UPSIDE DOWN
C’è una vecchia storiella. Nel 1929 la pittrice Georgia O’Keeffe è ospite del noto scrittore D. H. Lawrence, e durante questo soggiorno dipinge The Lawrence Tree. Un paio di anni dopo il quadro è esposto a una mostra, ma la O’Keeffe invia una lettera dove scrive che esso è appeso dal verso sbagliato; parecchi decenni dopo il quadro finisce al Wadsworth Atheneum, nel Connecticut. Georgia O’Keeffe muore nel 1986, ma il quadro rimarrà appeso al contrario ancora una volta – e per ben un decennio, dal ‘79 all’’89. Il dipinto in causa è questo:
E quello che vedete è il verso sbagliato. La O’Keeffe l’ha dipinto per rappresentare il punto di vista di chi, steso ai piedi del tronco e testa all’insù, scruti il cielo attraverso il fusto e le fronde. Con questa informazione aggiuntiva in effetti il quadro risulta meno naturale rispetto alle intenzioni dell’autrice:
Ma com’è possibile che in circa sessant’anni – e nonostante le lamentele esplicite della O’Keeffe – nessun esperto si sia reso conto dell’equivoco? Il quadro è rimasto appeso nel modo sbagliato per così tanto tempo anche perché una volta divenuto assodato che quello fosse il verso corretto, nessuno ha ritenuto opportuno ridiscutere la questione.
Questi aneddoti non sono così rari nel mondo della pittura, e chissà quante opere sono ancora appese e osservate nel modo sbagliato. Non può che sorgere una domanda: se nemmeno i professionisti di settore sono riusciti a rendersi conto di un disguido così banale, quanta ingiustizia sedimentata abbiamo lasciato correre e accettato per buona? Quanti dei quadri appesi al contrario hanno compromesso il nostro sguardo?
Il diavolo è frutto del riposo di Dio al settimo giorno, dice un detto famoso. Significa che le cose continuano ad accadere anche quando noi non gli prestiamo attenzione. Un altro detto diabolicamente rilevante è quello per cui il diavolo sta nei dettagli. I dettagli e il riposo stanno in un rapporto inversamente proporzionale: più aumenta il riposo, più dettagli ci perderemo e il diavolo avrà modo di prosperare e nidificare dentro di essi. L’arte è tutta una questione di dettagli, spesso così ricorrenti da passare inosservati o così riposti da non essere nemmeno notati. Quadri al contrario, citazioni elusive, simbolismi esoterici, motivi che si sviluppano su più livelli di lettura, o al contrario banalità sotto gli occhi di tutti che passano inosservate. La bellezza dell’arte sta nella ricchezza di modi interpretativi a cui si apre ogni scelta, casuale o intenzionale, degli autori delle opere. Nella storia dell’arte, il videogioco è l’ultimo arrivato ma ha saputo far sorgere interrogativi importanti riguardo alla sua natura. Tuttavia continuiamo a guardare il videogioco come l’avevamo appeso all’inizio, senza più mettere in discussione i presupposti stessi che lo rendono rilevante.
Il medium videoludico sembra rappresentare il punto tangente tra interpretazione e interazione, quel momento in cui arrivano a coincidere la fruizione di un’opera con la sua comprensione, proprio perché è richiesto un alto grado di interattività perché l’opera si riveli. Il libro ci chiede di girare le sue pagine per essere fruito. Il film ci chiede ancora meno, imponendoci il tempo della fruizione, un tempo che non dipende dal lettore, ma dall’autore. Il videogioco sembra essere un’evoluzione della letteratura, in questo senso: potremmo pensare al videogioco come a un libro che ci chieda di risolvere un puzzle ogni volta che dobbiamo girare pagina per sapere di più della storia1. Tuttavia questa concezione dell’interattività del videogioco manca il punto di ciò che esso può fare e delle ragioni per cui è un medium così culturalmente rilevante. Infatti, la domanda da porsi quando si studia una certa forma espressiva è: dove si annida il messaggio? Come viene veicolato il significato nella letteratura, nel cinema o nel videogioco? Assumendo che esso non venga spiattellato in modo didascalico, il messaggio passa soprattutto per l’utilizzo della grammatica di un medium, dei suoi elementi di base, che disposti a dovere, creano una figura isomorfa rispetto al messaggio, attraverso il riconoscimento di un pattern condiviso. Questa ricerca di pattern è un comportamento che ci accompagna da sempre e da esso deriva l’appagamento per la risoluzione dell’enigma, del rompicapo e del puzzle. Mettere tutto al suo posto è il nostro sogno, ed è quello che tentiamo di fare anche quando narriamo.
Gli esseri umani hanno stabilito il loro dominio sulle altre specie anche perché danno grande importanza alla finzione, e su di essa costruiscono interi sistemi. Ma non è tutto. Ci si potrebbe chiedere infatti per quale ragione, a un certo punto, i sapiens abbiano cominciato a inventare delle storie: per quale motivo non era più sufficiente affidarsi al dato esperito direttamente, e si è reso necessario provare la strada dell’invenzione mentale? La finzione, in molti casi, rappresenta un modo più efficace di affrontare e risolvere i problemi, e questo semplice fatto fa ancora oggi parte del nostro imprinting di fondo. Quando ci troviamo di fronte a un problema nella vita reale, nel tentativo di risolverlo la nostra mente è portata ad astrarre, a fare ipotesi per assurdo che però posseggano riscontri reali e pratici. La natura metodica della nostra intelligenza è quel tratto che i videogiochi, nel bene e nel male, chiamano in causa costantemente. C’è un problema e c’è una soluzione: la ricerca sistematica della soluzione è data dal riconoscimento del pattern. Come spiega Hofstadter, è in questo riconoscimento di pattern comuni a strutture diverse che si annida il significato, la corrispondenza tra due codici diversi che diventa informativa:
Si parla di isomorfismo quando due strutture complesse si possono applicare l'una sull'altra, cioè far corrispondere l'una all'altra, in modo tale che per ogni parte di una delle strutture ci sia una parte corrispondente nell'altra struttura; in questo contesto diciamo che due parti sono corrispondenti se hanno un ruolo simile nelle rispettive strutture.
(Douglas Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante, p. 54)
Nella creazione di questo collegamento isomorfico tra struttura e contenuto sta la creazione di significato, non solo nell’arte, ma in ogni discorso umano. Il fondamento della grammatica videoludica, il meccanismo che genera isomorfismi possibili, è il gameplay, e dunque l’interattività. Non l’interattività fine a sé stessa, o potremmo chiamarla “di avanzamento narrativo”, ovvero quella interattività che è richiesta per avanzare nella storia, quella che serve a girare le pagine di un libro, come nelle metafora sopra. L’interattività del videogioco è profonda quando essa non serve ad avanzare nella storia ma a raccontarla, e quindi avanzare come effetto collaterale. La meccanica è il messaggio. Eppure, chiuso nei suoi cliché, il videogioco sembra spesso così convinto dalla ripetitività delle sue meccaniche, da esibirle in tutta la loro arbitrarietà. Un tutorial è spesso un tutorial e basta, ed è lì solo perché deve esserci e perché c’era in altri videogiochi. Troppo poco spesso un autore si chiede cosa può fare di un tutorial, come può rendere necessaria e significativa una meccanica arbitraria. Come far percepire la necessità di una scelta, all’interno di una narrazione, a fronte della sua irriducibile arbitrarietà vista dall’esterno. In questo senso il videogame sembra allo stesso tempo già anziano nella quantità di cliché che ormai lo rendono riconoscibile e lo infantilizzano, eppure così giovane e promettente nella varietà di isomorfismi possibili tra meccaniche e messaggi che esso può costruire. Per questo sembra chiaro che sia il candidato migliore a vestire i panni del medium di riferimento del secolo, dopo che il cinema lo era diventato a partire dalla seconda metà del XX, e la letteratura lo era stata fino al 1900. La novità percepita di un medium sta in effetti nella percezione della varietà di cose non ancora dette con il suo linguaggio. Nel videogioco questa percezione è ancora molto forte.
A SCHERMO SPENTO
L’interattività del videogioco, tuttavia, è pericolosa, perché espone il lettore dell’opera a un fraintendimento. L’errore principale che viene commesso è credere che la penna con cui annotavamo gli spazi bianchi sulla pagina sia diventata il pad che stringiamo tra le mani, e i segni grigi che lasciavamo a sbiadire sui libri siano ora percorsi su sentieri fatti di pixel. L’interattività non è sufficiente per garantire l’interpretazione, e possiamo interagire con un videogioco senza starlo interpretando. Anzi, l’interazione è solo la precondizione dell’interpretazione critica. È quando lo schermo è spento, quando si tace il ronzio delle ventole e le mani non sudano più stringendo il pad, che inizia il puzzle del puzzle. La critica è questo meta puzzle, l’interazione con l’interazione, e trae il suo valore preliminare dalla sostanza differita di cui si compone rispetto alla fruizione. Come dice Scorsese, è solo dalla seconda visione che si studia un film. Se finire un gioco significa in qualche modo risolvere un puzzle, quando facciamo critica siamo abbastanza lontani per considerare l’insieme di tutte le tessere del puzzle-opera, un’unica tessera del puzzle-cultura. Tanta critica oggi si fa con lo schermo acceso e il pad in mano. Con le mani sudate che fanno scivolare la penna. E il diavolo ha continuato a prosperare nei dettagli inosservati per colpa del riposo di un’interazione che si illudeva di essere interpretativa.
Chiediamoci ad esempio: quando inizia un videogioco? Nella schermata del menù, durante la creazione del nostro avatar, nella cutscene iniziale, quando inizia il tutorial, o quando finisci il tutorial e comincia l’avventura vera e propria? Sembra una domanda oziosa, ma come accade spesso, nelle opere estetiche a essere fondamentale è quello che sembra più scontato. Quando un’opera non funziona siamo molto più invogliati a capire il perché non funzioni. Quando un’opera fila liscia sembra quasi che fosse naturale che andasse così, proprio perché l’opera è riuscita a riprodurre la naturalezza di uno sviluppo, a dare l’illusione di un incedere necessario. Questa caratteristica delle storie ben scritte l’aveva già intuita Aristotele quando nella Poetica diceva che la caratteristica principale della tragedia è il fatto che riesca a suscitare nello spettatore la suggestione della inevitabilità dell'ingranaggio. Ma è proprio nel caso in cui un’opera funziona così bene che dovremmo farci le domande giuste, e chiederci come, a dispetto della apparente facilità con cui il meccanismo gira, l’ingranaggio è stato costruito. Perché nel cinema si usa un primo piano al posto di un mezzo busto? Perché un regista decide di posizionare la luce dietro il personaggio o davanti? Il sollievo che implicano queste domande è che non è necessario chiedere conto di queste scelte all’autore, perché esse traggono il loro valore e la loro funzione più o meno buona semplicemente da come sono arrangiate nell’opera complessiva. L’opera parla da sé, senza bisogno di intermediari e ambasciatori privilegiati. E così la domanda oziosa con cui abbiamo iniziato l’articolo sembra tale solo per la difficoltà nella comprensione del perché le cose che funzionano, funzionano così bene. Del resto è piuttosto evidente che siamo sedotti dalla risolutività del funzionamento di qualcosa. Percepire la chiarezza ci esime dalla comprensione. Quando qualcosa funziona siamo sollevati dalla ricerca dell’errore e del problema. E tanto più quando non conosciamo il processo di creazione di quella perfezione – perché esso è intenzionalmente dissimulato e nascosto – vediamo quell’ingranaggio funzionare come un incantesimo, perfetto nella sua schermata autosufficienza illusoria.
L’obiettivo della critica dovrebbe essere quello di rompere l’incantesimo. Questa metafora è cara a molti critici. Si ritrova per esempio anche nelle lezioni sulla letteratura di Nabokov, quando dice che la critica deve essere “un'indagine poliziesca sul mistero dell'arte letteraria”. La critica rifiuta l’imperativo religioso dell’abbandono alla mistica della perfezione, per rispondere all’aspirazione ingegneristica del meccanico, dell’officina e della bottega. Sarebbe un’antibottega quella del critico: nessuno porta gli porta ingranaggi rotti. Il critico ruba gli ingranaggi che funzionano meglio, per mostrare a tutti come funzionano. Quest’atto al contrario, ha un’aspirazione creativa. Non è la cura dell’aggiustare ciò che è rotto, arte parassitaria in qualche misura sempre di un ritorno all’originario e quindi subordinata a esso, bensì l’atto coraggioso di spaccare quello che funziona seguendo linee che non esistono di per sé nell’opera che si rompe. Strappare lungo sagome che non esistono. Da questo atto arbitrario deriva la possibilità della creatività della critica. Possiamo decidere dove tagliare, quale bullone allentare e quale rinserrare, se usare una luce che tagli di sguincio o colpisca difronte. Nella varietà delle cose che è possibile fare si riconosce la possibilità della creatività. Si può aggiustare qualcosa solo in un modo. Lo si può rompere in infiniti modi diversi.
Non è vero che l’unico modo per amare è amare senza consapevolezza e in modo cieco, non ponendosi le domande che farebbero scricchiolare quell’amore. La critica è proprio la diga che separa amore e devozione. L’amore implica che la cosa amata si riguadagni ogni volta da capo il suo amore. Moltiplicare le occasioni di tenuta della cosa amata è un servizio reso a essa e a sé stessi in quanto persone intellettualmente oneste. Chi si sottrae alle occasioni di smentita, in cui teme per l’incolumità sacrale della cosa amata, tradisce solo la paura della fragilità di quell’amore. Se l’amore ha bisogno di essere protetto dai rischi, non è amore ma dipendenza.
FARSI LE STESSE DOMANDE
E questo non può che portare alla domanda più scontata di tutte, quella però da cui ripartire sempre: un videogioco che cos’è? Da che verso lo si deve vedere? C’è una certa compattezza nel rispondere a questa domanda, ma molte delle definizioni date possono risultare fragili o parziali. Da “software che simula determinate situazioni” o “dispositivi elettronici per la simulazione di esperienze” a “dispositivi che consentono di interagire con lo schermo”, risulta che messa in questi termini il videogioco avrebbe il suo cuore nella simulazione e nell’interazione. Ma questo può generare un grande fraintendimento. Tale fraintendimento sarebbe l’incapacità di distinguere esperienza e apprendimento. Considerando i videogiochi come meri simulatori si implica che il loro valore stia unicamente nel puntare a riprodurre qualcosa, anziché fornire strumenti ed essere veicolo di informazioni potenziali.
Provare a rispondere alla domanda “che cosa è, allora, un videogioco?” diventa fondamentale non quando posta per la prima volta, ma in special modo in tutte le volte successive. Essa implica la questione seguente, vale a dire come è più opportuno provare a parlare di videogiochi. Il rischio più grande che si possa fare nel parlare di videogiochi è quello di compattarsi nel modo in cui lo si fa; trovare voci interessanti e disinteressate è difficile.
Fare le cose a modo, dopo un po’, diventa naturale, e più complicato diventa rimettersi in discussione; adoperare un approccio critico che riecheggi con costanza del bisogno di ridiscutersi nei presupposti e di interrogarsi ancora e ancora sulle proprie fondamenta. Avere a che fare con così tanti (troppi) prodotti è mestiere infame, e giocare a rimpiattino nel mondo del ready-to-use ha vocazione di disciplina olimpionica.
Ché il rimpiattino è gioco che, seppur fatto di corse e rincorse, di slanci e di strappi, ha la sua virtù nelle pause, nelle attese e nel calcolo serrato dei tempi; e per il baro – che durante la conta accelerata e sicché un baro è sempre baro due volte, lancia pure occhiate fugaci per indovinare i nascondigli degli altri prima del tempo – la regola d’oro è studiarsi fra bari e adottare poi le stesse tecniche, cosicché di bari più non si parli.
I videogiochi – commerciali o autoriali che siano e per quanto fragili risultino categorie tanto dure – restano però una cosa: opere realizzate (quasi sempre) di concerto in cui discorsi espressivi e tecnici si portano avanti a vicenda. Pertanto i tratti salienti del videogioco si nascondono nelle intercapedini di tali presupposti e possono essere compresi al meglio solo durante il tempo di non gioco; e non avendo il mezzo una teoria ma bisogno di un coro variegato, assuefarsi della medesima voce non può che educare l’orecchio a un suono monocorde o tutt’al più, come avrebbero detto Elio e i suoi, produrre una canzone mononota.
Le innumerevoli variabili di fruizione ed esperienziali tendono a rendere molto volatili i tentativi di risposta a tante domande: sappiamo che se il cinema è pensato per le sale – nonostante la sua evoluzione stia modificando anche questo paradigma, con inevitabili adeguamenti per quanto riguarda i processi produttivi dei lungometraggi – nel caso dei videogiochi anche la semplice questione del come fruirne non è definita una volta per tutte: Nintendo ha la sua macchina di punta in una console che è pensata contemporaneamente per essere portatile e fissa, ma quale esperienza di gioco è espressivamente “più giusta”? Ovviamente una risposta precisa non esiste, e questo perché i videogiochi non riescono né ancora vogliono darla (e molto spesso a non esistere è l’interesse del produttore a marcare troppo i propri limiti, in favore di un pubblico più ampio). Pur essendo così vari fra loro, deve però esistere un elemento di fondo della grammatica del videogioco tale per cui si possa adoperare in modo rigoroso la stessa tassonomia, che si parli di Final Fantasy VIII o delle slot machine del tabaccaio.
Ma questo elemento di fondo esiste? Se volessimo adoperare una definizione che non ricada nella didascalica del linguaggio enciclopedico ma che invece riesca a dare vigore al termine, una scelta possibile sarebbe quella adottata da Ralph Koster nel suo Theory of Fun for Game Design: i videogiochi sono puzzle.
E questa definizione, così semplice eppure così risolutiva, se adoperata come punto di partenza genera tutta una serie di presupposti che quasi sempre si è tesi a sottovalutare. Pur essendo un termine ombrello – e con tutti i rischi che comporta l’utilizzo di parole di questo tipo – la definizione di puzzle è perfetta per descrivere la natura di ogni videogioco, vale a dire la loro tendenza alla risoluzione di problemi.
È questo particolare aspetto che al contempo genera così tante variabili ma nobilita di per sé il mezzo, mettendolo in continuità (e non in rottura) con tutti gli altri mezzi espressivi di cui esso è figlio, nonché loro diretta continuazione.
Quando, dipingendo su parete, i nostri antenati si ingegnavano per ritrarre animali o i propri consimili, non lo facevano per una semplice questione espressiva o per vocazione, ma perché quello era per loro un modo di affrontare problemi che sentivano immediati e che tentavano di schematizzare.
Questa semplice caratteristica del mezzo lo rende particolarmente incisivo rispetto a qualsiasi altra forma d’espressione sia mai stata adoperata dagli esseri umani, perché a differenza di quadri, architetture o proiezioni, proprio il fatto che i videogiochi siano puzzle implica una caratteristica impossibile da ritrovare altrimenti: la promessa.
Il videogioco fa sempre una promessa al giocatore, quella di possedere una soluzione al puzzle proposto. Nessuno giocherebbe a un videogioco sapendo in partenza che esso è un girare a vuoto e che non vi è nessun puzzle da comprendere; e quando, in cattiva fede, i videogiochi vogliono tenerti incollati il più a lungo possibile, di quella soluzione essi allora provano a simulare l’illusorietà.
Proprio perché i videogiochi fanno una promessa preliminare, essi implicano che una soluzione ci sia sempre, ed è la natura di questa caratteristica a meritare maggiore attenzione e studio. Perché allora parlare di videogiochi implica un cambio radicale dello sguardo, una periagoge; una conversione del nostro modo di percepirli: un mezzo che nel suo farsi, lentamente e nel tempo, si sta piano piano codificando, sino ad affermarsi forse come il mezzo espressivo di questo secolo.
Oggi si fruisce principalmente il linguaggio del videogioco, ma quanto di questo linguaggio è davvero compreso? Se il sintagma fondamentale della grammatica popolare è stata, nel XX secolo, l’immagine, oggi quel nucleo è acquisito dalla meccanica.
Il problema si ha perché quello dei videogiochi è ancora un pubblico relativamente rivolto a se stesso: quanto è opportuno formarsi giocando, e quanto rivolgendo lo sguardo altrove? La realtà è che alla domanda “di cosa si parla quando si parla di videogiochi?” bisognerebbe rispondere che si deve poter parlare di tutto, purché non si parli solo di videogiochi. O il circuito rimarrà chiuso, autoreferenziale, e faticherà a nobilitarsi. Il che sarà un’occasione persa visto che il videogioco, in quanto medium tanto incisivo nel nostro tempo, è l’ambra nella quale i nostri occhi sono immersi e attraverso cui valutiamo molte cose.
Descrivere il videogioco adoperando in modo abulico uno stesso preset di domande fa correre il rischio di rimanere bloccati nell’impasse secondo la quale riusciremo sempre a dire qualcosa di interessante sul mezzo, ma esso avrà un vero riflesso da altre parti?
Diventa allora più interessante e stimolante analizzare questioni vecchie con occhi e domande nuove, e quindi di volta in volta pertinenti. È a questo che deve puntare il tempo di non gioco dedicato ai videogiochi, fare la differenza. Ma la differenza la si raggiunge attraverso una autonomia conquistata, e le conquiste sono spesso lente; mentre oggi ricevere il biglietto d’ingresso alla partita di rimpiattino significa disimparare le regole del gioco per imparare a starci, al gioco.
Nel chiedersi, di volta in volta, cosa sia un videogioco, bisogna allora domandarsi come esso vada pensato, ruotando la testa di 180 gradi se serve. E in quanto mezzo complesso, stratificato, facilmente fraintendibile, di volta in volta rimane fondamentale interrogarsi sui presupposti, trattando i videogiochi appunto come meccanismi da smontare, sentieri da percorrere a ritroso pur senza distogliere lo sguardo da quanto ci sta davanti.
E questo, che può apparire un vezzo manierista, è invece un privilegio: si impiega poco tempo per imparare ad andare in bicicletta, ma poche volte le leggi della dinamica e della meccanica sono propriamente comprese. Eppure è raro che il ciclista abbia come idoli Newton e Galileo: molto più probabile è invece che in camera sua campeggino i poster di Merckx, Coppi e Hinault.
È per questa ragione che la domanda “Cos’è un videogioco?” merita di essere posta ancora e ancora, e poi di nuovo; e in quanto puzzle, è importante percepire i videogiochi come macchine. In un’epoca in cui la letteratura è da molti considerata in crisi di appeal, in cui il cinema si prende sempre meno sul serio (per colpe proprie e non solo), il videogioco è il linguaggio più efficace perché, come detto, enfatizza l’aspetto della meccanica. A differenza dei primi, che puntano immediatamente sulla sospensione dell’incredulità per il loro funzionamento, il videogioco ha uno spettro di possibilità in questo senso molto più ampio: e talvolta la sospensione dell’incredulità non è la porta d’accesso all’esperienza ma diventa il traguardo da raggiungere giocando, e quando si riesce a seguire questa logica il mezzo dimostra di fare uso dei suoi presupposti logici. Il ruolo di finzione che i mezzi espressivi tendono a tenere per l’inizio, nei videogiochi diventa la meta, il flusso da seguire solo dopo che ci siamo dimenticati che stiamo giocando, laddove spesso avevamo cominciato a farlo proprio per il gusto del gioco, non del videogame come esperienza espressiva. Ciò è reso possibile anche perché, per quanto possa sembrare controintuitivo, giocare richiede più impegno di qualsiasi altra attività richiesta da mezzi come cinema o letteratura. Ciascun gioco possiede le sue regole, e ogni volta che ne cominciamo uno nuovo dobbiamo fare tabula rasa di quanto imparato in precedenza e ripartire daccapo. Si tratta di un’estremizzazione dell’impegno richiesto al fruitore che gli altri mezzi non riescono a proporre, ed è proprio per questa ragione che una volta affezionati a determinate meccaniche di gameplay, tendiamo in linea di massima a trovare più difficile cominciare una nuova categoria di giochi: quando siamo in grado, attraverso il gioco, di giungere al senso di apprezzamento estetico, esso avviene attraverso il riconoscimento dei pattern. Non impararne di nuovi, ma riconoscerne di vecchi2.
LA FINESTRA ALBERTIANA
La meccanica, come dicevamo, è il messaggio. In questo senso uno dei momenti qualificanti della storia del mezzo può essere visto per esempio nella sequenza di gioco di Metal Gear Solid 3: Snake Eater in cui Snake deve arrampicarsi su per una scala; nel bel mezzo della scalinata la musica comincia, e tenere inclinata la levetta analogica in alto per proseguire non è più una semplice meccanica di gioco, ma diventa un’istanza narrativa fondamentale. Da questo momento in poi e grazie all’effetto shock provocato dall’esplicitezza della sequenza, il mezzo si renderà sempre più conto che a un aumento del collimare di meccaniche e storia corrisponde una diminuzione delle vertenze del videogioco; quando questi due presupposti coabitano il medesimo spazio d’azione del giocatore, a uscirne vincitore è il mezzo come tale e il risultato è la risolutività del funzionamento. È questo che seduce. La meccanica produce inganni perché è essa stessa inganno. Ogni meccanica che miri all’esaltazione degli aspetti narrativi ha vocazione di trompe l’oeil, perché mira a far emergere quell’inganno e quell’incantesimo e a renderlo il punto focale dell’esperienza; e ciò si può dire ovviamente del caso opposto, laddove la narrativa esalta la meccanica.
I trompe l’oeil sono proprio il tratto saliente, l’acme raggiungibile dal videogioco, perché attraverso di essi è identificato l’incantesimo e reso visibile. Per tornare a Hofstadter, egli scrive:
La differenza (fra uomo e macchina, n.d.r.) consiste perciò nel fatto che è possibile che una macchina agisca senza osservarsi; è invece impossibile che un essere umano agisca senza osservarsi.
(Douglas Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante, p. 40)
Di conseguenza l’imperativo diventa capire come osservare e come decrittare i trompe l’oeil offerti dal videogioco, senza lasciarli correre via. La capacità di un approccio interessato si risolve in questo, ed è un atto per definizione risolutivo al contrario, in quanto nel pensare alle risposte esso crea. Agire in questo modo significa ruotare lo sguardo di centottanta gradi, rischiarsela anche a costo di sbagliare.
TESTO A CURA DI:
Angelo Andriano e Andrea Tornese
BASATO SU ALCUNE CONVERSAZIONI FRA:
Alessio Forasassi, Angelo Andriano e Andrea Tornese
“It’s as if we are requiring the player to solve a crossword puzzle in order to turn the page to get more of the novel. There is also a current of game design which unapologetically puts story first.* These are often powerful emotional experiences with relatively shallow game mechanics. This isn’t a flaw—it’s a deliberate design choice—but it doesn’t speak to the kind of learning we get from game systems”. R. Koster, Theory of Fun for Game Design, p. 86.
“Aesthetic appreciation is the most interesting form of enjoyment to me. […] Aesthetic appreciation, like fun, is about patterns. The difference is that aesthetics is about recognizing patterns, not learning new ones”. R. Koster, Theory of Fun for Game Design, pag. 94.