Ho ignorato Metro 2033 per troppo tempo.
Sono sicuro che molti di voi avranno una anti-libreria digitale nella quale lasciare a languire i titoli acquistati per pochi soldi o riscattati gratuitamente.
Qualche giorno fa ho deciso di aggiungere alla pila di cadaveri digitali una copia di Metro Last Light, gentilmente offertomi da Steam in onore del suo decimo anniversario.
Il gioco è per me un ricordo sfumato, ancorato all’epoca gloriosa di Xbox 360 e a una adolescenza segnata dalle discussioni tra i banchi del liceo con i pochi compagni videogiocatori, sempre pronti ad aggiornarsi a vicenda sull’ultima uscita o sui progressi fatti in questo o quel titolo.
Ricordo di avere una copia della versione riveduta e corretta dell’originale Metro 2033 (Metro Redux), anch’essa prontamente riscattata ed abbandonata nel tugurio dell’Epic Game Store.
Lo scarico, lo installo, lo gioco. Arrivato ai titoli di coda realizzo due cose:
1 - Questo videogioco è pieno di problemi.
2 - Ho ignorato questo videogioco per troppo tempo.
Partiamo dai problemi.
La trama e il protagonista silenzioso, l’orfano Artyom, sono piuttosto dimenticabili. Sono certo che nel manoscritto originale di Dmitry Glukhovsky il personaggio principale sia approfondito e sfaccettato a dovere, ma nel prodotto di 4A Games l’unica voce data ad Artyom sono degli sparuti appunti nelle fasi di caricamento dei livelli e presenti come collezionabili all’interno dei livelli stessi.
Le riflessioni di Artyom non sono particolarmente articolate e non vanno molto oltre le ciniche considerazioni di un adolescente ben imbibito di cultura Emo:
”Il mondo fa schifo, l’umanità è perduta in un eterno cerchio di dannazione e violenza e signora mia dia retta a me che qua è tutto un magna magna.”
I personaggi, complice un doppiaggio italiano1 che adora riciclare gli stessi attori2, si riducono a delle marionette caratterizzate in modo piuttosto basilare: Il mistico ranger solitario, il soldato tutto di un pezzo, il nazista da prendere a mazzate, ecc.
Il gioco, come se ciò non bastasse, ha un assoluto feticismo nel metterci alle calcagna di questi ultimi per interi livelli, durante i quali sono stato costretto a seguire l’accompagnatore di turno come un cane al guinzaglio.
Tira la leva, apri la porta, attraversa il cunicolo, tutto rigorosamente all’andamento (lento) del proprio partner.
Uno dei peggiori episodi, in questo senso, l’ho sperimentato oltre la metà del gioco.
Arrivo, dopo una delle poche occasioni nelle quali il gioco lascia il guinzaglio (senza dubbio i momenti migliori), in un largo piazzale sull’uscio di ciò che rimane della biblioteca di Mosca.
Un ululato in lontananza mi preannuncia un carica da parte delle terrificanti creature che infestano il mondo esterno alla metropolitana; In pochi secondi mi piombano addosso.
Virile, sicuro, imperturbabile, tento immediatamente la fuga all’interno della biblioteca.
Non un prompt a schermo, non una interazione disponibile: la porta è bloccata e non mi sono mai sentito tanto simile a uno Shish Kebab.
Corro disperatamente da un riparo all’altro, cercando di portare a casa la pelle.
Le bestie sembrano non darmi tregua (gli spawn non si interrompono) e ho la sensazione che il gioco stia per colpirmi con il cliché del “niente paura, arriva la cavalleria” con la delicatezza di un fucile anticarro.
Dopo la carneficina, rimango attonito: i due NPC giunti in mio soccorso aprono con noncuranza l’enorme portone della biblioteca, diventato interagibile soltanto dopo il loro arrivo.
I limiti del palcoscenico, in quel momento, si fanno dolorosamente evidenti: Metro 2033 è dritto come i cunicoli nei quali costringe il giocatore.
È un peccato, perché lo shooting risulta tutto sommato piacevole.
Artyom è reso con il giusto senso di pesantezza e “presenza” e la mira automatica regolabile ha saputo farmi sentire un figo senza mai tenermi completamente in controllo della situazione (gioco agli sparatutto con un controller, potete anche smettere di leggere).
Ogni scontro è una strenua lotta per la sopravvivenza: le armi sono imprecise e artigianali e le scorte di filtri per le maschere antigas sono sempre da tenere sotto controllo. Tuttavia, giocando a difficoltà normale (altro peccato capitale oltre al controller), non mi sono mai sentito a corto di risorse.
Lo stealth, meccanica che viene fortemente incentivata alle difficoltà maggiori, è invece semplicemente tremendo. I nemici umani, nello specifico, hanno bisogno di un paio di secondi di riflessione prima di accorgersi della presenza di uno sconosciuto col fucile in pugno, intento a fissarli dritto nelle palle degli occhi.
Allertare un nemico, inoltre, è sempre stato sufficente ad allertare l’intero segmento di mappa nel quale mi trovavo. Mi sono presto reso conto della capacità dello Spirito Santo di infondere all’instante la conoscenza della mia posizione a tutto il circondario, con relativa linea di tiro.
Dopo aver fatto fuori un intero reggimento e aver scosso le mura della metro a colpi di granate, mi bastava superare un checkpoint o una sezione interrotta da un caricamento perché tutto tornasse alla normalità.
Eppure, in questo quadro problematico e di assoluta mediocrità, Metro 2033 nasconde dei flebili spiragli di grandezza.
La cura nella realizzazione della visione di Glukhovsky è assolutamente maniacale, e arrivare a una nuova stazione è sempre stata per me una esperienza memorabile.
La metropolitana, spazio liminale per eccellenza e dimenticabile luogo di passaggio, qui è il ventre palpitante di un’umanità distrutta. I bar, le piccole botteghe, i posti di blocco, le file per le provviste, sono tutti immancabilmente conditi da una piccola conversazione, uno scambio di gesti, il suono di uno strumento, il crepitio di un falò.
Le stazioni sono isole di flebile luce separate da chilometri e chilometri di oscurità terrificante, che riesce a risplendere nei pochi momenti nei quali il gioco lascia respiro al giocatore e gli consente di immergersi nel mondo del sottosuolo.
Potevo avvertire Artyom ansimare profusamente sotto la maschera antigas e un singolo tasto del controller era dedicato a una rozza pulizia del visore, sul quale si depositavano gocce di acqua, sangue e sporcizia.
Gli obiettivi sono riportati su una lavagnetta che Artyom si porta fisicamente appresso, consultabile alla flebile luce di un accendino.
Alla bruta potenza muscolare di tanti prodotti Tripla A moderni si sotituisce, nonostante il gioco sia tutt’altro che povero tecnicamente, la volontà di 4A Games di perseguire una precisa visione artistica aldilà dei propri modesti mezzi.
I cunicoli della metro e i desolanti orizzonti del mondo esterno sembravano sussurrarmi:
”Questo è assolutamente il meglio che siamo riusciti a fare, speriamo ti piaccia.”
Il mondo di Metro ha avuto su di me quella capacità lisergica che poche opere riescono a incorporare nella costruzione dei propri ambienti: la capacità di farti desiderare, anche solo per un istante, di fare parte di quel mondo terrificante, sospeso sulla sottile linea della razionalità.
Cosa proverei se mi trovassi per un momento anch’io rinchiuso nel ventre del mondo, atomo tra gli atomi di una umanità stretta con tutte le forze a sé stessa? Il gaudio di un male comune o il terrore di un mondo privo di volta celeste? Proverei disgusto nell’inalare quell’aria, nel calore opprimente di un tubo sotterraneo sovraffollato e strappato alle funzioni per le quali era stato concepito?
Metro 2033 è stato capace di suscitare in me il desiderio di condividere quell’orrore per un singolo secondo, un attimo catartico, per poi tornare comodo alla sicurezza del mio divano.
Ho ignorato Metro 2033 e mi dispiace.
Avrei fortemente voluto affrontare l’avventura nella sua lingua originale, ma avrei dovuto rinunciare alla comprensione di tutti i dialoghi secondari non strettamente legati alla trama, privi di qualsiasi tipo di sottotitolo che ne permetta la compresione.
Circa la metà della popolazione Russa in Metro 2033 ha la voce di Gianluca Iacono, probabilmente a causa delle radiazioni.