Frozen Souls
Considerazioni sparse sul survival indie "The Long Dark", sull'inverno pandemico dell'anima e sul rivoluzionario atto di zappare la terra
L'articolo non contiene spoiler che non siano il preambolo.
C'è una peculiare modalità di fare giornalismo - vagamente ammiccante e paracula lo ammetto - che ho molto imparato ad apprezzare di recente. Non è il clickbaiting, anche se so che potrei avere attratto alcuni lettori scrivendo “Souls” nel titolo. É quella in cui l'autore parla dei massimi sistemi col pretesto di spiattellare i cazzi suoi (o viceversa). Se l’articolista è bravo finisce con rendere interessante il collegamento tra tema scelto e la soggettività richiamata, altrimenti è facile vedere la cosa sfociare in una forma di "diario egomaniaco". Ed è chiaramente rischiando questo secondo eccesso che apro l'articolo con una foto di casa mia.
Vivo da circa 3 anni in un paesino di 50 anime in collina (520mt) in una casa degli anni ‘60 con i travi in legno a vista. Sono in affitto, il che implica che quella di venire a vivere qui è stata una scelta, conscia. La stufa a legna con piano in ghisa che ho spiattellato in foto è, per scelta, l’unica fonte di riscaldamento che utilizzo, spesso in inverno se è accesa la uso anche per cucinare. Potrei scommettere che la maggior parte di voi non ne abbia mai vista una dal vivo. La connessione internet che è possibile avere raggiunge picchi massimi di 2 megabit (se non c’è maltempo), il cellulare prende solo avanti alla finestra della camera e solo grazie ad un ripetitore privato, sono quindi prevedibilmente circondato da boschi, volpi, cinghiali, scoiattoli, tassi, funghi, pinete, asparagi, castagne, campi, trattori e zappe. Se potessi parlare con il me stesso adolescente, quel precoce appassionato dell'informatica che nei tardi anni '90 assemblava computer per un negozio nel pomeriggio durante le scuole superiori e consumava letteralmente migliaia di ore davanti a videogiochi di qualunque tipo, sono certo che non mi crederebbe se gli descrivessi la piega in odor di “decrescita felice” che ha preso la mia vita. Potessi dirgli che sarei finito a fare il mezzo eremita e a rivoltare la terra col forcone lo sentirei rispondere qualcosa come "lol, u l0ser, gitgud". Eppure avrei molti argomenti adesso, quasi quarantenne, per persuadere quel ragazzino arrogante che prendere uno zaino e andare a passare la notte in cima ad un monte illuminato solo dal fuoco appiccato con la legna trovata in loco è un'esperienza, pur se assolutamente banale, catartica e necessaria.
Parlare di "The Long Dark" nel 2021 può sembrare superfluo. il gioco, sin dal suo esordio su PC nell'ormai lontano 2014 è stato già molto recensito, apprezzato, pian piano è stato convertito per la maggior parte delle console e ha venduto qualcosa come 5 milioni di copie. Resta però il parto di un team di sviluppo indipendente piuttosto piccolo che, stoicamente, continua a lavorare indefesso a un prodotto che a oggi è parzialmente completo ma riceve periodicamente corposi aggiornamenti. I ragazzi di Hinterland Studio hanno avuto la possibilità di sviluppare il gioco grazie a un iniziale kickstarter di discreto successo. Avevano promesso sin dall'inizio un avventura in 5 episodi, quando il gioco è uscito dall’early access ne avevano completati 2 e il quarto è uscito di recente (ottobre ‘21), gratuito come i precedenti, mantenendo tutti i buoni propositi enunciati anni prima. Tramite i “devlog” pubblicati regolarmente i developers canadesi hanno spiegato ai propri clienti che il successo "costante" del titolo nel tempo ha consentito loro di poter permettersi di pagare gli stipendi per questi 6 anni scongiurando quindi il pericolo dei DLC a pagamento. Ammetto perciò candidamente che i canadesi di Hinterland hanno fatto breccia nel mio cuore per il modo esemplare e trasparente di comportarsi (come homo economicus) ancor prima che per la qualità del titolo, in un momento storico in cui abbiamo visto molteplici storie di videogames che iniziano con pompose promesse su Kickstarter e finiscono con ignominia dopo il rilascio in versione 1.0 di gusci vuoti malfunzionanti abbandonati dai developers senza neanché risolvere i problemi di base con delle patch, (sviluppatore che a quel punto non posso che immaginare in Venezuela con dei vistosi cocktail in mano)
Nonostante il mio carattere, che è sempre stato a tendenza vagamente catastrofista, prima dell'inizio dell'anno scorso non avrei certo previsto di vivere una pandemia globale, i lockdown, le città vuote e silenziose squarciate dalle sirene delle ambulanze e tutta quella inquietante sequela di eventi che ben ricordiamo. Ancora meno avrei immaginato di trascorrerla, la pandemia dico, totalmente da solo in mezzo ai monti, dovendo raccogliere dei cocci emotivi per una relazione rilevante finita poco prima e gestendo risorse economiche limitate. Ovviamente l’idea in sé di venire a vivere in questo specifico posto assai bucolico è stata temporalmente precedente alla pandemia, ma non di molto ed è abbastanza diverso vivere con qualcuno vagamente isolati rispetto a farlo soli con gatti e galline. Mi sono ritrovato a raccogliere asparagi e funghi in quantità per i boschi (tanto nessuno era autorizzato a girare per venire a fregarmeli) e a congelarli per il futuro, a coltivarmi le verdure nell'orto, a spaccare la legna con l'accetta per il fuoco, a imparare a tirare con l'arco ricurvo comprato poco prima dell'arrivo del temibile virus, a costruire oggetti utili con il legno che avevo a disposizione, ad allevare delle galline ovaiole. Mi son trovato quindi a mettere da parte alcune abitudini contemporanee per riprendere in mano quel tipo di vita novecentesca faticosa e scomoda, consapevole che mi avrebbe portato benefici, un po’ fisici, un po’ psicologici, un po' per scelta, un po' per il fato sotto forma di pipistrello marcescente di Wuhan. E per sublimare l’esperienza solipsistica che era la mia vita in quel momento c’è scappata la lettura del classico “Io sono Leggenda” (testo immensamente valido a differenza del film) e una contemporanea run a The Long Dark. Si potrebbe supporre che tale sia la voglia di vedere gente a un certo punto che si finisce a giocare a The Sims o a un qualunque MMORPG, eppure no, trovavo normale raddoppiare la solutudine reale insufflandola di foreste canadesi, anguste miniere di carbone, laghi ghiacciati con minuscoli capanni per la pesca, in un mondo anch’esso a suo modo post-apocaliptico.
Descritto in modo asciutto, The Long Dark è una simulazione di sopravvivenza in prima persona ambientata in un'isola immaginaria del Canada caratterizzata da clima molto freddo. Prevede due modalità di gioco: "Wintermute" è il nostro romanzo di fantasia, la trama, la storia che giustifica tutto l'ambaradan survavalist che ci hanno costruito intorno. A mio avviso è pregna di spunti interessanti e i (pochi) personaggi sono caratterizzati e doppiati a meraviglia, i canadesi hanno scritto e diretto momenti emotivamente densi e innescato un intreccio non banale quindi consiglio assolutamente di giocarla ma attenzione, dal punto di vista del gameplay si tratta per certi versi di un mastodontico tutorial, di modesta durata. La seconda è la "modalità sopravvivenza", l'atto di prendere e buttare il nostro alter-ego virtuale in un punto a caso della abnorme mappa di gioco scarsamente vestito (la scusa perché ci si trovi lì è il classico incidente aereo) con lo scopo semplice e tagliente di sopravvivere più tempo possibile. Come unico finale possibile la morte. Può sembrare un riempitivo senza fondo (perché la cosa funzioni c'è qualche elemento di generazione procedurale) ma secondo taluni è qui che si trova la vera ciccia dell'esperienza di gioco. Il pattern proposto stile "scrivi la tua storia di Robinson Crusoe con le terga ghiacciate" è simile nelle premesse ad altri mille giochi survival, un genere che statisticamente ha prodotto montagne piuttosto alte e fetide di immondizia da quando è diventato molto popolare. Quello che lo distingue con merito dai molti altri giochi analoghi (oltre alla sua natura totalmente e completamente singleplayer) è l'atmosfera unica e totalmente mesmerizzante che caratterizza il “protagonista del gioco”, non un vero personaggio ma il set del nostro film, la location rappresentata, Great Bear Island.
Qual’è la giustificazione per cui ci troviamo in un contesto sperduto ma abbastanza antropizzato in un momento random degli anni ‘90 e non abbiamo accesso alla tecnologia moderna? Ebbene, una calamità di natura geomagnetica porta la nostra remota isola, un tempo relativamente fiorente per le attività minerarie, di produzione di legname e turismo, a diventare quasi disabitata. Tutto ciò che va a corrente elettrica cessa di funzionare, terremoti hanno danneggiato le strade e interrotto collegamenti, gli animali selvatici sono tornati padroni dell'isola e le (poche) aree “colonizzate” dall'essere umano sono esse stesse testimoni del caos che ha caratterizzato i giorni successivi alla disgrazia. Non ci è dato sapere molto di questo disastro: la cosa resta fascinosamente offuscata in background. Ha coinvolto solo l'isola? Magari tutto il mondo? Non lo sapremo mai e anzi, ci andremo a confrontare più che altro con le conseguenze de "la caduta" con l'espediente narrativo classico di disseminare il gioco di note, biglietti, depliant, files relativi a quando l'isola era viva e pulsante. Il patto sociale resta generalmente valido fintanto che si ha di che nutrirsi e scaldarsi, anche in un remoto angolo di mondo, ma Great Bear, pur abitata da individui decisamente scaltri e abituati alla vita aspra, non era un territorio autosufficiente dipendendo per cibo e carburanti dai rifornimenti dalla terraferma e si intuisce facilmente che in breve tempo i rapporti tra gli abitanti dell'isola debbono essere diventati...scintillanti. E insomma, che si preferisca la specifica epopea di McKenzie e Astrid (i due commoventi protagonisti) o si interpreti una persona a caso senza scopo se non evitare la Signora con la falce(tm) ci troveremo in questo ambiente quasi artico, a dover fare quello che in ogni gioco di questo tipo ci si aspetta di dover fare: il crafting, la caccia, accendere il fuoco, pescare, cercare legna, esplorare aree ignote e mapparle. Oltre ai parametri vitali di base come fame, sete e stanchezza ci sarà una cura maniacale della gestione della temperatura corporea e agli aspetti attorno al mantenimento della stessa a valori accettabili. In late game saremo chiamati a una gestione minuziosa del peso del vestiario e della stratificazione logica degli abiti sul corpo ma ad inizio gioco, beh qualunque straccio supplementare aiuta a non battere i denti. La scelta (non so quanto dettata da budget o limiti del motore in sé francamente) di avere una grafica molto asciutta, che è paradossalmente cartoonosa e realistica allo stesso tempo aiuta molto l’immedesimazione. Sopratutto la resa sensoriale delle condizioni metereologiche avverse trasmette un’inquietudine quasi fisica. Quando ci si ritrova con l’avatar con i vestiti fradici e disperso in una tormenta - incapace di ritrovare la propria abitazione e magari impossibilitato dal vento ad accendere un fuoco - la sensazione di disagio fisico, frustrazione e ansia è talmente percepibile che mi sono trovato a volte a dover staccare la sessione. E ve lo dico, detesto quasi tutti i giochi horror e molto poco mi impressiona. Sarà che per la mia natura di camminatore fra i monti non fatico a immedesimarmi in una situazione del genere, con una caviglia slogata e la perdita della cognizione della direzione con la nebbia che sale e il vestiario insufficiente; sono emozioni che è possibile provare, l’incontro con un afghano armato di AK-47 nel corso di una vita è meno probabile.
L’idea di attraversare un ponte di corde sospeso sul nulla col vento che grida nelle orecchie riesce a flipparmi la testa e a farmi desiderare ardentemente la sicurezza del personaggio, al punto da prendere spesso decisioni troppo azzardate o troppo prudenti. Il morboso attaccamento al protagonista è legato alla fatica fatta per ottenere progressi, ci sono alcuni elementi rpg e alcune skill da migliorare col tempo, e aver inserito una rigorosa “permadeath” è un ulteriore rinforzo ansiogeno. Sono espedienti, giochiamo da mille anni, ormai li conosciamo, ma è bene riconoscere quando funzionano bene. Ci sono un gran numero di elementi per poter parlare di The Long Dark, in fondo, anche come “walking simulator”, è innegabile che, a difficoltà moderate, se si resta calmi, razionali, freddi la sfida non è improba: come players abbiamo affrontato nemici molto più armati e pericolosi dei lupi o del vento freddo. Ma il giochetto mentale ansiogeno funziona sempre perché a un certo punto si fa qualcosa di avventato tipo esplorare una sezione di mappa ignota non equipaggiati a sufficienza e ci si mette un po nei guai, si sottovaluta una situazione, ci si dimentica un oggetto fondamentale da qualche parte (il sacco a pelo!), ci si ammala inaspettatamente, si va nel panico, si diventa impulsivi e prima o poi ci si trova a tu per tu con un orso che soffia e carica all’orizzonte stanchi e con il sole in procinto di tramontare. Il gioco è tutto un susseguirsi di lunghi giorni di solitudine, silenzio, paziente ricerca, noia commisurata, pianificazione maniacale alternati a rari ma adrenalinici momenti di vero pericolo, tali da metterci alla prova: abbiamo imparato la flora locale per ricordare quale pianta può fungere da antibiotico e ricordiamo in che zona l’abbiamo vista qui attorno adesso che la ferita che ci siamo procurati cadendo si è infettata? Abbiamo la self confidence che serve per tornare a casa affrontando il buio della notte o preferiamo cercare una grotta come riparo di fortuna e tenere un fuoco acceso fino all’alba? E se poi domani c’è la nebbia? Certo, sarei pieno di cibo nella casa a Milton, ma è a due giorni di viaggio da qui e sono già stanco. Se invece raggiungo con successo Mystery Lake, più vicino, sarà colmo di trote arcobaleno che aspettano solo di essere pescate, ho riempito di legna l’edificio della direzione del campeggio proprio per scaldarmi nei casotti sul lago ghiacciato. E se ci trovo l’alce? Può capitare che ci si svegli nella propria casa/rifugio designata perfettamente riposati e sani, pronti all’avventura e il clima risulti invece talmente ostile per tutto il giorno che lo si trascorrerà necessariamente al chiuso a leggere, fare tisane, conciare pelli, produrre frecce, rammendare calzini.
Comprendo perfettamente i limiti di “The Long Dark”, e sono ancora più evidenti quelli derivati dalle mie scelte di vita. Ci si trova a che fare con una serie di pattern, da ripetere ogni giorno, e nella Società Eccitata1 è prevedibilissimo che molti lo trovino insopportabilmente noioso. Un conto è farsi consegnare il cibo cotto e caldo da un rider, un conto è mangiare del cibo cacciato o allevato o coltivato con le proprie mani, poi eventualmente conservato, trasformato, cotto. Non c’è un giudizio morale, non mi sento più figo perché le mie insalate e le mie bietole biologiche sono più sane delle vostre, un pragmatico mi obietterà sempre che utilizzo/spreco un’immensità di tempo che la comodità del supermercato mi permetterebbe di dedicare ad altro. Si può obiettare a TLD che la carenza di qualunque forma di trasporto rapido e l’assenza di qualunque forma di locomozione al di fuori dei piedi renda il gameplay snervante. Posso immaginare che la mia abitudine di svegliarmi all’alba ed aprire manualmente il cancello del pollaio delle galline con qualunque clima sia visto come un simpatico anacronismo. Non vorrei scadere nel tanto vituperato “ti deve piacere il genere”. Eppure c’è un ampio margine di manovra, quando ragiono su alcuni temi: per gradire alcune cose serve un rapporto sano con le proprie introspezioni e silenzi, l’apprezzamento della vita lenta come contrapposizione alle nevrosi contemporanee, la riscoperta non tanto della natura (concetto arcigno) ma del riappropriarsi dei alcune capacità insite nell’uomo e (quasi necessariamente) sopite. Dal lavorare il legno, al manipolare le piante, al mettersi alla prova tentando di accendere il fuoco col ferrocerio2, all’acquisire destrezza e abilità manuali con attrezzi in generale, a poter osservare le galline con minuzia anche solo per capirle come specie. Ho trovato normale per anni seguire il metagame di Magic the Gathering per tentare periodicamente (fallimentari) assalti ai Pro Tour Qualifier e mi sembra (mentalmente) un residuato cerebrale non di 15 ma di 150 anni fa. Posso perfettamente capire chi sosterrà che TLD non è capace di far risuonare il proprio interesse, chi è convinto che un sandbox sia per definizione una volontaria lacuna di game design che lascia al player il compito di trovare il modo di divertirsi. Eppure è in grado di sfiorare con poesia alcune fantasie classiche (probabilmente da disadattati). La domanda “che farei come ultimo uomo sulla terra?” resta motore di tante distopie postapocalittiche e la “leggerezza del tratto” con cui è programmato questo titolo lo rendono a mio avviso davvero interessante, al punto che ha scolpito dei solchi tra le mie sinapsi e mi ricorderò di molti di quei posti come se ci fossi stato. C’è la possibiltà, internamente al gioco, di prendere “carta e penna” e scrivere liberamente, che siano appunti, note, sensazioni. Pensate a quanto costa implementare una cosa del genere (pressoché zero), pensate quanto è raro vederlo. Mi infatua.
Cerco perciò di tagliare corto, ci sarebbe moltissimo altro da dire e ho praticamente evitato di parlare dell’avventura vera e propria, Wintermute, che però è una chicca tale che vi consiglio di non saperne nulla. Se la frenesia postmoderna vi agguanta lo stesso, vi lascio decidere se il titolo vi può titillare aggiungendo un video (non mio) che copre interamente il prologo, una semplice presentazione che mi ha subito colpito per la verosimiglianza della tensione e del peso di un passato in comune che definiscono da subito il rapporto tra i due protagonisti. Se vi va, buona visione.