Apro il computer e assisto al film della vita altrui, con i loro gusti, le loro idiosincratiche perversioni, inconfessabili opinioni, gallerie di ricordi opachi ma abbastanza vividi da farmeli desiderare. Non lo so ancora, ma sto diventando il collage rattoppato di sogni che nemmeno loro hanno scelto di vivere.
Cosa significa avere 20 anni oggi, su internet? Significa vivere nell’arcadia che qualcun altro ha conquistato. Significa vivere tra ricordi altrui, le infanzie affollate di pixel su spiagge romagnole affollate di gente, significa vivere nei ricordi di campagna del ragazzo senza internet chiuso nella sua cameretta, “la caverna” con la connessione a 256 kb, le fughe nella sala del tesoro in estasi estive appiccicaticce e umide, dove il tesoro non era il doblone, ma la fessura oscura nella quale inserirlo. Il suo percorso ferroviario, tintinnante, infinito, lungo i capillari della macchina e alla fine…la magia! Le luci si accedono, lo spettacolo ha inizio, la macchina prende vita. Sogni di pixel. E ogni volta il timore che il doblone si sia perso per strada, che sia deragliato, e la macchina rimanga dormiente, la caverna chiusa senza rivelare i suoi segreti di luci.
E poi le riviste geometriche dove quei sogni diventavano di tutti, la dimostrazione che non erano solo privati, che anche gli altri sognavano e che quindi quel sogno era legittimo. Non era solo una fuga, quindi, era la conquista di una terra nuova e di nuovi mari. Le prime ragazze 2D, su quelle pagine patinate e le parate di sogni giapponesi di terza mano, arrivati sudati dopo aver fatto il giro del mondo di corsa per non sbiadire. Pomeriggi assolati di fuochi incrociati, esplosioni deliranti e tagli di capelli appuntiti, motociclisti in tute rosse e megarobot di raggi e di valvole in mezzo a città di vetro taglienti e cicale assordanti.
Quante volte è stata scartata quella macchina di sogni sotto l’albero di natale? Non aveva importanza quale fosse, saremmo diventati di una squadra o dell’altra solo dopo, per giustificare la decisione indifferente di chi aveva procurato il combustibile dei sogni. Le nostalgie del futuro decise dalla scelta casuale di nostra madre. Grigio o nero. L’importante era che il sogno sullo schermo risplendesse di colori, che fossero porcospini blu o idraulici italiani poco importa.
Cosa rimarrà di quegli anni? Un nastro ininterrotto di livelli e il movimento incessante di un’immagine, l’attesa dell’ingranaggio che lavora nell’ombra per dispensare sogni, il palinsesto rattoppato e delirante di cartoni che erano tutti lo stesso cartone, sincronicamente assemblato in un tripudio intertestuale involontario, prodotto dai ritagli di ricordi di un dodicenne davanti a una scatola magica. Rimarranno mensole impolverate di scatole e plastica, cartoni di tubi catodici e riviste ingiallite, o il rimpianto di aver buttato via tutto. Il negativo di un tempo perduto. Rimarrà l’oriente tradotto male eppure perfettamente tradotto. Eppure questi non sono i miei anni. Questa non è stata la mia infanzia. O lo è stata, ma solo perché l’ho rubata.
Cosa rimarrà di questi anni, invece? I miei anni. Cosa rimarrà dell’infanzia di chi ha vissuto un’infanzia altrui? Cosa rimarrà di chi crede che i ricordi degli altri siano più veri dei propri? Tutti quei ricordi non sono i miei, io li ho rubati. Io vivo solo il ricordo del ricordo di qualcun altro, un’eco di terza mano, il Giappone di un’occidentale, i colori sbiaditi dal racconto ascoltato in un video su Twitch, le pagine consumate da polpastrelli che non sono i miei, riflessi indolenti perché ho visto solo altri che allenavano i propri.
Come potrò ritrovare il mio tempo, se il mio tempo è segnato nel minutaggio dei video YouTube nei quali ho vissuto i momenti dei miei ricordi migliori? Se non c’è un tempo perduto, non potrò mai ritrovare nessun tempo. Come potrò dare un senso ai miei imprinting, se i miei imprinting sono quelli degli altri? Su quali bancarelle andrò alla ricerca delle letture della mia infanzia, se ho solo sbirciato i libri letti dagli altri? Potrò solo provare nostalgia per sogni che non ho mai avuto. La mia arcadia, fatta di silicio e di pixel, è il sogno di un sogno, il virtuale di un virtuale. L’ho presa in prestito, sperando che nessuno la richieda indietro. Sperando che nessuno lo noti.
Cosa significa avere oggi 20 anni? Che non potremo mai essere i primi. Non avremo mai l’onore di dimostrare che ogni generazione può riconquistare tutto da capo, perché la conquista di questa arcadia fatta di silicio, ormai è la loro, del bambino delle spiagge romagnole e del ragazzo della caverna. Hanno piantato la bandiera e, come sulla Luna, ormai nessuno tenta più di rifare l’impresa. Potrò continuare a essere un pirata dei sogni, contrabbandiere che solca i mari della memoria degli altri, assaltando navi abbandonate, ormai alla deriva. Potrò depredare i loro bottini, rastrellare dopo che loro hanno compiuto l’impresa. Ma non sarò mai dei loro, non sarò mai l’esploratore e il pioniere. Non saprò mai cosa si prova a fare quel passo, spingere la nave oltre le Colonne d’Ercole, perché ormai le colonne sono state abbattute per sempre. Sono separato da loro dalla scarpata fatta di sogni friabili, che divide il mondo analogico da quello dei pixel. Io sono nato dall’altra parte, e mi trovo a provare nostalgia per chi ha costruito il mondo che abito senza essermelo guadagnato, di chi ha fatto il salto e ha provato il brivido di potersi voltare indietro vedendo qualcosa di diverso. Se io mi volto, vedo solo l’arcadia.
E aspetto il momento in cui potrò, almeno, mettere sotto l’albero la scatola con i sogni per gli esploratori del mondo di domani.