Vi racconto un aneddoto.
Ho un ricordo particolare legato alla mia prima run su Dark Souls III, il primo titolo che ho giocato su una console di mia proprietà, ormai 3 anni fa proprio di questi tempi. Un giorno, tra i tanti giorni che erano tutti lo stesso giorno, durante la mia avventura virtuale, a Trento piove e nell’incrocio subito davanti al portone di casa mia un semaforo segna verde. Le pozzanghere per terra riflettono la luce creando quello strano effetto di distorsione del colore così simile a quello prodotto dal caldo sullo stesso asfalto durante le torride ore estive. Mi giro e per terra vedo delle anime da recuperare. Prima ancora di vedere una luce verde riflessa sull’asfalto bagnato.
Non ho riportato l’aneddoto per auto denunciare una immersione ossessiva nel gioco, anche se la mia prima esperienza videoludica da adulto è stata caratterizzata dall’ossessione e da un’immersione totalizzante. Ho riportato l’aneddoto per parlare del modo in cui l’arte opera sulla nostra percezione del mondo. Chi consuma grandi quantità di opere di narrativa, che sia fiction o non-fiction, è accomunato dalla forte convinzione che la realtà da sola non sia abbastanza.
La passione per la storie dei film, della letteratura, per le emozioni di una sinfonia o quelle di un dipinto, sono l’ammissione di una insufficienza personale: non solo la realtà non è abbastanza, ma non lo sarebbe nemmeno la mia interpretazione del mondo. Il lento lavoro di creazione di una bibliografia personale, la mappatura del continente della cultura secondo un percorso che è inevitabilmente unico e personale, consiste nel dotarsi di un armamentario di opzioni interpretative enormemente più vario di quello che potremmo raggiungere da soli.
In questo senso assume significato la frase fatta per cui la cultura rende liberi. Al contrario di quello che potremmo pensare, moltiplicare le influenze non riduce lo spazio di manovra interpretativa, vincolandoci alle parole parlate da altri, ma lo fa fiorire, anche perché parleremo sempre le parole di altri, a meno di non volerci rassegnare a tacere come voleva Wittgenstein nel Tractatus1. Quando leggiamo grande letteratura, ci esercitiamo a vedere il mondo secondo sensibilità di personaggi e autori diversi, impariamo a strutturare la nostra stessa emotività in modi discorsivamente più ricchi e sfaccettati, modi a cui non avremmo accesso senza l’input esterno che ci forniscono i libri. La letteratura ci suggerisce che senza il supporto materiale della scrittura, non saremmo in grado di sviluppare quella nitidezza dell’ambiguità che caratterizza per sua stessa natura ogni sforzo artistico, che “monumentalizza” qualsiasi cosa esso tocchi, anche quello che non è abbastanza chiaro e lineare da essere monumentale.2
La pittura ci offre varie modalità di guardare il mondo, sviluppando una sorta di capacità “sovraimpressiva”, che struttura e accompagna quello che vediamo in modo che sia difficilmente distinguibile la realtà da un lato e quello che imprimiamo su di essa in modo arbitrario, dall’altro. Il risultato è però il contrario dell’arbitrarietà, per quanto ogni nostro passo nel mondo sia riconducibile, in ultima analisi, a un passo non giustificabile se non nell’arbitrio. Un campo di grano non è mai solo un campo di grano ma sempre anche questo campo:
O pensate a quanto sia inscindibile in Occidente, la figura della divinità dalle sue infinite rappresentazioni. Per me l’iPhone 5 sarà sempre il monolite di 2001: Odissea nello Spazio, solo perché mio padre una volta mi ha suggerito la somiglianza tra i due. Chi vive la cultura in modo profondo, è destinato a vivere per sempre entro una rete di riferimenti ipertestuali in cui tutto rimanda a tutto il resto.
Ogni medium usa un alfabeto su cui costruisce una grammatica, una sintassi, una prosa e una semantica. Nell’esempio che ho usato sulla letteratura e la pittura è chiaro che questi due medium facciano leva su delle abilità che non inventano ma che assecondano e articolano, appunto. Ma i videogiochi cosa offrono? Quali opzioni moltiplicano? Rispondere a questa domanda significa rispondere alla domanda sulla specificità dei videogiochi. Qual è l’essenza del medium? Se la letteratura articola le nostre capacità discorsive intessendole alle nostre emozioni e la pittura lo fa articolando le nostre capacità visive, se il cinema mischia insieme la discorsività emotiva della letteratura usando come prosa del suo discorso l’immagine, come fa la pittura, e il movimento, come fa la danza, cosa fa il videogioco? A partire da quale elemento fondamentale crea significato il medium videogioco?
Dalle meccaniche di gameplay ovviamente: è lì che dobbiamo cercare il grimaldello. Ma dire questo equivale solo a riconoscere un alfabeto, come dire che la letteratura insiste sulla scrittura. Qui si tratta di articolare una grammatica e una sintassi. E per faro dobbiamo capire quale disposizione umana il gameplay formalizza. Secondo C. Thi Nguyen, che espone la sua tesi nel libro Art as Agency, le meccaniche di un gioco sono il precipitato cristallizzato di modelli di agency. Abbiamo un primo indizio per comprendere la sintassi di un gioco e, soprattutto, abbiamo anche una direzione per comprendere il funzionamento di una semantica del medium videoludico. Secondo Nguyen possiamo vedere i videogiochi come delle opere che formalizzano, impacchettano e comunicano modelli di comportamento pratico, forme di agency. Lo sforzo di un videogioco è quindi quello di monumentalizzare delle pratiche di comportamento. Imparare a godere del fallimento e dalla frammentarietà irrisolta del senso del mondo come in Dark Souls, o adottare il senso esplorativo davanti alla meravigliosa vastità della realtà come in Zelda: Breath of the Wild, articolare le proprie capacità analitiche e geometriche come in Fez, o adottare un’ironia metatestuale per denunciare una situazione opprimente come in The Stanley Parable. I videogiochi arricchiscono la varietà di comportamenti possibili, fornendoci modelli di comportamento, che per quanto cristallizzati, semplificati e compressi per adattarsi alla loro esecuzione algoritmica, sono delle tracce che amplificano le nostre opzioni comportamentali.
La nostra libreria di Steam diventa una cassetta degli attrezzi, una sorta di coltellino svizzero di strategie di azione. Non sto sostenendo ingenuamente che possiamo prendere quello che facciamo in un gioco e applicarlo pedissequamente alla realtà, esattamente come non dovremmo applicare quello che vediamo da spettatori in un film. Le opere sono delle tracce che fanno esplodere la nostra capacità critica. Eppure il rischio di rimanerci impigliati esiste ed è strutturale all’immersione in quell’universo ipertestuale e sovraimpresso di cui parlavo prima. Le grandi opere sono forse quelle che pur non rinunciando al piacere della semplicità della finzione, forniscono strumenti per problematizzare la semplicità che le rende possibili, e non fermarsi ad essa. Perché? Perché le grandi opere si chiamano tra loro e esortano a non fermarsi sul posto, innescano quell’insofferenza per la semplicità che viceversa disinnesca i rischi dell’autoreferenzialità su cui pure ogni opera si fonda. Sono convinto che esista un’alternativa sia all’escapismo che si rifugia nell’estetizzazione di tutto e che produce paradossalmente una neutralizzazione di tutti i valori, sia all’applicazione ingenua dei modelli narrativi alla realtà, che ci illude di essere riusciti a portare l’arte nella vita solo perché si è ridotta la realtà ad essa. E i migliori videogiochi vanno in questa direzione, o ispirano quel modello di apertura critica che permette di vivere una vita culturale ricca, perché moltiplicano le nostre opzioni di ragionamento, di immagini mentali, di reazioni.3 Sono delle dita puntate. Non dobbiamo confonderle con la Luna.
La nostra libreria di esperienze videoludiche, letterarie, cinematografiche, dovrebbe farci diffidare di entrambe queste strade se è valsa a qualcosa costruirla. L’arte, l’interesse (per usare un termine meno carico e meno problematico), di un'opera videoludica, si trovano nel modo in cui essa veicola i modelli di agency che propone al giocatore. Dire che i videogiochi articolano modelli di agency come la letteratura articola capacità discorsive, significa parlare del cosa di un medium. Questo non garantisce che qualsiasi modello di agency proposto sia bello, o interessante, ma ci fa almeno indirizzare l’attenzione sul posto dove potremmo cercare interesse e bellezza.
Sarebbe interessante analizzare come il suggerimento a tacere con cui si chiude il Tractatus possa essere letto alla luce della convinzione del secondo Wittgenstein che non esiste il linguaggio privato, come invece sempre preconizzare appunto nella chiusura misticheggiante della prima fase della sua filosofia.
Cfr. Eliot quando nel saggio Tradizione e talento individuale parla della differenza tra l’emozione della poesia e quella della vita reale, sostenendo che seguano regole diverse.
Pensate al modo in cui The Last of Us problematizza modelli di agency basati sulla violenza a fin di “bene”.