Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty è uscito negli Stati Uniti d’America il 13 novembre del 2001. Appena due mesi prima, il cuore pulsante degli USA, terra figlia della libertà, si sgretola sotto il peso delle sue stesse macerie al World Trade Center di Manhattan, in un attentato il cui clamore mediatico resta — nonostante l’esponenziale crescita dei mezzi di comunicazione intercorso tra quel momento e il presente — tuttora insuperato. Con un coup de theatre degno di un film catastrofico gli attentatori intendono mandare un segnale al nemico, di cui vogliono abbattere i simboli per problematizzarne i valori. Così pensano di dare inizio alla fine del mondo: non con un vagito, ma con un’esplosione. Se è vero che gli esseri umani preferiscono l’inverosimile ma auspicabile al verosimile non auspicabile1, gli attentatori hanno dato al mondo pane per i suoi denti. È la finzione che supera la realtà.
Nel momento in cui il suo nuovo videogioco arriva nei negozi e in cui il cadavere di cemento d’America è ancora caldo, Hideo Kojima ha trentotto anni, mentre l’eroe nato dalla sua mente, Solid Snake, irriducibile e corrosivo, che schiva la definizione di eroe arrivando a svincolarsene in un capitolo successivo della saga, addestrato per serrare i ranghi ma costretto all’azione militare solitaria, di anni ne ha all’incirca trentacinque2. Kojima e Snake sono nella stessa fase della vita, quella in cui si è adulti ma ancora giovani, sia mentalmente che fisicamente; eppure è quella fase in cui si inizia ad accumulare un bagaglio di esperienze non indifferente e, se ne si ha la sensibilità, ci si interroga su ciò che è stato di noi fino a quel momento e sulle responsabilità che ne derivano. Kojima è un autore, per vivere fa i videogiochi, una categoria di prodotto che nel 2001 ha un pubblico decisamente più giovane rispetto a oggi. Kojima è un papà che racconta una storia a una platea di figli possibili. Le sue non saranno storie della buonanotte, ma sono comunque la presa di un uomo sul suo presente: sono la sua visione del mondo. E che mondo vede, Hideo Kojima?
Se c’è una cosa che Kojima capisce molto bene (e di sicuro molto meglio di chi attenta alla libertà cercando di abbatterla a suon di esplosioni) è che i tentativi più efficaci di distruggere qualcosa sono silenziosi, morigerati, cauti, al di sopra di ogni sospetto. Rilasciati a piccole dosi. È così che finisce per davvero il mondo: non con un’esplosione, ma con un vagito.3
Come ha scritto Federico Maestri in un suo articolo su Silicon Arcadia, MGS2 possiede una vera e propria tesi, e la cosa di maggior fascino risiede nel fatto che la sua tesi sembri essere più efficace a raccontare il nostro presente che non quello del suo autore nel momento in cui questi la stava formulando. L’attualità del gioco di Kojima può essere colta su più piani: dal ruolo delle IA alla vera e propria profilazione utente (per richiamare un’espressione dello stesso Federico Maestri nel suo articolo) fatta a Raiden in modo che questi compia determinate azioni, con tutti gli interrogativi del caso che si aprono a proposito del libero arbitrio, dell’identità personale e del controllo dell’informazione. Ma se è vero che Kojima può essere paragonato a un papà che racconta una storia a una platea di figli possibili, è altrettanto vero che Kojima sceglie di farlo non paternalisticamente né in senso moralistico: non dice al suo pubblico come si dovrebbe vivere né come non si dovrebbe, tantomeno prova a offrire una risposta rigida ai dilemmi che lui stesso affronta. Si limita a sollevare un’obiezione, nel tentativo di farci capire il problema in cui, dal suo punto di vista, ci troviamo immersi. E fra tutti i problemi affrontati da Kojima nello straordinario epilogo del suo videogioco, quello relativo ai memi e alla loro trasmissione è senza dubbio il più decisivo, perché rappresenta l’unità logica fondamentale che serve capire per decifrare i problemi successivi, che da questo dipendono secondo un effetto cascata. Tutto origina da lì.
QUIS CUSTODIET IPSOS MEMES?
Di cosa parla Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty? Nella fase finale del gioco Raiden, nostro avatar, scopre di essere stato manipolato da un’intelligenza artificiale facente capo a un’organizzazione chiamata Patriots in modo da compiere una missione per loro e fermare un’unità terroristica, sventandone i piani. Per far sì che Raiden possa essere usato, i Patriots hanno quindi bisogno di conoscere alla perfezione il proprio burattino. Dopo averlo manipolato per i propri scopi, i Patriots girano la mano e giocano a carte scoperte, dichiarando il perché delle proprie azioni. Dunque, qual è il loro obiettivo?
I Patriots vogliono controllare le informazioni in modo che a trapelare, a diffondersi, siano soltanto quelle informazioni che i Patriots stessi ritengono necessarie al progredir della specie. C'è un certo teleologismo di fondo nelle azioni dei Patriots, che si reputano in grado di stabilire quali informazioni siano necessarie e quali no per far sì che gli umani diventino la versione migliore di loro stessi, cui i Patriots in qualche modo sostengono (o vorrebbero?) la specie esser destinata. Il paradosso dell’obiettivo dei Patriots sta proprio in questo: nel tentativo di voler affermare un umanismo che fa leva sulla perfettibilità dell’individuo attraverso lo stimolo virtuoso delle sue attitudini (e l’inibizione delle sue parti peggiori), i Patriots ne negano una quota consistente di libertà, che di ogni umanismo è condizione necessaria. Per i Patriots la quantità infinita di nozioni senza rilevanza che bombardano gli individui non può che condurli a perdersi, in un mare di irrilevanza fatto di irrilevanti informazioni culturali. L’unico modo per arginare il dramma è la cernita: in un mondo sovrabbondato di informazioni, è la capacità di riconoscere, analizzare e selezionare criticamente le informazioni stesse a determinare la libertà di un individuo. Un figlio della libertà ha il coraggio di scartare le informazioni di troppo; la sua attività di cernita, di riflesso, è la cartina di tornasole delle informazioni essenziali.
Verso la fine del gioco, quando il “colonnello Campbell” si rivela per quello che è, Kojima comincia a discutere di due nozioni che ritiene fondamentali alla comprensione delle azioni a cui il giocatore è stato chiamato sino a quel momento: quella di gene e quella di meme. Com'è noto, il meme è per l'informazione culturale quello che il gene è per l'informazione genetica. E proprio come i geni competono fra di loro per emergere, tramandarsi e proliferare, così anche i memi, presi come singole unità culturali, competono a vicenda per affermarsi, trasmettersi e moltiplicarsi. Ma tra gene e meme c'è almeno una grande differenza: se l’informazione genetica è in sostanza amorale, quella che proviene dai memi ha inevitabili ricadute etiche.4 Se un meme emerge, si trasmette e perdura nel tempo, la sua affermazione determinerà anche il tenore (e il valore) delle discussioni degli individui, le loro tendenze morali e, qualora il meme trasmesso lo consentisse (per esempio perché “debole” o fragile concettualmente), a essere minata sarebbe la capacità analitica degli individui che lo diffondono. È anche per questa ragione che i Patriots voglio controllare le informazioni, per evitare che memi emersi e secondo loro di scarso valore rendano gli individui poco capaci di ragionare o li portino a occuparsi di argomenti irrilevanti.
Questa, in sintesi, la situazione presentata da Kojima in MGS2. A questo scenario — che non rappresenta un fantascientifico o distopico orizzonte futuro, ma il presente in cui siamo immersi da anni — va però aggiunta un'importante postilla, ed è qui che risiede l’abilità di Kojima, che non si limita a esporre una nozione già nota ma rende la sua tesi degna di essere approfondita.
MEMI CATTIVI E MEMI BUONI
Qual è il rischio di essere sovrabbondati di informazioni culturalmente irrilevanti? Posto che a stabilire cosa sia culturalmente rilevante sono gli individui (o al massimo le leggi che ne regolano le relazioni intersoggettive), essere sovraccaricati di informazioni di questo tipo espone a un grandissimo rischio, ovvero la perdita di capacità critica e analitica: come il Funes di Borges, la cui memoria sbalorditiva gli consentiva di sporzionare la realtà in parti così minute al punto di distinguere ogni fenomeno da ogni altro — tanto che, come scrive Borges, a Funes “dava fastidio che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte)”5 — atomizzare la realtà in una tempesta di informazioni (leggi memi), tutte ugualmente valide perché nessuna sacrificabile, non può che condurre a un’inevitabile collezionismo delle informazioni stesse, che però rima tragicamente con la stupidità umana6: essere più intelligenti non equivale a sapere più cose.
Non essere in grado di capire che sia doveroso attuare una gerarchia nelle informazioni che costantemente riceviamo, porta non solo le informazioni a essere tutte potenzialmente uguali — quindi potenzialmente valide allo stesso modo — ma anche ad appiattire di conseguenza il livello del dibattito su informazioni irrilevanti.
È questo lo status, per esempio, dell’industria culturale popolare, che nel tentativo costante di giustificare la propria incessante presenza — spesso la sua unica condizione di possibilità — sovrabbonda costantemente i suoi fruitori di informazioni irrilevanti, spacciandole come nozioni di primo pelo. Così i salotti virtuali sono il terreno di quelli che Kojima, attraverso i Patriots, denuncia come “memi cattivi”, ovvero fini a se stessi, disegnando uno sciame che col progresso di emancipazione individuale (e quindi della specie) nulla ha a che vedere, perpetrato semmai per accrescere l’ego di chi li utilizza e giustificarne l’autorità. Un fatto che la cultura popolare estremizza perché, in quanto relativamente di facile accesso, non ha bisogno di barriere d’entrata particolarmente elevate, con la conseguenza che si cerca di consolidare la propria autorità di massimo esperto di un argomento non tanto grazie alle proprie capacità critiche e analitiche, quanto attraverso la collezione di informazioni spesso irrilevanti di cui si è a conoscenza, trivia utili più per dimostrare di sapere più cose dell’altro sullo stesso argomento che non per comprendere l’argomento al meglio.
Internet, suggerisce Kojima, diventa la patria dei memi cattivi, in una guerra di tutti contro tutti dove a emergere è spesso il meme che viene raccontato meglio, non il più rilevante. L’attenzione si concentra sul rovescio sbagliato della medaglia.
Giusto per fare un banale esempio, prendete il vostro autore o la vostra opera di cultura popolare preferita e pensate a quante volte vi siete ritrovati7 a dibattere con uno sconosciuto su internet perché secondo lui, dato che non siete altrettanto esperti su quell’autore (per esempio per colpa del fatto che non ne avete approfondita la biografia), la vostra opinione è squalificata. Questi memi, informazioni culturali in larga parte irrilevanti, sono in costante lotta per tramandarsi secondo un modello di trasmissione da pari a pari, dove però ciascuno dei pari spesso non ha come obiettivo l’intenzione di trasmettere un’informazione a un pari che ne è sprovvisto, ma di giustificare il suo meme e, di conseguenza, squalificare quello avversario. Uno scenario paragonabile a quello desiderato dai Patriots, ma con una sostanziale differenza: per i Patriots c’è a monte un obiettivo apparentemente nobile, ovvero selezionare i memi programmaticamente in modo da consentire alla specie umana di progredire al suo meglio, di essere la versione migliore di se stessa; nella realtà, invece, i memi vengono selezionati caoticamente, secondo una quantità sterminata di fattori, non ultimo quello di mettersi in posa cercando di sfruttare lo spazio digitale comune per far prevalere i propri memi (o le proprie opinioni, dovremmo dire).
Ma esistono poi quelli che Kojima presenta come “memi buoni”8, ovvero quei memi che è auspicabile tramandare, su cui quindi dovremmo concentrare tutte le nostre attenzioni. È attraverso il tentativo di trasmissione di questo tipo di informazioni che si afferma il più grande pregio di Metal Gear Solid 2, vale a dire l’umanismo di Kojima. Per capire come ciò avviene si può pensare ad alcune delle meravigliose conversazioni finali tra Raiden e Snake. Dopo che il vaso di Pandora è stato scoperchiato, messo a conoscenza dello scopo dei Patriots, l’illibato Raiden si interroga sulla propria identità. Che fare, se le informazioni che costantemente ricevo rischiano di definirmi più di quanto sono disposto ad ammettere? Hideo Kojima sembra chiederci questo. Ma in realtà Kojima ci sta obbligando a porci un’altra domanda, forse più importante: che fare di quelle informazioni? Come scegliere quali tramandare, e soprattutto perché farlo? Di cosa parlare, e di riflesso di cosa tacere? Il dialogo tra Raiden e Snake aiuta a capirlo:
Raiden: “Ma allora in cosa dovrei credere? Cosa lascerò di me quando non ci sarò più?”
Solid Snake: “Possiamo dire agli altri — di avere fede. In quello in cui avevamo fede noi. Quello che abbiamo trovato così importante da spingerci a combattere. Non si tratta di avere ragione o torto, ma di quanta fede eri disposto ad avere. È questo a decidere il futuro.”
Da Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty.
Fra le avenue della New York che nel mondo reale, all’uscita di MGS2, aveva appena visto i suoi simboli sgretolarsi sotto i colpi di chi ne minacciava il significato, Raiden e Snake dialogano come un insegnante e il suo allievo, come un padre e il figlio cui tutto è destinato. Alla domanda su cosa rimarrà di lui quando non ci sarà più, Raiden ottiene da Snake una risposta intrisa di tutto l’umanismo di cui Kojima dispone: a rimanere sono le informazioni che abbiamo ritenuto rilevanti, quelle che sentivamo di dover conservare non per puro ego, non per dimostrare di essere migliori degli altri e neppure per un incontrollabile perché naturale impulso genetico; ma per insegnare a chi non ne era ancora a conoscenza cosa c’è di bello nel nostro mondo. Questo tipo di trasmissione dei memi non è da pari a pari, non corrisponde a una lotta senza quartiere per far prevalere la propria opinione, ma assolve a una missione pedagogica che coincide col desiderio disinteressato di insegnare, vale a dire fornire di strumenti critici chi ne è ancora sprovvisto. Non è un caso se subito dopo Raiden, accompagnato da una nostalgica melodia di pianoforte, scopre che a breve diverrà padre, decidendo di affrontarne accogliendole come un dono tutte le responsabilità che ne conseguono:
Raiden: “Penso di aver trovato qualcosa da tramandare ai posteri.”
Rose: “Cosa?”
Raiden: “[Snake] Ha detto che tutti gli esseri viventi vogliono che i loro geni sopravvivano.”
Rose: “Ti riferisci al bambino?”
Raiden: “Sì. Ma i geni non sono la sola cosa che occorre tramandare. Ci sono troppe cose non scritte nel nostro DNA. Sta a noi insegnarle ai nostri figli.”
Rose: “Che tipo di cose?”
Raiden: “L’ambiente, le nostre idee, la nostra cultura… la poesia… la compassione… il dolore… la gioia… Gli diremo tutto… insieme.”
Da Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty.
Il messaggio di Kojima, filtrato attraverso gli occhi del ragazzo che si fa padre, è di un profondo e genuino umanismo: non il macchinico umanismo dei Patriots, che nel tentativo di affermare la versione migliore degli individui è costretto a limitarne gli spazi di manovra; ma un umanismo intriso di desiderio pedagogico, della volontà disinteressata di insegnare al prossimo trasmettendogli informazioni (memi buoni) di cui ancora non era a conoscenza. Verosimilmente, i memi migliori di cui ogni individuo dispone. È attraverso questa forma di pedagogia intrinsecamente legata a ogni umanismo che per Kojima si concretizza l’uso perfetto di un imperfetto strumento quale è internet. Uso perfetto che però, a causa di una sorta di determinismo tecnologico a cui i mezzi digitali paiono spesso tendere, sembra fatalmente destinato a perdere contro la diffusione numericamente più rilevante dei memi cattivi, che trovano in internet il loro mezzo di diffusione migliore.
L’ambiguità di internet lasciata presagire da Metal Gear Solid 2 — ambiguità che di internet è la vera cifra costitutiva — è maggiormente riscontrabile nelle ultime parole di Solid Snake dopo i titoli di testa, dove a parlare, attraverso la voce di David Hayter, è evidentemente lo stesso Hideo Kojima:
Solid Snake: “Vivere non vuol dire solo tramandare i geni alle future generazioni. Possiamo lasciare molto di più di noi che il solo DNA. Con le parole, la musica, la letteratura e i film… quello che abbiamo visto, sentito, provato — odio, amore e dolore — queste sono le cose che lascerò io. È per queste cose che vivo. Dobbiamo tramandare agli altri la fiaccola e lasciare che i nostri figli leggano con la sua luce, nella nostra storia. Abbiamo tutta la magia dell’era digitale per farlo. Probabilmente la razza umana si estinguerà un giorno, e nuove specie popoleranno questo pianeta. Anche la Terra potrebbe non essere eterna, ma abbiamo ancora la responsabilità sulle tracce che lasciamo nella vita. Costruire il futuro e lasciar vivo il passato sono la stessa cosa.”
Da Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty.
La chiusura di Kojima, profondamente umana e intrisa di una fiducia di fondo nella specie, palesa però l’ambiguità cui internet, ormai mezzo principe per la diffusione di quelle informazioni che vanno oltre il solo DNA, è costretta: quando descrive l’era digitale, Snake le attribuisce una parola carica di una controversia sterminata: magia.
E qui sta il grande paradosso presentato da Kojima e dal suo umanismo, che proprio in virtù della sua bellezza si erge fragile come un grattacielo di carta pronto a crollare al primo vagito di vento: nonostante le parole di Snake siano pronunciate con una chiara fiducia verso la sua specie, il termine magia è alla base di ogni possibile fraintendimento sul potere degli strumenti digitali9. Nel tentativo di distruggere un dogmatismo, attraverso un umanismo che fa leva sul potere delle conquiste scientifiche e digitali, Kojima ne prospetta all’orizzonte un altro. È proprio questo il rischio che corriamo: pensare ai mezzi di trasmissione dell’informazione digitali come a una nuova forma di magia — perché ancora limitata è la nostra conoscenza di questi mezzi e delle loro meccaniche — rischia di far sorgere nuovi stregoni (dopotutto, chi lancia incantesimi se non il mago?), che possono corrispondere al nome dell’opinion leader, del VIP, della star, dell’influencer, che al pari del mago di qualche secolo fa riescono a far trasparire la propria opinione come più valida perché autoritaria, un incantesimo che prevale sotto forma di memi che riescono ad affermarsi perché meglio propugnati, non perché più solidi.
Quello che Kojima auspica al giocatore è un percorso simile a quello di Raiden10. Più che il viaggio dell’antieroe, quello di Raiden è un anti-viaggio dell’eroe: quando getta la targhetta col nostro nome, Raiden dimostra che un vero umanismo non corrisponde a una lotta tra pari per la trasmissione del mio sapere sul tuo, terreno su cui si fonda il dibattito digitale, ma a una trasmissione che fa leva sul senso educativo. Raiden cessa di essere un eroe nel senso vogleriano del termine nel momento in cui capisce che l’unico modo per appropriarsi della propria libertà corrisponde a distaccarsi dalle pressioni sussurrate dal brusio che proviene dai memi pervasivi e a scegliere, con “le parole, la musica, la letteratura e i film”11 di cui si è riempito la vita, quali memi tramandare.
Postilla
Qualche giorno dopo aver pubblicato questo articolo, mi è capitato di rileggerlo e di fare qualche piccola correzione e integrazione al testo, come per esempio l’aggiunta fatta nella nota 2. Non è cambiato granché, si tratta più che altro di piccoli aggiustamenti di prosa, ma per chi ritenesse importante avere a disposizione anche la versione originale, sono in grado di fornirla. Trovate la mia mail cliccando sul mio nome a inizio articolo.
Come sosteneva il caro vecchio Aristotele nella cara vecchia Poetica.
Piccola correzione: rileggendo l’articolo dopo qualche giorno dalla pubblicazione, mi sono reso conto che in realtà Solid Snake ha 35 anni nel primo capitolo del gioco, ambientato nel 2007, ma 37 nel secondo capitolo, che si svolge nel 2009.
La frase del “colonnello Campbell” a Raiden in questo famoso passaggio del gioco è un riferimento al poema The Hollow Men (1925) di T. S. Eliot. La strofa finale recita:
“This is the way the world ends
This is the way the world ends
This is the way the world ends
Not with a bang but a whimper.”
In questo video vengono trattate le nozioni di selezione genetica e selezione memetica all’interno del contesto di Metal Gear Solid 2.
J. L. Borges, Finzioni.
Non è un caso che Funes, nell’omonimo racconto, venga descritto da Borges come uno stupido: proprio perché ricorda tutto non sa ragionare. E non è un caso se Umberto Eco si appellava a Funes per descrivere internet (in questo video dal minuto 12:30 circa), sottintendendo che grazie a internet siamo in grado di conoscere tutto, perdendo però in verve analitica.
Perdonate la generalizzazione che faccio per esporre questo esempio, magari non vi siete mai trovati in una situazione simile; in quel caso, buon per voi.
Per chiarezza ci tengo a specificare che nel suo gioco Kojima non utilizza le espressioni memi buoni e memi cattivi, sono categorie qui utilizzate arbitrariamente per spiegare una parte fondamentale della sua tesi.
Neanche Kojima è immune da questi fraintendimenti, ovviamente. Basta pensare a quanto controverso possa risultare il messaggio di Snake a Raiden sull’avere fede di cui sopra.
Se la pars destruens della tesi di Kojima in MGS2 è solo parzialmente condivisibile, perché tra le righe rischia di emergere un fatalismo cui a tratti sembra impossibile sfuggire, nonché l’idea che l’oceano di informazioni spazzatura ingabbi l’evoluzione in una stasi regressiva (sottintendendo quindi che esista un progresso inevitabile e quasi teleologico della specie), la pars construens a modo suo, proprio perché molto più semplice, è il traguardo maggiore del gioco di Kojima: è fondamentale educare e sensibilizzare, ponendo l’attenzione di chi è ancora sprovvisto di strumenti critici e culturali verso quello che riteniamo essere bello e di valore. Detto nella maniera più banale possibile: si dovrebbe parlare di più di cose belle. Una cosa che si fa sempre di meno sui social, dove più che trasmettere “memi buoni” tendiamo a trasmettere meme efficaci, dove l'argomento di discussione è sempre di meno l'argomento in discussione.
Ma quanto suona naturale, a questa lista, aggiungere anche i videogiochi?