Erano i primi duemila quando David Sirlin, autore del fortunato “Playing To Win” e uno dei primi commentatori “pop” sul game design, si interrogava sul quesito: possono i videogiochi essere educativi e dare lezioni morali? Sirlin si domandava ovviamente non se la storia di un videogioco possa esserlo, ma piuttosto il prodotto nel suo insieme (o, potremmo dire: la trama di un Final Fantasy o un Metal Gear è più educativa perché parte di un videogioco?). Dal momento che a 11-12 anni litigavo frequentemente con i miei genitori su questo tema, sostenendo che i videogiochi non potessero che esserlo – educativi – l’argomento mi ha sempre affascinato.
Avendo sott’occhio le prime suggestioni di questo genere, come ad esempio la discutibile serie Fable di Peter Molyneaux, Sirlin traeva le seguenti conclusioni: o le scelte morali implementate in un gioco sono irrilevanti, e dunque non possono insegnare nulla in sé; o le scelte sono rilevanti in termini di gameplay e allora il giocatore cercherà di ottenere il risultato più desiderato in termini di gameplay – che sia un gameplay facilitato, per es. attraverso ricompense, o uno specifico stile di gioco, ad es. lo sblocco di una classe o di un’arma – e dunque la “lezione morale” passa in secondo piano. D’altro canto, concludeva Sirlin, è impensabile dire che i giochi non siano educativi, solo che l’educazione – o il messaggio morale, se vogliamo – deve passare attraverso la meccanica di gioco in sé; i giochi più formativi per lui, diceva, sono stati gli scacchi e il go, e nessuno dei due contiene una didascalica pretesa educativa ma ciascuno impartisce una certa mentalità. In un certo senso, insegnano attraverso l’esempio.
Il mondo dei videogiochi ha percorso proprio questa strada che lui immaginava: il senso del gioco deve emergere anzitutto o soprattutto da come lo giochi. Non tutti, certo, anzi alcuni mostri sacri sono andati per altre vie: per autori importanti come Kojima o Sakaguchi il videogioco resta un alternarsi di giocato e narrazione dove ciascuna cosa ti premia dandoti accesso all’altra secondo un giusto ritmo e la qualità del prodotto è data dalla qualità massima possibile delle due cose, separate tra loro – anche se, in Death Stranding, Kojima inizia ad ammorbidire questo approccio. In generale però il gioco si è mosso nella direzione di comunicare attraverso il giocato: vuoi con la dissonanza ludo-narrativa (es. Portal: la narrazione ti da delle istruzioni, ma tu impari a disobbedire ad esse) e vuoi con l’assonanza ludo-narrativa che è stata declinata in molti modi diversi: facendoti sentire “a pelle” la storia (Fumito Ueda) o facendo sì che strutturare la storia è in sé e per sé il gioco (per es. Mass Effect, Dragon Age), o ancora rendendo la storia, o meglio la sua interpretazione e il lavorio mentale per estrarne un significato, parte del gioco (Yoko Taro). C’è chi ha tentato di percorrere tutte queste strade in un solo titolo, e si può sostenere che il primo Dark Souls ci sia riuscito. Insomma, si può vedere la storia dell’autorialità nel videogioco come una storia di artisti che si chiedono se e come possa il videogioco dire qualche cosa, se possa comunicare, commuovere, insegnare.
In qualche modo, i prodotti di bandiera della casa Nintendo si sono sempre apparentemente sottratti a questa sfida. Supermario è divertente perché è divertente, Zelda è avventuroso perché lo è. Non c’è nessun messaggio, nessun insegnamento, nessuno sguardo sul mondo. Nintendo con le sue scelte grafiche si è anche probabilmente sottratta (a mio avviso: saggiamente) alla sfida della corsa all’iperrealismo: il gioco è il gioco, non è la vita ma una sua caricatura volutamente assurda, inverosimile, che ricordi un po' i giocattoli dell’infanzia e che non si prenda sul serio. Chi scrive non ha mai avuto in casa una console Nintendo fino a un mese fa, per ragioni sostanzialmente economiche, e ha sempre guardato da esterno, con vivo interesse, soprattutto la serie di Zelda, che quest’anno è destinata a dominare il discorso pubblico con l’uscita di Tears of The Kingdom, titolo che mi ha convinto ad acquistare una Switch dopo averlo provato per due ore, decidendo che finalmente, anche facendo una piccola pazzia, volevo concedermi un “mio” Zelda. Nel corso dei miei anni di formazione ho sempre trovato estremamente interessante la serie, di cui ho giocato solo sprazzi (Ocarina e Twilight, principalmente) a casa di amici: il suo combattimento spesso sottovalutato, basato su problem-solving e toolkit e quasi interamente ripulito da ogni forma di grinding o leveling mi è sempre sembrato l’approdo finale corretto del combattimento GDR; anzi, sosterrei senza problemi che se togliessimo ai Souls i livelli e lasciassimo i moveset lo “strategic swordplay” (o strategic spellcasting, in Elden Ring?) sarebbe solo più interessante, e non ho mai condiviso chi indicava nel combat system il punto debole di Zelda magari rispetto appunto ad un soulslike. Per quanto riguarda il sistema esplorativo è difficile dire qualcosa di buono su Tears of The Kingdom che non sia già stato detto, ma questo si può dire della serie in generale, che quanto a esplorazione è spesso stata l’ultima frontiera dell’industria quasi da quando è nata nel 1986. Non c’è dubbio invece che la trama degli Zelda sia abbastanza piatta: è volutamente archetipica, fiabesca, piena di tropi e persino volutamente ridondante. Chiaramente la Nintendo non avrebbe problemi a pagare uno scrittore per avere una storia più interessante, e chiaramente non gli interessa farlo: c’è una principessa in pericolo, un re cattivo che porta la rovina, un regno portentoso del passato, un eroe candido ma coraggioso, c’è tutto quello che c’è sempre stato ogni benedetta volta, e non è certamente una svista.
Come gioco Nintendo alla sua essenza, quindi, Zelda si disinteressa di insegnarci o comunicarci qualcosa e rimane semplicemente un ottimo giocato, di qualità apicale, si direbbe. Io sostengo che ciò sia assolutamente falso. Tornando a Sirlin, agli scacchi e al go, ci potremmo chiedere: che mentalità mi ha impartito Tears of the Kingdom? Nei giorni in cui l’ho giocato, giorni per me molto difficili e cupi, non posso non accorgermi che le ore di non-gioco sono state comunque segnate da una sensazione di leggerezza e curiosità, di inventiva e di voglia di fare. Naturalmente è un resoconto aneddotico di esperienza personale, e non pretendo che faccia prova di nulla: ma sapendo cosa sto attraversando, provo sorpresa e gratitudine per lo sguardo divertito e trepidante che, in qualche maniera, Zelda mi ha “insegnato”. Quale sarà il prossimo rompicapo? Quale sarà la prossima avventura? Sei sempre lì a chiederti: “E adesso, cosa…?”
Questa ovviamente non è una giustificazione e non rende bella una narrazione che rimane banale. Un altro gioco che mi fece un effetto simile, aiutandomi in maniera percepibile in tanti degli aspetti più faticosi della mia vita (negli studi in giurisprudenza, nello sport e nel lavoro in cucina), è stato Bloodborne: nel gioco ho imparato a praticare qualcosa che nella vita praticavo con estrema difficoltà, lo scagliarmi volontariamente contro difficoltà che sembravano inizialmente insormontabili, avanzando con fallimenti e piccoli progressi. Questo per dire che un gioco non ha “bisogno” di una storia inconsistente per avere un giocato educativo e profondo. Si può ancora obiettare che l’ingegno umano resta limitato, e degli autori scelgono giustamente su cosa concentrarsi e investire: anzi, questa è l’essenza della loro autorialità.
Zelda Tears of the Kingdom è un gioco enorme, ma in tutta la sua vastità contiene solo una cosa: l’avventura. La sfida è imparare a riconoscerla come tale, a ridere, ad emozionarsi, solo perché al nostro istintivo “e adesso cosa…?” il gioco risponde sempre, senza pretese d’intellettualismo, senza pesantezza o cerebralità, ma solo divertendosi e volendo divertire. Sentire l’avventura. Con un po' di fortuna, è una lezione che applicheremo anche alla vera, grande avventura. Il gioco nasce per imitare la vita e sperimentarla in un ambiente sicuro, diceva sempre Sirlin: cioè per allenarci a viverla.
Chiudo l’articolo, fuori mi aspetta una bella giornata di sole, e molte difficoltà, e forse dolore. I dolori con cui conviviamo tutti: progetti falliti, famiglie da sostenere, sogni da inseguire o lasciare andare, malattia, morte. I primi di giugno, in Sicilia, sono sempre incantevoli, e in città arriva l’odore del mare.
“E adesso, cosa?”