Uncharted 4 e il declino dei videogiochi lineari
Cosa ha rappresentato davvero questo capitolo?
Attenzione: l’articolo contiene spoiler sull’intera trama del gioco
Un capitolo più maturo? Il miglior titolo della serie? Il meglio della generazione PS4? Uncharted 4, alla sua uscita, è stato certamente accolto con estremo entusiasmo sia dal pubblico che dalla critica generalista, ma quanti di questi elogi erano determinati dall’effettiva qualità del titolo e non dall’enorme mole di hype che gli si era generata attorno? Trascurando l’incredibile passo avanti in termini di grafica (che nel 2016 non aveva fondamentalmente rivali in ambito console) il gioco è davvero quel capolavoro di cui si sente ancora parlare? Probabilmente no, ma andiamo con ordine.
Per chi non sapesse esattamente di cosa qui si parla, Uncharted è una serie videoludica che miscela elementi di avventura, sparatutto in terza persona, risoluzione di enigmi e piattaforme che si è sempre fortemente caratterizzata per il suo aspetto altamente cinematografico, sia per quanto riguarda la cura per le sceneggiature, sia per la regia emozionante dei suoi cosiddetti “set pieces”, ovvero sequenze spettacolari in cui viene dato poco controllo al giocatore, che si ritrova quasi sempre a dover sopravvivere a ponti che crollano, treni che deragliano, navi che affondano e così via. La serie ha sempre avuto i suoi detrattori, ovviamente, soprattutto fra coloro che non apprezzano la sua linearità, le sue fasi di fatto scriptate e lamentano un’assenza di “libertà” e personalizzazione dell’esperienza.
Questo denota una tendenza più ampia, che riguarda tutto il panorama videoludico ad alto budget, in cui sempre più il genere open world, unito ad uno sviluppo in chiave GDR delle abilità dell’avatar , tende a diffondersi e a diventare la norma, il grado minimo di accettabilità, e addirittura la componente più importante nel giudizio delle opere. Per citare un esempio di rilievo basti pensare a come Ubisoft abbia gestito una notevole serie lineare come Prince of Persia, il cui ultimo capitolo di rilievo, durante lo sviluppo, si è sempre più distaccato dai cardini tradizionali, dando poi origine a una delle saghe videoludiche più famose e discusse, che è ancora oggi considerata un simbolo del genere open world, ovvero Assassin’s Creed.
Ma lasciare più controllo al giocatore non significa, conseguentemente, limitare l’autorialità? Perché i limiti imposti in un videogioco devono essere guardati con vergogna e non come un aspetto caratterizzante dell’esperienza? Questo vale tanto dal punto di vista ludico che da quello narrativo, siccome è più facile raccontare una storia densa e con un ritmo serrato in un contesto in cui il giocatore non rischia di ritrovarsi, volontariamente o meno, a vagare per mappe sterminate o ad affogare in missioni secondarie che nulla hanno a che fare con la trama principale e le sue eventuali urgenze. Uncharted è stata una serie di grande valore proprio perché, nel corso di quella generazione in cui il paradigma è cominciato a cambiare, ci ha ricordato l’importanza di questo tipo di impostazione, imponendosi come un esempio virtuoso di narrazione videoludica ben prima di The last of us, anche se con toni chiaramente meno drammatici.
Ma cosa è successo con Uncharted 4? Vediamolo nel dettaglio.
Il prologo, che si caratterizza per numerosi, rapidi salti temporali, è una delle parti più convincenti: ancora una volta ci immergiamo nell’infanzia di Nathan Drake, poiché la vicenda mira ad essere, nei fatti, contenuta in se stessa, non collegata strettamente ai capitoli precedenti… E quale miglior modo di ricominciare una storia con personaggi vecchi se non partecipando ad un evento segnante del loro passato? Si crea così una connessione emotiva immediata con il pubblico che riesce a fare a meno dei capitoli precedenti, la cui influenza diviene quasi nulla, ridotta a puro citazionismo ironico. Tutto ciò non è solo dovuto al cambio di sceneggiatori (Amy Henning, storica penna della serie, ha lasciato il progetto in corso d’opera), ma soprattutto al fatto che, in cerca di ritorno economico dopo enormi investimenti, si tenti di attirare più pubblico possibile, anche fra coloro che hanno sempre ignorato la serie… A essere onesti un espediente simile era già stato utilizzato in Uncharted 3 e curiosamente, paragonando attentamente le trame dei due titoli, sorgono varie contraddizioni anche gravi che riguardano proprio l’infanzia del protagonista e che si spiegano soltanto in questa maniera: anche in un videogioco “story driven” , la narrazione resta sempre sottomessa all’aspetto ludico e alle logiche di mercato che lo riguardano, soprattutto quando si parla di progetti ad altissimo budget. Certo, con Naughty Dog, sviluppatore che come già detto è oggi considerato un punto di riferimento della narrazione videoludica, questo si nota meno, in quanto l’azienda si ritrova ad essere in una condizione in cui può prendersi dei rischi, con Sony che le copre le spalle, ma la questione rimane.
Il giovanissimo Nate risulta palesemente solo e bisognoso di affetto, che sente di poter ottenere solo dal fratello Sam, che è invece indipendente e in cerca di forti emozioni; l’interazione fra i due si fa subito affascinante, esaltata, come sempre avviene con i titoli dello sviluppatore, dalla buona scrittura dei dialoghi, che riescono nel difficile compito di essere verosimili e comici allo stesso tempo, caso più unico che raro nel panorama videoludico, dominato ancora troppo spesso da battute grossolane e non credibili nei contesti in cui sono inserite. Già nelle prime fasi è Rafe (ricco compagno di furti dei due fratelli) a innescare la catena di eventi che portano all’apparente morte di Sam, e solo perché non aveva intenzione di dividere l’eventuale bottino con un nuovo socio… O forse di non essere guardato dall’alto in basso da una miserabile guardia penitenziaria? Comunque si impone da subito come forza antagonistica, anche al di là della sua volontà e in maniera non così palese dal punto di vista del giocatore che ancora non conosce il prosieguo.
Molti anni dopo, nel momento in cui Nathan si circonda finalmente di persone che gli garantiscono affetto e sembra poter abbandonare la vita criminale, quel lato di sé più influenzato dall’ombra di Sam, proprio il fratello riemerge dal nulla e lo costringe con l’inganno a mettere da parte la sua nuova vita, tornando a vivere quelle grandi avventure di cui in parte sentiva genuinamente la mancanza. Ecco che ora è Sam ad apparire più immaturo e scomposto, e ciò è anche dovuto ai 15 anni di prigionia che ha trascorso: non ha avuto occasione di fare esperienza e crescere, mettendo da parte vuote aspirazioni, come invece ha potuto fare Nate, seppur con riluttanza. Ci sono altri due elementi da sottolineare a riguardo del ritorno di Sam: per prima cosa il fatto che il falso racconto della sua evasione sia l’unica occasione nell’intera serie in cui il punto di vista narrativo non è quello di Nathan, espediente curioso che stona un po’ con scelte narrative ormai consolidate persino nel resto del gioco stesso. Inoltre gli autori, in questo frangente, si sono pure presi la briga di concepire il personaggio affascinante e carismatico di Victor Alcazar (in definitiva una sorta di Henry Avery contemporaneo, che ha senso dato che si tratta della figura di cui Sam è ossessionato) che viene però totalmente sprecato, nonostante la sua ombra continui ad aleggiare sulla vicenda fino alla deludente rivelazione che non è mai esistito, almeno per come ci è stato presentato nel racconto di Sam… Questo non solo delude il giocatore, poiché sarebbe stato un antagonista molto più interessante di Rafe (che appariva prima come un blando nemico secondario), ma risulta persino inverosimile! Un famosissimo criminale morto da mesi! Come può un fatto del genere non aver generato notizie? Davvero una persona intelligente e minuziosa come Nate non ha neanche fatto una minima ricerca sul pericoloso uomo che apparentemente ricatta il fratello? Siamo oltre il ridicolo, purtroppo.
Come di consueto per la serie, prima di giungere alla citta mitica/tesoro di turno (che questa volta risulta particolarmente piatta e poco ispirata, ben lontana dalle affascinanti architetture esotiche di Shambala o di Ubar) la trama ci porta in giro per il mondo, alternando fasi esplorative e enigmi prima con sparatorie e sezioni spettacolari dopo per ogni scenario. Se nella villa Rossi in Italia abbiamo qualche sviluppo narrativo di rilievo (ovvero il ritorno in scena del mentore Sully e di Rafe), le fasi in Scozia e in Madagascar sono sorprendentemente vuote, allungate, poco ispirate in generale e narrativamente superflue, e ciò vale anche per numerose sezioni della parte finale sull’isola pirata, forse in maniera ancora più fastidiosa, dato che la serie ha sempre avuto nelle sezioni finali un ritmo serrato e intenso. Invece di concentrarsi sulla linearità e sulla spettacolarità che tanto hanno reso speciale la serie, il gioco sembra volersi adeguare a quelle nuove tendenze di successo di cui si parlava all’inizio, proponendo mappe sempre più aperte e anonime, tanto che alle volte si ha l’impressione di essere stati catapultati in un generico sand box, e l’aggiunta di nuove meccaniche insulse come la marcatura dei nemici, gli indicatori stealth e la possibilità di occultarsi nelle (numerose) zone di erba alta rende il tutto ancora più vuoto. Certo, le animazioni e la risposta nelle sparatorie sono migliorate molto e le nuove possibilità esplorative (l’utilizzo del rampino, le discese dinamiche e il pugnale per le scalate) aggiungono varietà, anche se queste ultime tendono a essere fin troppo presenti rispetto al passato, quando, come già chiarito, nessuna delle varie componenti del gameplay brilla particolarmente di luce propria. Le sezioni spettacolari (vero marchio di fabbrica della serie) sono invece poche, quando prima erano il focus dell’esperienza, e non è un caso se il capitolo 11, che più richiama la formula del passato, sia di gran lunga la parte più entusiasmante dell’esperienza.
Se, come detto, Nate e Sam convincono e sono fortunatamente quasi sempre al centro della scena insieme, gli altri personaggi non sono mai alla loro altezza… Forse solo Sullivan ci si avvicina, dimostrando di tenere a Nate più di ogni altra cosa in quanto figura paterna, anche se spesso è restio ad ammetterlo davanti a lui, ma non certo davanti a Sam, che osserva con sospetto dal primo incontro, contribuendo ad alimentare la tensione, nonostante, complessivamente, svolga un ruolo minore ed è un peccato. Elena, Rafe e Nadine sono invece abbastanza mediocri: la prima appare futilmente permalosa e vittimista, per poi riconciliarsi col marito nel modo più banale possibile, senza contare che il loro intero conflitto nel gioco è forzato sin da subito: perché mai Nate dovrebbe nascondere alla compagna di mille avventure la necessità di dover imbarcarsi in una nuova impresa per salvare il fratello, vittima di un ricatto pericoloso? Si nota fin troppo bene la volontà da parte degli sceneggiatori di creare un contrasto intimo che non ha però reali basi. Rafe è in definitiva solo il piatto e stantio stereotipo del figlio di papà invidioso del talento altrui, e ciò pesa ancora di più nel momento in cui si ritrova ad essere l’antagonista principale, mentre Nadine è l’emblema della discutibile svolta “politicamente corretta” che Naughty Dog ha preso da The last of us in poi: una donna nera e lesbica caratterialmente piatta e onnipotente a livello combattivo… Ha decisamente anticipato certe derive di TLOU2 in cui, invece di raccontare in maniera interessante la diversità, la si inserisce forzatamente, rendendola onnipresente e inverosimile, facendo di fatto una forma di fanservice proprio nei confronti delle categorie sociali più discriminate.
Per il resto ci sono solo comparse, tra cui spicca una anziana Lara Croft, che tuttavia non risulta poi così divertente come potrebbe sembrare, dato che viene trattata come un semplice strumento narrativo per informare i giocatore su alcuni dettagli della famiglia dei protagonisti. Piuttosto deludente e insulso anche il finale (con immancabile figlia femmina di Nathan che in futuro potrà prendere eventualmente le redini della serie), in cui si ritorna fondamentalmente allo status quo senza che sia cambiato poi molto, senza contare che la “morale” del gioco, ovvero la necessità di abbandonare le grandi aspirazioni giovanili e di cercare semplicemente l’affetto di poche persone care, era già fin troppo chiara da ben prima.
Alla fine ciò che rimane è proprio il rapporto fra i due fratelli, fiore all’occhiello di un capitolo che è per il resto complessivamente mediocre e non raggiunge mai le vette qualitative di Uncharted 2, che meglio di tutti ha incorporato quelle caratteristiche che rendono speciale una serie che ha forse in seguito parzialmente smarrito la sua stessa identità, come spesso accade con tutti i brand di grande successo.