“Oh destriero! Vecchio destriero uso alla battaglia, che adesso sei legato alle pastoie nel campo, ricordi ancora la tua giovinezza?”1
Avete mai creato una tenda con le coperte del vostro letto? Vi siete mai nascosti, torcia alla mano, in un andito della casa, coperti da tutti i lati, non uno spiraglio di luce che passi, o forse uno solo per sbirciare che non vi sia qualcuno, per vederlo mentre lui non vi nota? Potete ancora accendere la torcia, di notte, rintanarvi nel lenzuolo e leggere qualcosa; ma se vi fosse vietato?
Nel 2018 Jagex chiuse i server di Ace of Spades (AoS). Il gioco era un battle-builder (sparavi, costruivi, distruggevi) partorito dal successo di Minecraft, uno tra molti cubici figli oggi dimenticati.
Le mappe erano città, castelli o campi di battaglia pressoché vuoti. Nell'immensità di esse i giocatori erigevano costruzioni massicce, monumenti involontari sbilanciati e deformi nell'atto di espandersi. Un misto di vertigine e sicurezza nel camminarvi sopra, un misto di timore e ardore nel percorrerli da sotto, con il fucile puntato sui bordi, pronti all'avvistamento del nemico.
Linfa vitale di Ace of Spades erano tre principi: la gravità , la costruibilità e la distruttibilità: Ciò che vuoi lo edifichi ; ciò che colpisci si rovina; ciò che si rovina, si rompe; ciò i cui sostegni sono rotti, cade. I più accorti avranno già pensato a Fortnite, ma vi è una differenza essenziale . In AoS non vi era diversità tra creazione del player e terreno di gioco, dettaglio fondamentale tanto per la possibilità di azioni sotterranee quanto per la capacità di terra-formare a piacimento la mappa senza la necessità di palesare un'evidente cambiamento dalla disposizione default. Quest'ultima accortezza era presente grazie alla possibilità di scegliere il colore dei propri blocchi, consentendo quindi il camuffamento dell'umano e la capacità di eseguire manovre stealth: varchi ben celati, depistaggi artistici.
Le modalità di Ace of Spades di cui ho profonda nostalgia e maggiore memoria sono due: la classic e la zombie. La seconda era un gioco per bambini, non nel senso dispregiativo vastamente utilizzato , bensì nella rara forma di altissimo encomio. I sopravvissuti si preparano alla battaglia e il mostro prescelto tra loro si trasforma, sul luogo e all'istante, in una minaccia. Nel momento in cui tocca (leggasi: uccide) un umano il malcapitato si unisce al team dei non-morti, acquistando la possibilità di respawn. Vincono i vivi se qualcuno si tiene stretto l'encefalo per tutto il tempo prefissato, vincono gli zombies se convincono la totalità dei presenti ad arruolarsi nel loro esercito. Il trucco sta nel furbo bilanciamento dei principi del gioco: gli umani, superiori in numero all'inizio del game, hanno incredibile capacità costruttiva ma soffrono la gravità; i mostri, ben più resistenti alle cadute, hanno incredibile velocità e capacità distruttiva. Risultava una modalità di gioco frenetica da ambo i lati: l'adrenalina nella fuga dall'orda e nel rifugio tra la comunità di umani, la tentazione di avventurarsi in solitario per godersi il pericolo e la tensione; l'azione rapida e gratificante della distruzione, le strategie di inseguimento sulle vertiginose e improbabili strutture artificiali, lo smantellamento delle fondamenta degli edifici e l'attesa della caduta dei fragili vivi. Si alternavano la sensazione calda del buio sotto le coperte, quello sguardo avido attraverso il lembo sollevato e la corsa incessante dell' “acchiapparella”
La modalità classic era un cattura la bandiera, comune a molti giochi. Una valigetta di informazioni ad ogni lato della mappa, rubi quella del nemico e la porti alla base. Durava circa un'ora. Uno degli aspetti interessanti era la possibilità di costruire attorno al proprio Quartier Generale gargantueschi edifici, che spostavano lo spawn della valigetta sulla loro cima, o al loro interno. Con l'avanzare del tempo si espandevano le architetture, si avvicinavano tra di loro, si ampliavano, si moltiplicavano. Con esse, e al di sotto di esse, qualcosa si fabbricava e disfaceva silenzioso.
Il tunnel era il vero simbolo di “Ace of Spades”: trasversalmente presente in tutte le modalità, questa galleria solitamente alta due blocchi permetteva l'attraversamento della mappa dal sottosuolo. Costruirla? Un gioco da ragazzi; bastava la pala in dotazione, la visuale alla giusta inclinazione e una pressione costante del tasto sinistro del mouse. Dietro a noi la base, davanti a noi l'obbiettivo, con noi nessuno. Sopra il tunnel suonavano i passi, deflagravano le granate, scoppiavano i fucili. Alla distanza giusta si decideva l'emersione, nella speranza di colpire il fianco dello spawn nemico. Giunto il momento del decesso, attesa la rinascita, si ritornava di fretta all'interno del proprio traforo, arma alla mano, con un pensiero in testa: “E se il nemico lo percorresse nel verso opposto, se adesso nel fondo del tunnel mi aspettasse la sua arma, se fosse pronto a (...)”
Qualcuno solleva le coperte sotto il quale eri nascosto: “È pronta la cena”.
“O destriero!
Di' che ti piace il suono della tromba che ti incita al galoppo, anche se la gamba sanguina, ferita dal ferro delle pastoie!”2
La saga di Gösta Berling, Selma Lagerlöf. Edizione Iperborea con traduzione di Giuliana Pozzo.
Ivi