Attenzione: se non avete giocato Hollow Knight, seguono spoiler marginali non legati alla trama ma ad alcune boss fight avanzate
GENERI E GENERAZIONI
Sono passati quasi cinque anni dalla pubblicazione di Hollow Knight da parte di Team Cherry e, in attesa del suo annunciato (e apparentemente disperso) seguito, è giunto il momento di fermarsi, tracciare un segno sul posto e guardarsi indietro, per capire cosa è davvero questo videogioco metroidvania in salsa souls.
Già, perché la prima cosa da chiarire a proposito di Hollow Knight è che, nonostante si tratti di un gioco dalle chiare influenze miyazakiane, il titolo di Team Cherry non è ascrivibile al genere soulslike, e neppure può essere considerato un soulslite. Se lo volessimo definire in modo didascalico e del tutto enciclopedico diremmo che si tratta di un videogioco metroidvania d'azione e avventura con una forte componente platform; eppure, questa descrizione non basta.
Non c'è dubbio che se dal punto di vista strutturale e tecnico la definizione appena data corrisponda alla natura del titolo, Hollow Knight possieda molti degli elementi che distinguono i lavori di From Software. Questi elementi, però, a un primo sguardo attengono quasi ed esclusivamente all'aspetto narrativo e a quello ambientale dell'opera: proprio come in un Dark Souls o in un Bloodborne, la trama (anche se forse, come abbiamo ampiamente imparato in questi anni, sarebbe più opportuno parlare di lore, di universo narrativo) va ricercata nell'ambiente entro il quale il nostro minuto cavaliere si muove, nelle frasi degli insetti che popolano il mondo di gioco – spesso criptiche e mai auto-conclusive – e nell'analisi costante degli oggetti rinvenuti dal giocatore o dei nemici sconfitti e dalla loro capacità di raccontare un frammento della storia di Nidosacro.
UN GIOCO, UN’ANIMA, DUE NATURE
In questo senso è possibile distinguere in Hollow Knight una duplice natura: da un lato un videogioco che tecnicamente aspira a essere un metroidvania – e ci riesce, al punto tale da sorpassare il sottogenere nato nel 1986 con il titolo di Makoto Kanoh e Hiroji Kiyotake, portandolo a un punto di saturazione grazie all'aggiunta di elementi e influssi che vengono da altri generi videoludici; dall'altro un'opera che prova a consegnare se stessa al giocatore nuda e cruda, affidandogli poi l'arduo compito dello svelamento, quell'operazione di heideggeriania memoria1 continua e incessante che consiste nel portare a galla il senso proprio delle cose nascosto dietro a ciò che appare a primo impatto, e che rappresenta un traguardo irraggiungibile in ultima istanza, seguendo l'insegnamento greco della verità come aletheia, “dischiudimento” progressivo. La verità che ci troviamo a ricercare non è allora una nozione, ma un'operazione, un atteggiamento: in Hollow Knight esso è l'unico processo che davvero ci consente di giungere al cuore pulsante della sua poetica e che ne rappresenta l'ambizione più elevata: raccontare qualcosa di sé attraverso il punto di congiunzione tra le sue meccaniche e la sua narrativa, tra il suo gameplay e il suo mondo.
Solo se davvero erriamo – ci perdiamo, possiamo imbatterci nella “verità”.
(M. Heidegger)
Da una parte, quindi, il videogioco, il metroid-wanna-be super responsivo ed estremamente piacevole “pad alla mano”; dall'altra l'opera, il souls-wanna-be-even-more: una collezione di reperti archeologici da interrogare e che a loro volta ci interrogano. Eppure la questione non si risolve qui: c'è qualcosa che va oltre questa semplice dicotomia così impostata e prevedibile, qualcosa che colma questo iato apparentemente irrisolvibile e che coniuga le due nature di Hollow Knight in un unico, grande lavoro indispensabile nel panorama del medium e che, come solo le grandi opere vogliono e sanno essere, si distingue per un elemento fondamentale assieme stilistico e contenutistico: la sua assoluta coerenza di fondo in tutti gli elementi che la compongono.
Nel caso di Hollow Knight questa coerenza di fondo – la soluzione al problema della quadratura del cerchio – è rinvenibile negli aspetti che esso cerca di trarre dai souls e che lo fanno aspirare a esser tale. Possiamo distinguere questi aspetti in elementi narrativi e elementi di gioco.
Gli elementi narrativi di Hollow Knight sono quelli che, come detto, lo avvicinano in modo più immediato a un souls: proprio come nei lavori di From Software, il giocatore ha il compito di dischiudere il mondo nel quale viene (letteralmente) gettato tramite un'operazione di costante interrogazione di tutti gli elementi che compongono la mappa di gioco. Non solo, infatti, ci sarà possibile comprendere di più di quello che è accaduto nel passato di Nidosacro – o delle imprese che noi stessi saremo chiamati a compiere – attraverso le frasi delle (poche) creature che popolano il mondo, ma anche e soprattutto grazie all'attenzione che riporremo nei dettagli ambientali, architettonici, nell'analisi degli oggetti che raccoglieremo lungo la strada, sempre interrogandoci sul perché essi si trovino proprio lì e come siano giunti fino a noi. Il patto implicito tra gioco e giocatore, in un Dark Souls come in Hollow Knight, è che nulla è specificato in ultima battuta: l'operazione compiuta è quella della sottrazione, vale a dire togliere da tutti questi elementi (frasi degli NPC, oggetti, luoghi) le evidenze maggiori e dare al giocatore solo quei piccoli dettagli essenziali affinché sia lui stesso a collegare i punti, o ancor meglio a tratteggiarne di propri.
Tramite il suo silenzio, Hollow Knight non parla ma si fa parlare: è questa la sua grande vocazione letteraria.
Sono però gli elementi di gioco ciò sui cui scegliamo di concentrarci maggiormente, proprio perché al contrario di quelli narrativi sono meno espliciti, pur dimostrando tutta l'influenza che essi traggono dai souls.
CHECKPOINT
Tra le varie meccaniche che Hollow Knight presenta il checkpoint è il primo, tra quelli di cui facciamo esperienza, che strizza direttamente l'occhiolino ai souls. Non un falò né una lanterna, ma una panchina: proprio come in Dark Souls, dove il falò rappresenta il luogo perfetto dove riposarsi e raccogliere le forze prima di addentrarsi in una nuova area, la panchina è la speranza massima di un giocatore che si trova in difficoltà e che brama una tregua dopo le fatiche compiute. E, proprio allo stesso modo, sedendo a questi checkpoint i nemici dell'area circostante vengono rigenerati, come a far capire al giocatore che se vuole godere di un'esplorazione meno assillante e più contemplativa dovrà arrivare al punto in cui sarà in grado di meritarselo, di dire “Ecco, finalmente questo livello è mio”.
PERDITA DELLA VALUTA ACCUMULATA
La valuta in Hollow Knight (che prende il nome di Geo) è utilizzata per acquistare nuovi oggetti, sbloccare elementi esplorativi della mappa o per potenziare le proprie armi. Pur se non direttamente, può essere utilizzata anche per migliorare i propri parametri, ma non esiste un vero e proprio sistema di level-up come nei souls – d'altro canto non si parla di un RPG. Eppure, Team Cherry ha deciso che valeva la pena riprendere un particolare aspetto dei videogiochi di From: perdere tutto. Quando si muore (e si muore) in Hollow Knight, la quantità di Geo accumulata si azzera, e ci sarà possibile recuperarla solo recandoci sul luogo in cui è stata perduta e sconfiggendo l'Ombra, alter ego del nostro cavaliere rilasciato alla sua morte. Ovviamente, se nel frattempo si muore una seconda volta tutto andrà perso per sempre.
Come nel caso dei checkpoint, anche questa caratteristica risponde alla stessa esigenza di fondo: padroneggiare mano a mano il livello, non farci spaventare dalle difficoltà che esso presenta e avere pazienza.
ESPLORAZIONE
La meccanica esplorativa di Hollow Knight è “alla cieca”: la mappa, almeno all'inizio, è inesistente, e saremo noi a riempirla (in senso letterale, ogni volta che ci riposeremo a una panchina). In questo caso, pur essendo in continuità con i souls e con la loro logica essenziale, è presente un elemento di discontinuità: in questi giochi la mappa semplicemente non esiste (staremo a vedere se davvero Elden Ring, mostrato in un recente gameplay, rappresenterà un momento di rottura in questo), e la creazione di una mappa mentale e tridimensionale dei livelli è a discrezione unica del giocatore. Seppure questa differenza è dettata dall'appartenenza a generi diversi, è chiaro come entrambe le opere puntino a creare nel giocatore lo stesso senso di smarrimento iniziale: è quella sensazione che ognuno di noi prova ogni volta che si muove in una stanza buia, dove le distanze e le proporzioni reali come si annullano e rendono il nostro intercedere lento, moderato, incerto.
DENSITÀ E INTERCONNESSIONE
Questo punto si ricollega senza dubbio a quello precedente, e in un certo senso ne è una conseguenza. Si può dire che Nidosacro non sia vastissimo, e lo stesso vale per Lordran o Yharnam – quantomeno diremo che questi giochi non fanno della quantità territoriale un fattore che deve risaltare agli occhi del giocatore – specie se paragonati agli standard moderni del videogioco dove spesso le mappe coprono estensioni grandi come aree geografiche realmente esistenti. Eppure tali opere sono dense: è questa la loro forza. Uno degli insegnamenti più grandi che un level designer di Hollow Knight può impartire a un giocatore è che non è necessario mettergli a disposizione un mondo sconfinato, se quegli spazi non hanno niente da dire. Ogni angolo della mappa deve offrire un'opportunità, uno spazio d'azione o di riflessione, persino uno spunto narrativo. Le mappe di queste opere sono, prima ancora che semplici ambienti nel quale muoverci, grandi lavori di design proprio perché offrono la possibilità di essere esplorate più e più volte scoprendo sempre qualcosa di nuovo. È la differenza tra una mappa grande e una mappa piena e, com'è stata in grado di fare Team Cherry, piena al punto giusto.
Vale la pena poi notare come gli aspetti interessanti di queste mappe continuino in un altro dettaglio fondamentale: l'interconnessione. Se in Dark Souls quasi nessuna delle porte si apre da questo lato, in Hollow Knight avviene qualcosa di simile, e il merito è da sottolineare due volte perché, a differenza del primo, questi non può puntare sulla tridimensionalità in quanto ancorato alla sua essenza metroidvania. Eppure, il principio di interconnessione è equivalente e dimostra come la qualità principale di una mappa, in termini di design puro, debba essere la sua densità, la capacità di sviluppare le sue aree in modo coerente prima a compartimenti stagni, per poi svelarci come esse facciano parte dell'unico, grande ingranaggio esplorativo.
MORTE COME FATTORE DI APPRENDIMENTO
La regola è semplice: tutto ciò che impari, lo impari morendo. Non esiste apprendimento senza perdita, comprensione senza rischio, ma non c'è da preoccuparsi: anche se moriremo, avremo sempre la chance di rifarci. Morire è infatti solo una delle parti che costituiscono il processo dialettico di apprendimento, in Hollow Knight come nei souls. Tentare, ritentare, ripetere e ripetere ancora non rappresentano solo l'aspetto “sfida” del gioco – così come la difficoltà, in queste opere, non corrisponde al loro essere punitivi – ma piuttosto quel lato intrinseco che risponde al sopracitato processo di svelamento progressivo che dobbiamo portare avanti passo dopo passo, grazie al quale possiamo davvero comprendere ciò che l'opera vuole comunicarci. Non è un caso se, pur morendo più volte, noi non moriamo mai davvero; l'unica vera “morte” sarebbe arrendersi, gettare la spugna, abbandonare il gioco. Eppure non lo faremo, perché a ogni tentativo fallito qualcosa sarà cambiato in noi, ci avrà reso più forti.
BOSS FIGHT
La natura dei combattimenti principali nel titolo di Ari Gibson e William Pellen – principali creatori di Hollow Knight – è infatti la stessa di quella dei Souls propriamente detti: una natura ritmica. Cosa si intende con “natura ritmica delle boss fight”? A differenza di molti videogiochi action-adventure, hack and slash o persino molti RPG stessi, l'opera di Team Cherry, così come i lavori di Miyazaki, prevede una schematicità delle boss fight tale da far sì che il compito del giocatore sia quello di dare precedenza alla fase di studio: inquadrare il nemico è la nostra preoccupazione principale, prima ancora che attaccarlo alla cieca per terminare in fretta lo scontro. Offendere senza criterio, proprio come in un Dark Souls o un Bloodborne, è controproducente e non sottostà alle meccaniche di gioco, al punto tale che più di ogni altra cosa l'avidità è punita, l'eccessiva foga castigata. Nostro dovere sarà imparare i procedimenti passo dopo passo fino a che non saremo in grado di danzare tra le varie fasi del boss, che una dopo l'altra si dischiuderanno come matriosche alla memoria muscolare dei nostri metacarpi. Solo a quel punto il piccolo cavaliere sarà ca(ra)pace di fare man bassa di falene, bruchi e calabroni.
TRA GIOCO E SENSO
Come si può vedere, tutti i punti che rappresentano gli elementi di gioco condivisi tra Hollow Knight e i Souls lavorano in sinergia per adempiere a un unico, grande scopo: svelare i propri segreti strato dopo strato. Che si tratti dei suoi checkpoint, del fattore esplorativo, delle boss fight o persino di dettagli tecnici apparentemente di minore importanza come il rischio di perdere la valuta accumulata, tutte queste meccaniche concorrono alla medesima funzione e sono attraversate dallo stesso, intenso filo rosso.
Proprio come i mondi di Lordran, Drangleic o Yharnam si dischiudono a poco a poco agli occhi del giocatore che sa svelarli, così le meccaniche esplorative, di level design e di gameplay presenti a Nidosacro costringono il giocatore ad avere un approccio che richiede la disciplina dell'attenzione.
Ecco qual è il grande traguardo raggiunto da Team Cherry: creare nel giocatore un approccio unico e coerente nell'affrontare il gioco inteso come una sfida non da superare, ma da comprendere e apprendere fino alle sue fondamenta; che si tratti di capire la lore o come battere un nemico, la predisposizione d'animo del giocatore è la stessa. È quella predisposizione allo svelamento progressivo che ci consente di giungere al cuore caldo della sua poetica, ed è una lezione mutuata direttamente dai titoli di From Software.
Pur ereditando di conseguenza alcuni dei difetti delle opere di Miyazaki – si pensi alle boss fight che, forse per fare numero o forse nel tentativo di variegare l'offerta, sono dominate non da ritmicità e apprendimento ma da fattori come l'RNG o persino dall'elemento gimmick, e che di conseguenza si portano dietro un senso di frustrazione più che di appagamento – o elementi che si espongono al rischio di essere considerati tali (a esempio la sua difficoltà), non c'è dubbio che laddove Hollow Knight punti a essere se stesso in maniera sincera il risultato sia eccellente, e ciò proprio grazie alla capacità di dare un senso contenutistico ai suoi aspetti tecnici e strutturali.
METROULS O SOULSOID?
La domanda è però la stessa: cosa punta a essere, allora, Hollow Knight?
Torniamo a quanto detto all'inizio: di fronte alla questione se sia definibile più come metroidvania o soulslike vale la pena dire che esso è le due cose insieme, ma solo se visto da prospettive diverse e complementari2.
È altrettanto vero che le aspirazioni letterarie degli autori puntano più in direzione di un souls o, meglio ancora, di quell'aspetto narrativo dei souls che tende a veicolare il proprio messaggio attraverso l'esperienza di gioco presa nel suo insieme: è l'esperienza della gettatezza, termine adottato proprio da Martin Heidegger per individuare quella sensazione che ognuno di noi prova a causa del suo semplice esserci; è l'esperienza dello smarrimento primordiale causato dalla consapevolezza che la nostra presenza non si giustifica da sé, e che all'interno della nostra partita in Hollow Knight supereremo solo apprendendo la lezione secondo cui le sue meccaniche pure altro non sono che le sue ragioni esistenziali, la sua linfa vitale. Se da un soulslike Hollow Knight non prende (e non può farlo) la struttura, che rimane tipicamente metroidvania, esso trae però la sua logica di fondo, il suo cuore pulsante.
Sono pochi i videogiochi che possono fregiarsi di un tale merito, quello di affidare al gameplay e al game design una parte così consistente della chiave di lettura del proprio essere e della propria verità svelata, della propria aletheia.
Hollow Knight non è un videogioco che si finisce ma che, come un gigantesco uovo nero, lentamente si dischiude.
In molte delle sue opere, tra cui il fondamentale Essere e tempo (1927), il filosofo tedesco Martin Heidegger riprende il concetto greco antico di aletheia e lo rielabora come punto focale dal quale far partire la propria interrogazione a proposito del concetto di Verità. Per Heidegger, la verità è a-letheia, mancanza-di-velamento, e coincide con un’operazione, uno statuto attitudinale della persona più che con una serie di nozioni. Per approfondire il concetto di aletheia in Heidegger, oltre al già citato Essere e tempo, è possibile consultare anche la sua Introduzione alla metafisica (1935).
Se volessimo parlare di “soulsoid”, è opportuno notare come Hollow Knight non rappresenti ormai neppure un unicum: si pensi, ad esempio, al validissimo Salt and Sanctuary (2016) di Ska Studios - anch’esso in procinto di ricevere un seguito - pubblicato persino prima del titolo di Team Cherry e per il quale vale molto di quanto detto sinora.