei mezzi espressivi, il tutto si complica se pensiamo che quasi sempre l’esperienza di gioco si articola come un coesistere di queste due istanze, che rappresentano soltanto i due estremi rigidi dell’esperito del giocatore: in molti casi, infatti, una porzione di gioco prevede che l’avatar si muova nello spazio, mentre altre funzioni (per esempio quelle svolte nell’interfaccia dei menu utili a vari compiti, per esempio potenziare le statistiche del personaggio o consultare strumenti e oggetti) non prevedono la presenza di un luogo entro il quale muoverci ma rappresentano solo meccaniche operative pure.
In questo senso, il discrimine per differenziare le varie modalità nelle quali si può articolare un videogioco (o le sue fasi) è banalmente dato dalla presenza o meno di un avatar, ed è proprio questo il punto focale su cui pare voler porre l’attenzione Koster quando afferma che comprendere l’evoluzione topologica dei videogiochi, da Pac-Man a Cyberpunk 2077, è la chiave per capire cosa è stato, cosa è e dove potrebbe andare il mezzo: comprendere e valutare le varie istanze di movimento di un avatar nello spazio è in un certo senso chiarificare il grado zero dell’esperienza che il videogioco vuole fornire, e nel momento in cui il mezzo ha cominciato ad assumere pretese letterarie di rilievo è divenuto fondamentale esaltare la sizigia fra meccanica di gioco pura e ambizione narrativa di un’opera.
Messa in questi termini ogni videogioco che preveda almeno una fase in cui ci troviamo a utilizzare un avatar ha come primo e fondamentale problema quello di creare un ambiente dove muoversi non debba essere percepito come una operazione fra quelle possibili, ma la risoluzione continuativa e necessaria di puzzle al quale esso costantemente ci sottopone.
Da un punto di vista letterario, quello del trovare la strada è uno dei compiti più ardui ai quali le opere ci sottopongono, e questo topos sta alla base di molte grandi opere all’interno delle letterature di ogni luogo e tempo. Proprio in virtù della sua universalità, la potenza che può assumere questo semplice compito una volta trasformato in meccanica di gioco è virtualmente infinita, perché sottopone le funzioni del design a uno stress test continuo, dal quale però col videogioco è possibile trarre soluzioni uniche e impossibili per la letteratura intesa in senso classico.
In design, lo studio degli elementi utili a trovare la strada in un dato sistema prende il nome di wayfinding, ed esso è uno degli elementi più affascinanti e più degni di attenzione per comprendere le possibilità del videogioco e alcuni dei suoi più validi snodi letterari. In questo articolo vorrei provare a fornire due esempi eccelsi di wayfinding, uno tratto dalla letteratura del Novecento e uno dal videogioco moderno, per fornire i tratti salienti adoperati dai rispettivi mezzi e provare a vedere come, nonostante le numerose differenze fra i due, entrambe le opere riescano ad assolvere a un medesimo compito con un risultato paragonabile, vale a dire offrire l’urgenza e il senso di necessità irreversibile che si viene a creare attraversi i rispettivi linguaggi. La ragione di un paragone fra due opere così distanti è dunque questa: nonostante alla letteratura in senso classico soggiacciano regole distintive ben precise e al videogioco altre, entrambi rispondono alla stessa esigenza di fondo da un punto di vista narrativo: raccontare la propria storia nel modo più convincente ed efficace possibile. Da un punto di vista letterario i videogiochi rispondono infatti a uno scopo ben specifico, quello di raccontare storie vecchie con meccaniche nuove, e paragonare il mezzo più complesso e stratificato del nostro tempo con le soluzioni messe in pratica dai suoi antesignani può essere utile per capire dove e come esso riesca nella messa in pratica della sua grammatica.
L’opera di letteratura usata a esempio è un passo preso da Il Signore degli Anelli (1954-1955) di J. R. R. Tolkien, mentre il videogioco considerato è The Last of Us (2013), sviluppato da Naughty Dog. La tesi, come accennato, è che la meccanica sia per il videogioco ciò che la parola è per il romanzo, e che tra i due esista quindi un isomorfismo potenziale che sta al mezzo nuovo scovare e adattare.
Prima di cominciare, una breve premessa: il wayfinding è uno degli elementi di game design più affascinanti, ma nonostante ciò non esistono ancora grandi studi teorici in merito. In uno degli studi più interessanti in cui mi sono imbattuto3 si dice da subito che per poter estrapolare una possibile teoria è stato necessario utilizzare come base forum e discussioni su internet, oltre ovviamente all’analisi delle opere prese in esame. Questo conferma, in un certo senso, la fase di adolescenza e i coni d’ombra del videogioco come mezzo, e di conseguenza molte delle osservazioni in merito a un elemento di design tutt’ora così poco concettualizzato risultano parziali, ma si spera proprio per questo più utili ad ampliare la discussione in merito. Il paragone letterario dell’articolo serve anche a questo: fornire degli spunti per approfondire quella che, almeno personalmente, reputo la questione fondamentale alle radici del game design: creare la strada e poi trovare il modo giusto per fornirla al giocatore.
TOLKIEN E IL WAYFINDING
C’è un punto nell’epica di Tolkien in cui, dopo aver lasciato la Contea, Sam e Frodo incontrano gli Elfi. Siamo appena nel quarto capitolo de La compagnia dell’Anello, intitolato Una scorciatoia che porta ai funghi, e per Sam si tratta già della realizzazione di un sogno: la mattina dopo, conversando, Frodo gli domanda se non senta a questo punto il desiderio di tornare a casa. È qui che Sam si lascia andare a un’affermazione rivelatoria, quasi mistica, che mette in mostra l’irreversibilità della scelta di partire, quasi come che ormai l’aver lasciato la Contea fosse solo il primo passo di un rito iniziatico che non potrà dirsi concluso se non con il termine del viaggio: “Non so come spiegarlo” dice Sam, “ma da ieri mi sento diverso. Mi sembra di vedere avanti a me, lontano. So che percorreremo una strada lunghissima verso l'oscurità; ma so che non posso tornare indietro. Non è per vedere Elfi, né draghi, né montagne che ora voglio… Non so nemmeno io che cosa voglio esattamente: ma ho qualcosa da fare prima della fine, qualcosa che si trova avanti a me e non nella Contea. Devo arrivare fino in fondo, signore, non so se mi capite”4. Sam pronuncia queste parole col piglio del vate: lui, che di mestiere fa l’umile giardiniere, per un istante assume la ieraticità verbale del profeta e si lascia andare a visioni divinatorie, parlando di oscurità, doveri teleologici, fine – fine di che cosa, poi, nemmeno Sam pare saperlo.
Quello che per tramite di Sam sembra raccontarci Tolkien in questo passaggio è un atto di cesura, il momento iniziale di un salto nel vuoto per chi solo qualche ora prima potava le rose in un luogo ameno e pacifico come la Contea Hobbit, ma che ora si ritrova davanti alla possibilità concreta di affrontare creature ancestrali, abitanti dell’origine del Mondo, guardiani silvestri di ogni tipo e specie. I capitoli successivi sono infatti, per gli Hobbit, contrassegnati da un intercedere lento e faticoso, dove ogni passo corrisponde a un rischio da dentro o fuori. L’imperativo categorico di questa porzione di trama è, per i protagonisti del racconto, quello di trovare la strada, tentativo che si concretizzerà qualche capitolo più avanti attraverso l’incontro salvifico con l’enigmatico Tom Bombadil.
La grandezza della letteratura e della prosa di Tolkien in questo frangente sta nel far apparire il bisogno di trovare la giusta strada una necessità impellente e inevitabile; come quasi che gli Hobbit, una volta calati in un ambiente troppo impervio per loro, d’istinto si sgravassero dell’urgenza della quest principale – gettare l’Unico Anello nel Fato – e la dimenticassero, per concentrare tutte le forze su un onere più immediato e quindi più importante da portare a termine. Tante volte gli Hobbit si perdono e altrettante trovano il modo di sbrigarsela. La bravura di Tolkien sta anche nel rendere impossibile, attraverso la sua prosa, distinguere lo zelo dei personaggi da quello dell’autore: chi è davvero bravo allora, i piccoli Hobbit in fuga, che di riffa o di raffa riescono sempre a cavarsela e a rifuggire la morte, o Tolkien stesso, che riesce a far percepire al lettore l’irreversibilità dell’ingranaggio letterario? Tolkien gioca tutta la costruzione della “quest” su una serie di contrappunti: alle descrizioni degli ambienti e dei movimenti nello spazio, rappresentati con vivida precisione quasi fossero funzioni su un piano cartesiano (“delle nuvole cominciarono ad apparire a occidente”, “Gli Hobbit si affrettarono a scendere giù”, “Il loro percorso avrebbe lasciato Boschesi sulla sinistra”) si oppone la prosopopea assunta dalla Natura nel momento in cui essi entrano nella Vecchia Foresta, come a lasciar progressivamente posto a qualcosa di più grande e troppo forte persino per il carattere affettato che può presentare la prosa letteraria: tutto comincia ad assumere virtù umane o sovrumane, e Tolkien non si fa sfuggire l’occasione di rimarcarlo (“Le foglie degli alberi brillavano”, “la Siepe – indicata con la S maiuscola – […] Era alta, imponente e intessuta di ragnatele argentee”). Alla certezza quasi logico-matematica con cui gli Hobbit riuscivano a destreggiarsi per lo spazio nei capitoli precedenti ora subentra la quasi impossibilità di muoversi se non attraverso un confronto-scontro con la Natura. E infatti Fredegario Bolgeri, nella Foresta assieme ai quattro Hobbit riunificati, si rende subito conto delle impellenze di quel luogo: “Come farete ad attraversarla?” domanda, con riferimento alla Siepe. Muoversi nello spazio della Foresta, a questo punto, diventa quasi difficile quanto nominare quel luogo a parole: “La Foresta è strana” dice Merry: “tutto in lei è molto più vivo, più conscio di ciò che succede intorno”. Ascoltandola, Merry dichiara di avere l’impressione di “sentire tutti gli alberi sussurrare fra loro, passandosi notizie e messaggi e complottando in un linguaggio inintelligibile”. Non a caso la costruzione climatica di questo percorso di perdizione è destinato a raggiungere il suo apice-risoluzione solo attraverso l’intervento di una figura superiore a tutte le altre, al punto tale da essere, al pari del linguaggio della Foresta, inintelligibile nel suo statuto all’interno della mitologia di Tolkien: Tom Bombadil. Questa costruzione climatica trova proprio uno snodo con l’arrivo di Tom intento a salmodiare filastrocche, un’aggiunta metrica e stilistica utile anche a rilasciare la tensione accumulata con la lettura sino a quel punto.
Quello messo in atto da Tolkien in questa fondamentale fase de La compagnia dell’Anello è un fulgido esempio di coincidenza fra intento letterario e stile adoperato per raggiungere l’obiettivo, al punto tale che diventa difficile comprendere se il linguaggio dello studioso britannico sia al servizio della sua epica o se, viceversa, la disavventura degli Hobbit nella Foresta non serva per innalzare il valore della filastrocca-romanzo. Come solo le grandi opere riescono a fare, Tolkien riesce nell’una e nell’altra cosa assieme, e provare a rispondere a queste domande equivale alla vista del cane che si morde la coda.
Il grande insegnamento lasciatoci da Tolkien relativamente a questo passaggio è però fondamentale per provare a rispondere a una delle più grandi urgenze di ogni aspirante autore alle prese con un’opera in cui trovare la strada è l’obiettivo principale. È attraverso questo principio che diviene possibile ipotizzare che ogni opera e ogni aspirante autore dovrebbero puntare a creare lavori il cui valore supremo sia quello messo in atto da Tolkien attraverso la scrittura: produrre la sensazione di irreversibilità delle meccaniche. O, per dirla altrimenti, fornire al lettore, all’osservatore o al giocatore che sia l’incombenza di trovare la giusta strada, rendendo tale scopo e tale strada inevitabili in termini di progettazione. L’operazione fatta da Tolkien tramite la prosa è quella di guidare il lettore attraverso lo spazio come se gli venisse chiesto di risolvere dei puzzle sulla base degli indizi forniti dal linguaggio: ogni volta che subentra una nuova descrizione o una nuova coordinata spaziale, quelle precedenti vengono annullate e, come percepisce immediatamente Sam nel suo discorso da aruspice, anche senza garanzie bisogna comunque andare avanti.
Quello all’interno del quale ci catapulta Tolkien è un corridoio letterario: la finezza della sua prosa sta nel restituire al lettore la sensazione dell’impossibilità di uscire dalle mura entro le quali il suo linguaggio ci costringe – mura che è il linguaggio stesso a innalzare – come se la Foresta in cui gli Hobbit si avventurano fosse un imbuto dentro cui veniamo gettati: tornare su è impossibile, e la strada davanti si restringe a ogni passo.
Ottenere questo risultato da un punto di vista prosaico è molto complesso, ma dimostra che il valore fondamentale della narrativa è sempre quello di produrre inganni e macchinazioni che al loro presentarsi appaiono subito come inevitabili: ogni volta che viene introdotta una nuova figura o possibilità tutte le precedenti vengono momentaneamente accantonate, anche se fino a poco prima esse apparivano la cosa più importante in assoluto; e in questo Tolkien assolve alla perfezione il compito facendo assumere a molte delle sue “quest secondarie” gli stessi dettami di quella principale, ma in scala ridotta: trovare sentieri e scorciatoie è la contingenza immediata, ma sempre sullo sfondo del compito più grande, quello di trovare la strada, quella per il Fato. Mettere in relazione di quantità compiti particolari e universali è uno dei principi più decantati ed efficaci della narratologia moderna5, perché anche se pare distolto il focus dal compito che ci è stato assegnato a pagina uno, esso in realtà riecheggia, non detto, nelle azioni che siamo chiamati a compiere, e che solo superficialmente paiono non avere nulla a che fare con l’obiettivo principale.
Da un punto di vista prosaico e letterario, Tolkien dimostra come l’evoluzione della sua prosa in questo lungo passaggio del racconto (da logico-funzionale a decantata e melodica con l’arrivo di Tom) sia una grande operazione di wayfinding letterario, il cui valore principale è quello di far percepire l’inevitabilità e l’irreversibilità del corridoio che egli costruisce a suon di parole per il lettore. Al che ci si potrebbe domandare: è possibile riprodurre la stessa sensazione attraverso meccaniche e engine di gioco?
NAUGHTY DOG E IL WAYFINDING
È proprio l’inevitabilità e l’irreversibilità del corridoio creato che contraddistingue il modo di fare di Naughty Dog. A questo va aggiunto che il valore su cui si fonda la poetica di The Last of Us è quello del less is more, non a caso uno dei principi di design (non solo relativamente al videogioco) moderni più decantati e praticati. Qui, però, entrano in gioco le grandi esigenze del mezzo rispetto alla prosa letteraria: se la grandezza del wayfinding di Tolkien stava proprio nel dover restituire una sensazione costante di smarrimento attraverso l’uso architettato di un linguaggio espressivo, al videogioco soggiacciono altre caratteristiche e l’inevitabilità del corridoio deve essere prodotta adoperando ulteriori schemi. Per capirlo, prendiamo in esame alcuni passaggio significativi del gioco in questo senso.
Il primo, grandissimo schema al quale Naughty Dog ci sottopone è quello della camera: per quanto possa apparire banale rimarcarlo, quando un videogioco ci sottopone all’inizio di una nuova sequenza la camera è sempre fissata su un’inquadratura precisa, e questo meccanismo è particolarmente amplificato nei videogiochi in terza persona. Se i designer fanno bene il loro mestiere questa scelta non è mai casuale, ed è così vera da incanalare l’esperienza persino nei videogiochi in cui la mappa è più aperta6: nel caso di The Last of Us, grazie al preset della camera siamo già in un certo modo incanalati sul binario giusto. Questo semplice elemento però non basta per risolvere i problemi di wayfinding ai quali il gioco ci sottopone, perché in tal senso l’immagine fornita da Naughty Dog è spesso qualcosa che il giocatore deve saper leggere. Il controllo della camera in The Last of Us, come in qualsiasi altro gioco in terza persona, dovrebbe assolvere alla funzione di libertà fornita al giocatore, ma la bravura di Naughty Dog sta nel simulare questa libertà apparente e renderla invece una gabbia necessaria, inevitabile. Pur avendo il controllo della visuale, lo spazio messo in scena è sempre artificialmente più grande di quello nel quale possiamo effettivamente muoverci; uno degli esempi migliori di efficacia del level design del gioco a proposito è fornito dalle strutture architettoniche e dalla topografia dei livelli: anche in virtù delle sue istanze narrative, The Last of Us è un gioco fatto di strappi e di accelerazioni che si alternano alle fasi di gioco stagnanti, e quando ci ritroviamo a dover fronteggiare livelli in cui ci viene richiesto di correre in luoghi stretti e angusti (per esempio quando rincorriamo Robert all’inizio del gioco o nelle fasi in cui Ellie scappa durante il DLC Left Behind), ci ritroviamo di fatto a fronteggiare delle porzioni di mappa che istintivamente paiono molto grandi e dispersive (e infatti, nella concitazione del momento, le domande che il giocatore si pone sono “dove devo andare?”, “qual è la strada giusta?”, “ho i nemici alle calcagna?”, “quanto tempo mi rimane?”), ma che in realtà posseggono una grandezza generata surrettiziamente e a causa dell’agitazione del momento.
Per equilibrare questo meccanismo, infatti, ogni volta che ci ritroviamo in queste situazioni Naughty Dog fa una scelta di design molto semplice ma efficace: se passa più di qualche secondo, scatta il game over e si riprende da un checkpoint7. Questa scelta impedisce al giocatore di muoversi liberamente in un luogo che all’apparenza gli sembra così grande e dispersivo da fargli perdere potenzialmente l’orientamento, ma che in realtà si rivelerebbe molto più piccolo e scarsamente interagibile se esaminato con più tempo a disposizione. Se non siamo in grado di trovare la strada prescritta attraverso il level design e le architetture, Naughty Dog utilizza il tempo come imbuto per evidenziare quell’inevitabilità del corridoio che invece la narrativa otteneva a parole.
Nelle fasi meno concitate, una delle scelte più interessanti di Naughty Dog riguarda invece l’impianto topografico o alcune caratteristiche dell’ambiente circostante: oltre ai luoghi delimitati da motivi ricorrenti come il muschio sulle sporgenze, il nostro sguardo e le nostre scelte vengono guidati attraverso l’utilizzo del colore giallo: molte volte nelle quali possiamo interagire con un oggetto o sporgenza, esso viene evidenziato di giallo senza ulteriori specificazioni (per esempio elementi di HUD), e questo fattore assolve a due compiti: in primo luogo crea una continuità interna al gioco e fa diventare il giallo un motivo meccanico e narrativo, perché impariamo a riconoscerlo e ad associarlo alla funzione di interazione; in secondo luogo crea una continuità esterna al gioco ma interna al wayfinding dell’ecosistema Sony e dei suoi pattern narrativi: in tutte le esclusive in terza persona di Sony (i due Horizon, Ratchet & Clank, God of War, gli Uncharted, solo per nominarne alcuni) il giallo è diventato per definizione il colore che fa da guida al giocatore, e lo incanala sui binari giusti.
Se, però, in molte esclusive Sony l’interazione con elementi gialli per proseguire nella storia è solo potenziale (si vedano le sporgenze alle quali è possibile aggrapparsi, per dirne una, in Horizon: Zero Dawn), nel caso di The Last of Us diventa irreversibile e necessaria: ogni volta che vedremo giallo, dovremo seguire quel percorso. Al punto tale che questo concetto viene esteso oltre i semplici elementi dell’ambiente circostante, e tocca anche i punti d’interesse della topografia o della geografia del mondo di gioco, come per esempio quando Joel, Ellie e Tess devono raggiungere una cupola, appunto, gialla:
O quando Joel vuole raggiungere un ponte del medesimo colore:
Tutte scelte, però, che servono più a guidare l’occhio del giocatore all’interno dell’inquadratura simulata che non per farci muovere in libertà nel mondo di gioco perché, come detto, la libertà in The Last of Us è surrettizia e siamo sempre all’interno di un corridoio ben celato. Basta guardare l’immagine qui sopra: quanto dello spazio che separa Joel dal ponte è davvero giocabile e quanto serve solo a celare il corridoio?
Questa lezione di level design, da Naughy Dog già messa in pratica con gli Uncharted e qui portata al parossismo, è simulativa ed esalta, mascherandola, l’inevitabilità del nostro agire. La macchina creata dal gioco è un imbuto dal quale non si sfugge, ma che non si fa immediatamente percepire come tale.
Un altro degli elementi che assolvono bene al wayfinding del gioco è la presenza di ostacoli pericolosi per far capire al giocatore dove deve recarsi: ogni qual volta ci viene richiesto di avanzare in porzioni di mappa che hanno meno l’apparenza del corridoio, le possibilità di azione vengono contingentate dalla presenza di elementi di pericolo come trappole tese fra due muri o nemici infetti dal fungo immobili e piazzati solo per sbarrarci la strada.
Usando questa logica, l’idea di wayfinding di Naughty Dog è chiara: il pericolo anticipa sempre la strada giusta da seguire. Il che dimostra la bravura e la consapevolezza del team nel prendere spunto da un certo tipo di letteratura cinematografica alla quale essa dichiaratamente si rifà e dai suoi cliché, per poi riadattarli operando le giuste trasposizioni in un linguaggio diverso: nel cinema thriller e in quello horror in particolare di stampo statunitense, è tipico il cliché della strada giusta da seguire resa però impraticabile o pericolosa dalla presenza di forze oscure e maligne, ma oltre la quale sta il premio ambito dai personaggi. Inoltre, questo particolare esempio di wayfinding in The Last of Us è utilissimo anche perché esso può essere sussunto in una sorta di regola universale non scritta del linguaggio dei videogiochi: se c’è un pericolo c’è un premio, perché dal punto di vista della progettazione non avrebbe alcun senso – a meno di specificazioni del tutto contingenti – fornire opportunità e strade di punizione non retribuite per il giocatore.
CREARE LA STRADA GIUSTA
Riprendendo Koster, la caratteristica principale del design di The Last of Us è quella di evidenziare i ludemi, gli schemi fondamentali, e di esaltarli attraverso vestiti essenziali che generano una qualche sensazione di libertà in un mondo però coercitivo. Quello che viene prodotto è, in termini di risultato espressivo, paragonabile a ciò che ottiene Tolkien col romanzo, ma con una grammatica del tutto diversa: a prodursi è un corridoio lungo e inevitabile, che esercita le sue suggestioni maggiori per spazi negativi.
Quello che la letteratura non può, per limiti propri, permettersi di fare, è però generare condizioni all’interno delle quali il linguaggio non venga percepito come un costrutto: sul lettore il linguaggio pende sempre come una spada di Damocle e ciò che esso produce, irreversibilità, è croce e delizia del romanzo come mezzo. Non a caso nel Novecento i tentativi per provare a rifuggire questa incombenza sono stati numerosi – basti solo pensare al lavoro di Borges o al tentativo di Calvino di ribaltare l’inevitabilità prodotta dalla letteratura attraverso la creazione di un romanzo fatto di permutazioni di romanzi potenziali. Nel caso del videogioco, restituire al giocatore la sensazione di irreversibilità può essere molto complesso ma anche più avvincente, perché apre nuove strade: riuscire a indorare la pillola dei cliché letterari attraverso le meccaniche non è mai stato così possibile eppure così complesso, e di conseguenza a complicarsi è il discorso sull’inevitabilità che il videogioco vuole produrre.
Gran parte del lavoro del designer di videogiochi è creare opportunità convincenti di wayfinding, e il videogiocatore diventa quasi sempre un inconsapevole wayfinder. Trovare la strada, per il lettore o giocatore, è sempre la cosa più importante da fare sia dal punto di vista pratico che metaforico, ma solo quando essa diventa una meccanica inevitabile e necessaria si riesce a percepire l’importanza e la valenza letteraria del design. Le strade aperte in tal senso dal videogioco sono sconfinate e vengono dalla sua naturale tendenza (tutt’altro che risolta) a “rompere la finestra albertiana”, come dice qualche designer, vale a dire a spezzare quel limite imposto dall’immagine intesa come spazio esplorabile ricompreso all’interno di un quadrangolo fittizio, delimitazione che si è affermata ai tempi di Leon Battista Alberti con la formulazione della prospettiva e che costituisce ancora oggi il grado zero del linguaggio dell’immagine.
Il compito più grande al quale ci chiamano i videogiochi è quello di imparare a decifrare continuamente immagini mutevoli, instabili; a tal proposito un centinaio di anni fa Moholy-Nagy fece un’affermazione che oggi pare ormai anacronistica: nel futuro, era convinto Moholy-Nagy, l’analfabeta non sarà chi è incapace di leggere ma chi non è in grado di scattare fotografie; un’idea non a caso ripresa e ampliata da Benjamin nel suo discorso sui mezzi visivi. L’immagine prodotta, vuole dirci Moholy-Nagy, è qualcosa che va letto e percorso, compreso nelle sue meccaniche che naturalmente si sostituiscono a quelle del linguaggio verbale; ma è improbabile che egli potesse figurarsi il momento in cui l’immagine sarebbe diventata qualcosa destinata a cambiare alla frequenza di sessanta volte al secondo nelle mani del corrispettivo dei fotografi del nostro tempo, i videogiocatori. E con una serie di variabili così elevata introdotta dal mezzo e dalla sua naturale evoluzione, creare la strada e farla divenire necessaria e inevitabile può valere quanto migliaia di parole.
Theory of Fun for Game Design, pag. 76.
Per approfondire, rimando a questo articolo.
Per chi fosse interessato, è possibile trovarlo cercando su Google Immersive Wayfinding Cues for 3D Videogames.
Questa e le successive citazioni sono tratte direttamente da J. R. R. Tolkien, Il Signore degli Anelli (1954-1955).
A questo proposito, consiglio il sempreverde Story di Robert McKee.
Basti solo pensare a come questo semplice stratagemma indirizzi l’esperienza di gioco in un qualsiasi gioco di From Sofwtare, ogni qual volta apriamo un portone che ci introduce a un’area nuova: in Elden Ring, per esempio, nel momento in cui si apre la vista di Sepolcride col castello di Grantempesta sullo sfondo sappiamo già verosimilmente quale sarà il prossimo obiettivo “di trama”. La topologia dei giochi di From Software, che è forse una delle sue più grandi qualità in termini di level design, verrà magari trattata in un altro momento.4
Si veda, per esempio, la fuga a inizio gioco dove inseguiamo il contrabbandiere Robert.