Se è vero, come voleva László Moholy-Nagy, che l’analfabeta del ventesimo secolo è colui che ignora la fotografia, dev’essere altrettanto vero che l’analfabeta del nostro secolo è colui che non comprende il funzionamento delle meccaniche digitali; l’obiettivo diventa allora, di volta in volta, ridurre l’analfabetismo, e farlo attraverso la comprensione di meccaniche vecchie e nuove.
Con meccanica digitale ci si può riferire a un disparato complesso di fatti tecnologici, che vanno da quelli richiesti per utilizzare uno smartphone alle azioni necessarie per terminare un videogioco più o meno complesso. Le meccaniche hanno forti analogie con i linguaggi parlati, e non è improprio dire che funzionino allo stesso modo sotto più punti di vista. Per esempio, ogni volta che in un videogioco viene introdotta una nuova meccanica, noi ci troviamo dapprima spaesati, e la nostra facilità di utilizzo ne viene minata, al punto che dobbiamo rimettere in discussione le nostre capacità di adoperare periferica di gioco e software; allo stesso modo, quando in un linguaggio viene introdotto un termine nuovo o si introduce una variante di un termine preesistente, si generano all’inizio dei cortocircuiti linguistici e talvolta persino logici, e solo quando (e se) la nuova parola viene vidimata dalla collettività l’allarme rientra, e lentamente si riproduce quel senso di naturalezza.
Acciambellati nei propri sintagmi, nel corso della loro storia i videogiochi hanno in più occasioni fissato degli standard linguistici e non hanno ritenuto di reinterpretarli o ripensarli a fondo. Proprio per questa ragione, ogni volta — e sono poche le volte — che un videogioco è in grado di rompere la barriera si ha la sensazione che quell'elemento di novità fosse sempre stato lì, sotto gli occhi di tutti, prodromo di un meccanismo che solo il bravo designer è stato in grado di sottrarre dalle brume del pensiero, facendolo diventare un elemento inedito del mezzo.
Introdurre una nuova meccanica o reinterpretarne una vecchia sono infatti due delle sfide più interessanti fra quelle offerte dal videogioco, perché significano ridiscutere i fondamenti del linguaggio e provare ad affrontarli da un’angolazione nuova, che ci consenta per difetto di renderci conto delle caratteristiche ed eventualmente dei problemi che stavano alle fondamenta del linguaggio stesso, al punto da sollevare nuovi interrogativi e proporre nuove strade da battere. Questo proposito di ridiscussione è fondamentale per i mezzi espressivi, ma richiede anche una certa acribia: è indice del fatto che il mezzo è per così dire sano, in quanto tende a non stagnare sempre nei medesimi presupposti; e anche che, al contrario, esso ripensa criticamente i propri postulati.
È altrettanto vero, però, che introdurre una nuova meccanica e ridiscuterne una esistente appartengono a una di quelle rare eventualità che solo di rado abbiamo il piacere di sperimentare, proprio come le lingue introducono nuovi termini — o variazioni di termini vecchi — lentamente, a causa di un ingente flusso di dati e influenze provenienti da più campi. Proprio perché cambiamenti radicali di questo tipo sono costitutivamente rari, ogni volta che se ne presenta uno abbiamo in qualche modo l’onere e l’onore di fermarci e interrogarci su cosa quel fattore di cambiamento può dire di inedito sul mezzo, sempre posto che riesca a farlo. Nel caso dei videogiochi, l’effetto shock provocato dall’introduzione di una nuova meccanica (o da una meccanica vecchia ora riformulata) è particolarmente accentuato, sia perché i videogiochi posseggono un linguaggio di base, fondato sull’interattività, costitutivamente molto aperto e ricco di variabili, sia perché i suoi lessemi non sempre sono chiari da subito, rendendo di conseguenza ostico analizzarli e comprenderli a fondo; al contrario, spesso questi passano sotto traccia, e a noi non ne resta che il crudo e opaco effetto retorico.
Proprio a causa di questa sorta di volatilità costitutiva, i videogiochi offrono spunti di riflessione pressoché incombustibili; un po’ come affermato da Mark Cousins a proposito del linguaggio cinematografico1, è proprio quando si ha la sensazione che un mezzo abbia detto quel che doveva dire che dovremmo porre maggiore attenzione ai fenomeni di cambiamento e reinterpretazione dei suoi sintagmi.
LE MECCANICHE SONO TROMPE-L’ŒIL
In un precedente articolo si è descritta come caratteristica precipua delle meccaniche dei videogiochi quella di avere vocazione di trompe-l'œil, ed è questa una delle cose che trovo più affascinanti: a differenza, per esempio, del linguaggio parlato, dove è maggiore il senso di naturalezza fornito dalle parole così come esse vengono pronunciate – senza che noi, per esempio, ci ritroviamo costretti ogni volta a pensare al significato della parola “gatto” per il semplice fatto di pronunciarla – coi videogiochi questa naturalezza viene più facilmente a mancare, con il risultato che le meccaniche risaltano molto di più, rompendo la barriera e facendoci notare molto spesso che il linguaggio è linguaggio.
Ogni volta (o quasi) che giochiamo a un videogioco nuovo abbiamo infatti bisogno di un tutorial che ci educhi alle sue meccaniche, e non è raro che il giocatore si muova ancora incerto nelle fasi avanzate, trovandosi nella condizione di dover ripensare a ciò che ha imparato in precedenza per metterlo a frutto appieno. È come se ogni volta ci venisse chiesto di imparare una nuova lingua (o una variazione di quella da noi adoperata), e ci trovassimo costretti a pescar fuori dal cassetto della memoria ciò che abbiamo da poco appreso per poterlo utilizzare. La sensazione di naturalezza che proviamo nel pronunciare la parola “gatto” in una normale conversazione non ci invoca a ridiscuterla, ma le cose si fanno diverse se dobbiamo esprimere lo stesso concetto una volta in portoghese, la prossima in norvegese, quella successiva in coreano e così via2.
Il fatto che i videogiochi esaltino così tanto l’accento posto sulle meccaniche è ciò che di norma tiene un giocatore abituale sempre sull’attenti, pronto a cambiare radicalmente modo di giocare, una volta passato a un gioco del tutto nuovo: l’esperienza di Metal Gear Solid 3: Snake Eater è molto diversa rispetto a quel che si prova giocando a The Witcher 3: WIld Hunt, nonostante in entrambi i giochi ci si muova per una mappa, si combatta, si mangi del cibo e via dicendo.
Di recente mi è capitato di giocare a un titolo che mi ha costretto a ripensare a questo banale fatto, ovvero come meccaniche che diamo per scontate possano diventare estremamente significative se si ha l’ardire di adoperarle sotto un nuovo punto di vista. La cosa è successa giocando a Death Stranding, e già nelle primissime fasi di gioco. Dopo la sequenza cinematica iniziale veniamo subito introdotti ad alcune delle fondamentali meccaniche; quando ci ritroviamo per la prima volta con la possibilità di muoverci trasportando un certo carico sulla schiena, ecco quello che può succedere: se il peso è eccessivo, il nostro avatar comincia a sbandare a destra e a sinistra, e se non si raddrizza il tiro il protagonista Sam cade rovinosamente a terra, disperdendo il carico e rischiando di danneggiarlo. Questa possibilità ha causato un’aberrazione nel mio modo di pensare al gioco e ai videogiochi in generale, facendomi porre una domanda che fino a quel momento non mi era mai saltata in mente: cosa vuol dire nei videogiochi muoversi? Come può diventare, l’esperienza di movimento in una mappa, significativa per il giocatore?
I VIDEOGIOCHI SONO PUZZLE?
In passato, sfruttando la felice definizione di Ralph Koster, abbiamo descritto i videogiochi come puzzle, ma questa definizione è forse troppo essenziale per render conto della loro virtù strutturale. Se fosse possibile descrivere i videogiochi in maniera sintetica soltanto come puzzle, rientrerebbero nella categoria tutta una serie di opere, attività, persino hobby, che normalmente non siamo disposti a ricomprendere sotto questa ala descrittiva. Per essere più precisi è allora necessario inserire un’altra variabile, vale a dire il campo da gioco su cui il giocatore è chiamato alla risoluzione del puzzle3. Se un puzzle può essere del tutto concettuale, come una semplice equazione matematica, un videogioco ha invece bisogno di un terreno visibile e interattivo su cui operare, e sono allora cose come la conformazione di questo terreno e in che modo il designer sceglie di dare forma al movimento, rendendo il tutto un’esperienza significativa, a diventare degne di attenzione.
La ragione per cui giocando a Death Stranding ho ripensato a questo presupposto è che spesso nei videogiochi diamo del tutto per scontate proprio le questioni legate al movimento: una volta che capiamo in tutta fretta come muoverci per gli assi delle X, delle Y ed eventualmente delle Z, la questione di norma non ci tocca più di tanto, e iniziamo a concentrarci sul resto dell’esperienza di gioco.
Per capirlo, prima ancora che prendere un qualsiasi titolo a mo’ di esempio, basterebbe aprire il preset di un engine come Unreal e scegliere di programmare un gioco in terza persona: il nostro avatar è libero di muoversi come vuole, senza alcun limite artificioso imposto alle sue azioni. Al netto della riuscita o meno di Kojima nei suoi intenti – che non sono l’argomento in questione – il caso del suo Death Stranding è interessante perché costringe in prima battuta il giocatore a ripensare a come comportarsi, a elaborare in modo nuovo una meccanica vecchia, addirittura tra le più vecchie di tutte per il linguaggio dei videogiochi: spostarsi.
Il punto è, allora, quello accennato in precedenza: come far diventare un postulato del linguaggio nuovamente significativo? Come ridiscuterlo? E poi ancora, ci sono altri videogiochi che hanno osato altrettanto?
DEATH STRANDING: DIFFICOLTÀ DI MOVIMENTO ED ESPLORAZIONE
Il punto di partenza sta nel lavoro che è chiamato a svolgere il designer. Ripensiamo all’ipotetico preset di un engine grafico, che ci fornisca un avatar completamente libero di muoversi per la mappa. Se il designer ritiene questa condizione sufficiente per l’esperienza di gioco, questi non troverà necessario complicare le cose e aggiungere nuove variabili; ma se il semplice gesto di muoversi diventa incisivo, il designer dovrà allora ragionare per difetto, capendo in che modo sottrarre libertà al giocatore e renderlo “schiavo” delle sue meccaniche. Il gioco diventa allora quello di capire dove e come aggiungere difficoltà senza renderle pretestuose. Se giocassimo a Final Fantasy X non avrebbe alcun senso introdurre variabili di movimento come quelle presenti in Death Stranding, perché ai fini dell’equilibrio nell’esperienza di gioco complessiva va messo in pratica innanzitutto un buon principio di economia: complicare le cose più del necessario non produce quasi mai effetti positivi, a meno appunto che si renda la complicazione significativa. Riuscite a immaginare un Final Fantasy X in cui, muovendovi per Spira, dovete anche occuparvi di tenere in equilibrio il vostro avatar Tidus per non farlo cadere? Potrebbe questa meccanica surrettizia assumere un peso significativo in termini di esperienza di gioco?
Nel caso dell’opera di Kojima, per poter stare in equilibrio e muoverci con la massima agilità abbiamo bisogno di mettere in pratica alcune operazioni: se il peso è sbilanciato da un lato o dall’altro del corpo di Sam, dobbiamo riportarlo in equilibrio attraverso i tasti dorsali del pad4. Il disequilibrio può presentarsi anche in altre occasione, per esempio se Sam fa una sterzata mentre corre o se sta dragando un fiume dalla corrente troppo forte, il tutto ovviamente commisurato all’entità del carico sulla sua schiena e sul suo corpo.
La questione equilibrio è fondamentale per l’esperienza di gioco: Sam è un corriere, e come tale non solo ha come obiettivo quello di portare la merce intatta a destinazione, ma anche di farlo senza troppi intoppi logistici. Se il carico cade rischia infatti di rovinarsi, e alle difficoltà di movimento contribuisce l’improbabile versione futura degli Stati Uniti ridisegnata dalla Kojima Productions: le terre delle U.C.A. prendono infatti spunto dalle regioni montuose d'Islanda, e per conformazione geografica e topografica costituiscono un ostacolo perpetuo ai movimenti di Sam. Se è parzialmente vero, come sostenuto da molti, che in Death Stranding “si cammina e basta”, è la natura di questo camminare e muoversi a diventare degno di attenzione, perché diventa chiaro che quella che Kojima e soci vogliono offrire è l'esperienza di un intercedere ostico attraverso la mappa, dove quello che regolarmente è scontato ai nostri occhi diventa ora pregno di una logica tutta sua. Se la mappa fosse stata topograficamente meno ostica e soprattutto se la questione equilibrio fosse stata tralasciata, il viaggio (anzi, i viaggi) di Sam sarebbe risultato ancora più inconsitente, una versione distopica delle Forbidden Lands, dove ci si muove e si ammira il paesaggio quasi in pura contemplazione.
L'idea di rendere attraverso le meccaniche l'esplorazione il più interattiva possibile ci può fare analizzare il rapporto fra le due variabili chiamate in causa, la difficoltà di movimento e il grado di esplorazione. Potremmo immaginare un grafico che esplori questo rapporto come segue:
In questo grafico, Death Stranding si piazzerebbe in alto a destra, e difficoltà di movimento e livello di esplorazione compartecipano del medesimo obiettivo, vale a dire l'esperienza di gioco complessiva. La domanda sorge quasi spontanea: esistono casi altrettanto affascinanti? Visto l'ampissimo panorama di videogiochi sul mercato la risposta è un banale sì, e viene allora da chiedersi che stimoli possa offrire, per esempio, un videogioco che enfatizza quasi esclusivamente l'esplorazione o, ancora di più, un videogioco che prova a portare all'estremo la difficoltà di movimento, tenendo al minimo il livello esplorativo. Proviamo a cominciare analizzando questo secondo caso, e facciamolo con un gioco che si è rivelato uno dei fenomeni dello scorso decennio: QWOP.
QWOP: BASSA ESPLORAZIONE E ALTA DIFFICOLTÀ DI MOVIMENTO
Qualche tempo dopo la sua uscita, QWOP fece parlare di sé per la sua difficoltà ai limiti del sostenibile. QWOP è un videogioco per browser e per mobile, che divenne una sorta di fenomeno dopo che il suo creatore, Bennett Foddy, lo creò dopo aver imparato da autodidatta a programmare videogiochi mentre tergiversava la scrittura della sua tesi di laurea in filosofia. In QWOP il giocatore controlla, col solo ausilio dei tasti Q, W, O e P un centometrista che non deve fare altro che partire dalla linea dello start e arrivare a quella del traguardo. L'esplorazione è asciugata al minimo: coinvolge soltanto due assi di movimento, quello sugli assi X e Y, e richiede di interfacciarsi con un terreno di gioco risicatissimo. Se il grado di esplorazione è minimo, quello della difficoltà di movimento è invece elevato al parossismo, oltre il limite sostenibile – e il tutto nonostante il gioco proponga un'azione che stimola l’immedesimazione del giocatore, correre; in QWOP non è possibile volare, saltare, arrampicarsi, planare, eppure un'azione che risulterebbe fra le più naturali per la maggior parte degli umani viene qui atomizzata al punto tale da renderla inverosimile e, paradossalmente, proprio per questo interessante.
A differenza di un altro videogioco per browser di grande successo come Getting Over It, dove il nostro avatar si muove “picconando” ogni oggetto che funga da hitbox servendosi di una forza sovrumana, QWOP è diventato un successo proprio perché nonostante il naturalismo di superficie enfatizza quanto un movimento verosimile possa essere frazionato all'inverosimile. Getting Over It è paragonabile a QWOP quanto a difficoltà di movimento ma non in quanto al grado di esplorazione, e il fatto che il secondo tenga le due variabili così all'estremo fra loro suggerisce un fattore interessante, vale a dire che nel linguaggio dei videogiochi non c'è potenzialmente limite a quanto una meccanica possa essere frazionata, e che questa può diventare un'arma molto potente nell'armamentario del designer. Potete immaginare quanti videogiochi ricchi di spunti, al pari degli Esercizi di stile di Quenau per la letteratura, possono nascere ruotando attorno a una sola idea di fondo e permutandola in tutte le sue possibili declinazioni? La risposta è tanto scontata quanto accattivante: infiniti.
Se dovessimo applicarlo al nostro grafico, QWOP si troverebbe all'incirca in questa posizione:
SEKIRO: ALTA ESPLORAZIONE E BASSA DIFFICOLTÀ DI MOVIMENTO
Se avete giocato a Sekiro: Shadows Die Twice, conoscete la sensazione di essere a un passo dal cadere nel baratro, ma vedervi sul più bello comparire a schermo il simbolo verde che contrassegna il comando di appiglio per il rampino del Lupo, il nostro avatar. A un soffio da una probabile morte, mettendo in funzione il braccio prostetico è possibile mettersi in salvo e continuare indisturbati nelle nostre operazioni. Il rampino non solo ci consente di evitare di cadere, ma anche di avvantaggiarci strategicamente e, soprattutto, di avere un grado di esplorazione verticale molto elevato. L'idea esplorativa alla base di Sekiro è semplice: ogni cosa visibile è sostanzialmente esplorabile, e meccaniche come il rampino, il viaggio rapido e il danno da caduta, notevolmente ridotto per gli habitué dei giochi From, facilitano di molto la nostra esperienza. In questo senso un gioco come Sekiro è l'esatto opposto rispetto a QWOP: la nostra esplorazione non è sfiancata, al contrario gli spostamenti vengono facilitati in ogni modo, con ricadute in termini di gameplay e movimento puro.
Se si pensa a quali giochi forniscono un alto livello di esplorazione e una bassa difficoltà di movimento, alla mente vengono molti più nomi rispetto al caso opposto, ma se c'è una ragione per cui Sekiro diventa un esempio rilevante è proprio perché attraverso una meccanica come il rampino il giocatore si sente per così dire sgravato da variabili cui è tipicamente ancorato. Con Sekiro l'effetto è risultato ancora più accentuato per chi, alla prima esperienza di gioco, veniva dagli altri titoli di From Software, in un processo di progressiva “smussatura degli angoli” da parte della software house giapponese: se in Demon's Souls o in Dark Souls muoversi comportava delle scelte e talvolta aveva costi veri e propri – basti pensare a quanto era ostico, in Dark Souls, muoversi in una palude o non superare il 50% del peso del carico massimo per non finire in fat roll – già da Dark Souls 2 le meccaniche legate alle difficoltà di movimento hanno assunto una levatura minore. Va precisato che a differenza dei giochi precedenti Sekiro è un action puro, e che questo comporta inevitabili differenze strutturali e meccaniche, ma se questi vale da esempio per comprendere uno dei due estremi nel nostro discorso è perché il gioco non si limita a rimanere neutrale in quanto a esplorazione, ma facilita le scelte del giocatore in due modi: offrendogli strumenti coi quali massimizzare l'esplorazione della mappa (per esempio il rampino) ed evitando di fornire dei contrappesi alle difficoltà di movimento (per esempio evitando di mettere un limite temporale alle immersioni subacquee). Il tutto è parte di una scelta progettuale chiara: rendere l'esperienza di gioco rapida, dai ritmi serrati, come serrato e rapido è ogni combattimento principale del Lupo.
Esistono senza dubbio giochi che accentuano di più il livello di esplorazione rispetto a Sekiro, ma proprio grazie al fatto che il gioco possegga a monte un'idea chiara e la porti fino in fondo fa pensare a quanto all'estremo possano essere portati i limiti esplorativi, specie se in una mappa continua come in quella del titolo di From.
Se dovessimo applicarlo al nostro grafico, il gioco si troverebbe all'incirca in questa posizione:
LA STRADA DAVANTI
Prima di chiudere, un'osservazione rapida5.
In relazione alle due variabili prese in considerazione, le possibilità offerte dal linguaggio dei videogiochi è sterminato, ma viene da pensare a quale potrebbe essere, allo stato attuale, un'esperienza ottimale. Posto che è superfluo ribadire che non esiste una risposta univoca, e che molto dipende sia da cosa si sta cercando in un videogioco che da quanto il risultato corrisponda agli intenti e alle ambizioni dei designer, una delle opere che di recente mi hanno personalmente dato un'idea di equilibrio è stata Zelda: Breath of the Wild.
Come è noto, in BotW il giocatore può muoversi per la mappa godendo di un elevatissimo livello esplorativo, e uno dei pregi più volte ribadito è che il gioco è infuso di un senso di libertà pressoché assoluto. Dopo averle esperite per interposta persona per anni, queste nozioni mi sono risultate subito evidenti giocando l’opera per la prima volta.
Eppure il tratto saliente di BotW è come questa libertà sia solo un effetto retorico, e che come dicevamo all'inizio molto spesso gli effetti retorici sono tutto ciò che ci rimane dei videogiochi. Per poter ricreare quel senso di libertà, BotW prende invece dei semplici quanto efficaci accorgimenti: non ci è possibile scalare, nuotare o planare oltre un certo limite, il meteo è spesso avverso e l'abbigliamento di Link può avvantaggiarlo notevolmente. La potenza espressiva del titolo sta però in come tutto ciò sia poi consegnato nelle mani del giocatore, consentendogli di abbattere qualsiasi barriera attraverso strumenti di gioco non necessariamente pensati per avvantaggiare o svantaggiare esplorazione e movimento, ma che nondimeno ne contengono insita la possibilità.
E questo è un fattore evidenziato anche da Eiji Aonuma nel presentare il seguito spirituale di Breath of the Wild: è quando nel giocatore subentra il pensiero che “se si può fare questo allora forse si può fare anche quest'altro”, che si abbattono dei limiti del linguaggio che parevano insormontabili.
Una prova è fornita proprio da alcune meccaniche presenti in Tears of the Kingdom, come la creazione di veicoli dalle forme più disparate o la possibilità di fondere le armi alterandone la durabilità, che oltre all’evoluzione di un gameplay diventano anche un ammirato omaggio di Nintendo ai suoi giocatori: guardando i vari player sperimentare con le possibilità offerte da BotW nel corso degli anni, sono i programmatori ad aver appreso delle nozioni sulla propria opera che neppure loro sapevano di conoscere, per poi implementarle nel proprio linguaggio sino a evolverlo.
Proprio come per i linguaggi parlati o scritti, una deviazione dal percorso originario è stata vidimata dalla collettività, sino a trasformarsi in un nuovo sintagma di fondo. Il risultato è una meccanica nuova: a noi non resta che ridurre, ancora una volta, il nostro analfabetismo.
The Story of Film: An Odyssey, M. Cousins, 2011.
O, per mantenere l’esempio di una stessa lingua e delle sue varianti, sarebbe come dover parlare una volta l’italiano corrente, quella successiva l’italiano del XIX secolo, poi il fiorentino del XIV secolo e via dicendo.
Tenendo fermo che, trattandosi di videogiochi, il campo da gioco è fornito chiaramente attraverso una periferica di output elettronica.
Mi riferisco qui alla versione per console del gioco. Nel caso si giochi su PC, il tutto può avvenire anche su tastiera.
In questa sezione nomino vagamente alcuni elementi presentati nel prossimo titolo della saga di Zelda. Si tratta di meccaniche già mostrate in trailer di parecchi mesi fa, ma per chi vuole rimanere completamente digiuno del gioco il consiglio è di non proseguire la lettura.