Fino a qualche anno fa mi capitava spesso di chiedermi perché mai ci fosse qualcuno interessato a guardare film in bianco e nero. Era una domanda piuttosto angosciante per me: non capivo il motivo per cui alcune persone perdessero il loro tempo a fissare immagini che non potevano rivaleggiare con la complessità cromatica dei film a colori e gli effetti speciali iper realistici non facevano che rinvigorire questa convinzione. Ora non la penso più così, per fortuna. Da allora qualcosa è successo. Sono cresciuto e ho studiato.
Anche se l’idea che i film in bianco e nero siano espressivamente inferiori a quelli a colori è banalmente superficiale, credo che la mia presunzione giovanile faccia sorgere una domanda importante, che accomuna cinema e videogiochi come mezzi espressivi. In effetti, prima che nascesse la fotografia e in seguito il cinema, non esisteva una forma d’arte che dipendesse in maniera così decisiva dalla tecnologia del mezzo di registrazione e riproduzione del messaggio artistico.
Dalla meccanizzazione dei processi produttivi delle opere, dal momento quindi in cui esse diventano opere potenzialmente di massa, si è sempre assistito al dilemma tra esigenze produttive/economiche e ricerca della resa estetica. Alexandre Dumas ad esempio, durante la stesura del Conte di Montecristo veniva pagato dall’editore a parola, e inevitabilmente questo ha prodotto delle conseguenze sull’opera finale, nella quale abbondano ripetizioni, perifrasi e ridondanze. Tuttavia è con il cinema che il rapporto tra produzione industriale ed esigenze autoriali va davvero in cortocircuito. Il cinema, nella sua prima fase di espansione commerciale è dominato dagli studios hollywoodiani. In questa fase il regista, la figura a cui oggi noi attribuiamo la qualifica di autore dell’opera, era poco più che un faccendiere, un mestierante al servizio delle major. Paradossalmente, se di autore si può parlare in questa fase della storia cinematografica, lo si dovrebbe cercare tra i produttori. Il cinema non è stato solo fortemente influenzato dalla filiera produttiva necessaria alla realizzazione di opere in cui si mischiavano diverse professionalità e diverse intenzioni, ma anche e soprattutto dalla tecnologia realizzativa. L’invenzione dello schermo a colori, il passaggio da film muto a film sonoro, sono stati veri e propri cataclismi nell’industria del cinema, che hanno addirittura rischiato di farla scomparire. L’influenza del supporto tecnologico sul contenuto, nel cinema, ha la stessa importanza solo in un altro medium: quello videoludico, dove anzi è portata alle estreme conseguenze. Per un’analisi di tutti i modi in cui la tecnologia può influenzare il valore di un’opera videoludica rimando all’ottimo articolo di Mauro Abbattista, “Guardare i pixel”.
In quei medium in cui l’importanza della tecnologia nella realizzazione di un’opera è così decisiva, si crea una apparente asimmetria tra l’universalità astorica a cui un’opera tende e la contingenza dei mezzi di produzione, delle tecnologie realizzative e delle tecniche possibili, soprattutto perché questi medium sono audiovisivi, e si basano in modo fondamentale sulla resa visiva . Nel cinema e nel videogioco, sentiamo di poter usare con più legittimità che nella letteratura, il concetto di invecchiamento di un’opera, perché ci sono dei criteri oggettivi che qualificano un’opera come vecchia o obsoleta, a partire proprio dalla tecnologia usata, laddove è più difficile capire in che senso una tecnica narrativa o di gameplay sia “vecchia”. Questo fa sorgere un interrogativo: cosa fare del passato in medium il cui elemento estetico di base (o uno dei) è l’elemento visivo? Questa domanda è tanto importante perché se l’opera che produciamo dipende così irrimediabilmente dallo stato dell’arte tecnologico del periodo in cui la produciamo, siamo sicuri che prima o poi arriverà un tempo in cui quell’opera sarà diventata obsoleta, per lo meno nella tecnologia realizzativa, a meno di non supporre che di colpo si arresti il progresso tecnologico. E quindi la domanda davvero interessante da porsi, nel caso di medium audiovisivi, è: può un’opera tecnologicamente obsoleta restare esteticamente valida dal punto di vista visivo? Può un’opera “vecchia” rimanere visivamente rilevante o ogni opera audiovisiva può ritenersi fortunata al massimo a diventare un documento? Inconsapevolmente era questa la domanda che mi ponevo quando la repulsione verso i film in bianco e nero era così radicata nella mia mente, certamente in modo maldestro e grossolano. Nella mia ingenuità giovanile quei film avevano al massimo valore documentale, vestigia museale di un’altra era. La conseguenza del mio ragionamento era che l’arte audiovisiva, e solo lei, avesse un tempo di scadenza. Inevitabilmente. Ogni opera prima o poi diventava un documento, che non aveva più valore estetico, ma il cui unico pregio era quello di fotografare, come fosse una traccia fossile, un certo canone produttivo, più che un canone stilistico.
Quando ho iniziato a studiare i videogiochi e il loro linguaggio espressivo, questa idea l’avevo abbandonata da tempo, eppure essa si è riproposta presto in altra forma non appena ho scoperto abbastanza della cultura videoludica da sapere che esista una pratica chiamata retro gaming, a prima vista vezzo masochistico del nostalgico, ma in realtà piuttosto simile alla pratica di vedere film in bianco e nero. Al netto delle varietà di gameplay, mi chiedevo perché alcune persone trovano bella la grafica di videogiochi vecchi di 30 anni, o il bianco e nero del cinema classico? Al netto delle somiglianze, è interessante vedere quanto differiscono le due pratiche. Tra il film moderno e quello più vecchio c’è una differenza molto più piccola che tra il videogioco moderno e quello vecchio. Quindi anche se le due coppie sono simili dal punto di vista concettuale, dal punto di vista concreto della fruizione vera e propria lo sono molto meno. Dal film muto in bianco e nero al film a colori sonoro, c’è un processo di aggiunta, che costruisce però sulla stessa grammatica espressiva, per quanto i vari passaggi abbiano accomodato certi cliché espressivi e ne abbiano fatti scomparire altri. Invece, da Space Invaders a The Last of Us Parte II, sembra non esserci solo un’aggiunta o un miglioramento graduale in una storia di continuità espressiva, ma un vero e proprio salto. Ci tengo a precisare che il mio è un discorso che si concentra sull’aspetto visivo dei giochi, tralasciando tutte le altre componenti ludiche come il gameplay, quindi quando parlo di salto non parlo di salto propriamente ludico, ma puramente visivo. Questo salto è possibile perché l’unità minima della grammatica videoludica è qualcosa che può essere implementato in una varietà incredibile di modi diversi: l’interazione. L’interazione permette di costruire videogiochi che sono così diversi l’uno dall’altro che l’unica cosa che li lega è appunto l’interazione. E nient’altro. Chiamiamo videogioco sia FIFA che Metal Gear Solid, che sono divisi da una distanza tale che nessun altro medium può giustificare se non il videogioco stesso. La varietà delle opere videoludiche, fa sorgere il problema di come valutare in modo uniforme le diverse soluzioni visive che opere diversissime intraprendono.
Questa caratteristica del videogioco rende problematico l’utilizzo di categorie critiche uniformi per quanto riguarda molti parametri. Uno fra tutti è la resa visiva, in quanto il videogioco si compone oltre che del gameplay, di importantissimi elementi visuali. Un videogioco è un’opera in cui vediamo quello che giochiamo. Le due categorie estetiche principali in ogni recensione mainstream sono infatti gameplay e grafica. E questa tendenza non è affatto sbagliata, in linea di principio. Ogni gioco infatti ha una grafica, termine ombrello che tiene sotto di sé molteplici significati: dall’interfaccia dei menù, alla risoluzione al fram-rate, al character design e la direzione artistica degli spazi di gioco. Il problema è che la maggior parte delle volte quando si analizza la grafica ci si riferisce a una sua possibile declinazione che viene assunta a paradigma di “bella grafica” e sul quale si valutano per confronto tutte le altre come termine di paragone: si valuta un gioco nella sua capacità di assomigliare alla realtà, essere fotorealistico. Qui, la tendenza in linea di principio condivisibile, di parlare della grafica, viene realizzata in modo piuttosto discutibile.
Un giorno consideravamo questa una bella grafica:
E questa:
Oggi una bella grafica è questa:
O questa:
Una bella grafica sembra essere una grafica capace di assomigliare alla realtà. Tuttavia, questa tesi fa sorgere un problema piuttosto importante: dato che la somiglianza fotorealistica della grafica dipende in modo fondamentale dalla tecnologia, ogni grafica fotorealistica è destinata a un invecchiamento precoce. Alla luce di questa evidenza, dovremmo trarre la considerazione amara che ogni opera sia solo un prodotto da consumare nel presente, pronto a essere gettato via nella discarica dei ricordi non appena sopravanza un miglioramento tecnologico nella resa visiva. Ma non è così semplice. In effetti, la mia opinione è che quelle riportate sopra non fossero belle grafiche, e che non lo siano nemmeno le ultime degli ultimi videogiochi Tripla A, da Far Cry a Call of Duty, da The Witcher III a Cyberpunk 2077. Sembra una tesi abbastanza forte, ma ritengo che al massimo, queste siano grafiche moderne, non belle. Sono infatti tutte piuttosto simili, rendono i videogiochi tutti piuttosto simili e uniformati nella resa visiva. Se il termine “belle” vi sembra troppo carico, potremmo usare “stilisticamente interessanti”.
Qual è l’equivoco che ci porta a considerare quelle di sopra delle belle grafiche a cui ambire? L’equivoco è confondere rappresentazione con riproduzione. Il valore artistico della grafica di un’opera sta nel modo in cui essa sfrutta gli inevitabili limiti tecnologici a cui va incontro e propone rappresentazioni stilizzate della realtà, piuttosto che tentativi di riproduzione. Per questo motivo riconosciamo un valore visivo, grafico anche a dei videogiochi che dal punto di vista tecnico sono limitati rispetto a oggi. Come questo:
O questo:
O questo:
Questa grafica invecchia con molta più difficoltà della grafica che si sforza di essere iperrealistica. L’acclamata grafica di The Witcher III, che ai tempi in cui uscì impressionò tutti, oggi impressiona già molto meno, e solo passati solo 7 anni, che in termini di avanzamento tecnologico sembrano un’eternità. Credo che tutte le opere del genere siano destinate a invecchiare male prima o poi, semplicemente perché esiste un criterio oggettivo per valutarle: il confronto con la realtà. E visto che possiamo essere sicuri dell’avanzamento tecnologico, possiamo anche avere la garanzia di un invecchiamento piuttosto veloce. È interessante anche capire come si comporterà il videogioco quando, e se, avrà raggiunto il limite superiore del realismo grafico: a quel punto tutti i giochi con un budget abbastanza alto saranno uguali tra loro e perfettamente uguali alla realtà nella resa visiva? E dove si potrebbe collocare l’originalità e l’unicità visiva di un videogioco, a quel punto? Vedremo. Fatto sta che al contrario, sottraendosi alla valutazione dell’accuratezza riproduttiva della realtà, le opere che scelgono di usare una grafica non fotorealistica, stilizzata, possono ambire a una resa visiva praticamente immortale, a prescindere dalla risoluzione e dal frame-rate e dal gameplay. Non è un caso ad esempio che Pac-Man sia stato portato al MoMa1. Ciò che gli permette questa immortalità è la stilizzazione, che ci dà l’occasione di riflettere sull’equivoco citato prima: quello per cui l’arte serva a riprodurre la realtà. In realtà l’arte rappresenta la realtà, senza riprodurla. La differenza è che la rappresentazione si basa sull’isomorfismo tra due codici, mentre la riproduzione si basa sulla sovrapponibilità tra copia e modello. Il rapporto tra copia e modello è univoco: c’è solo un modo di farlo bene.2 Il rapporto isomorfico tra modello e rappresentazioni, invece, permette diverse rappresentazioni possibili della cosa rappresentata. Questo perché la rappresentazione isola elementi salienti in ciò che rappresenta, e tenta di tradurli, adattarli ed esprimerli da un codice a un altro. C’è dunque un duplice rapporto nella rappresentazione, che è il motivo che le consente di poter essere esteticamente pregnante: da un lato quello tra la cosa rappresentata e la rappresentazione, dall’altro il rapporto della rappresentazione con la grammatica dei suoi codici espressivi.
Così ad esempio la riproduzione di un volto può essere fatta solo in un modo, questo:
La rappresentazione di una figura può essere fatta invece anche così:
In grafica a 16-bit, non è bello ciò che è simile al modello della cosa rappresentata (nel caso di Mario, un uomo), ma è bello ciò che risponde bene alle regole interne alla grafica 16-bit. Così la rappresentazione sposta l’asse della discussione dal confronto “esternista” tra realtà e arte, al confronto “internista” tra arte e sua coerenza interna, sue possibilità espressive.
Il discorso intorno alla grafica è dunque un discorso molto relativo, al contrario del modo assolutistico in cui viene inteso dagli appassionati del videogioco oggi soprattutto nelle discussioni online. Soprattutto nella fruizione del videogioco di massa, la grafica fotorealistica diventa uno dei principali criteri di giudizio dell’opera. Sono i limiti a costringere alla creatività perché impongono agli autori di trovare delle soluzioni uniche. Per questo motivo, probabilmente riesce a essere molto più evocativa la stilizzazione estremamente semplice ed elegante della grafica di Hollow Knight piuttosto che la grafica iperrealistica di Call of Duty3. Forse perché l’iperrealismo fa perdere le misure di ciò che è possibile fare, mentre una grafica stilizzata manifesta chiaramente il suo limite e rende quindi ben chiara anche la sua abilità nello spingersi ad aderire al massimo ad esso. La creatività emerge molto più chiaramente quando i vincoli sono esplicitamente percepiti. Come dice Eco:
Materia dunque quell’ostacolo sul quale si esercita l’attività inventrice, che risolve le necessità dell’ostacolo in leggi dell’opera.4
L’abilità poetica di Dante è così conclamata perché la struttura attraverso cui la esprime è estremamente rigida: l’endecasillabo e la rima alternata. Dante non sfugge mai a questa regola nella Divina Commedia, ed essa trae parte della sua bellezza della percezione dell’armonia perfetta che corre tra quella struttura estremamente rigida e l’espressione di qualcosa, come “ostacolo scelto perché si faccia suggerimento di azione”5. Il concetto fondamentale è però che la bellezza non sta nel contenuto, perché esso non esiste a prescindere dal modo in cui è espresso. La bellezza sta nell’armonia tra i due. Il linguista russo Jackobson credeva che la funzione poetica del linguaggio dipendeva dal fatto che un testo poetico è quello che costringe il lettore a tornare sul testo per analizzare il modo in cui è costruito. Ecco, è esattamente il punto.
L’iperrealismo sembra quasi celare i limiti. Questa operazione di nascondimento dei limiti ha come conseguenza nella maggior parte dei videogiochi tripla A moderni, l’irrilevanza della grafica, che da possibile valore aggiunto diventa uniforme e irrilevante, poco comunicativa e scontata nelle grandi produzioni. La differenza che sembra delinearsi sembra essere quella tra grafica moderna e bella grafica, ed esse non per forza corrispondono. Una grafica moderna è relativa a un’epoca storica e presto non è più tale, la grafica bella invece è tale a prescindere dall’epoca storica, perché si definisce in base alla percezione di un’armonia tra limite ed espressività, veicolata da alte dosi di stilizzazione. Ecco il punto risolutivo: la stilizzazione. Essa è resa possibile dallo scarto che permette la rappresentazione, tra cosa rappresentata e rappresentazione stessa, che permette all’autore di aggiungere qualcosa alla realtà, di fare qualcosa che percepiamo come originale nella misura in cui deve fare delle scelte di pertinenza, deve decidere quali elementi isolare, quali sono gli elementi caratterizzanti della cosa che si rappresenta e il modo in cui tradurli nella grammatica del medium che usa per esprimersi. Queste scelte e queste informazioni non sono già contenute nella percezione della cosa. Questo è lo stile: un modo di risolvere un problema entro certi limiti che impongono un pool di soluzioni abbastanza piccolo da essere una sfida ma abbastanza grande da non essere contenute banalmente nel problema.
Come riporta Goodman nel suo testo I linguaggi dell’arte: “all’arte non si richiede di copiare la realtà; di quella dannata cosa ce n’è già una.”
Una riflessione a parte meriterebbe il caso The last of Us Parte II, più volte rievocato nell'articolo anche con delle immagini. In questo videogioco la grafica estremamente realistica non è un valore in sé quanto nel modo in cui viene usata e nel livello di stilizzazione (appunto), intesa come ricerca del gusto visivo, che comunque emerge da un impressionante fotorealismo.
U. Eco, L’estetica della formatività, in Sull’arte, scritti dal 1955 al 2016, a cura di Vincenzo Trione, La nave di Teseo, Milano, 2022, p. 44
Ivi.