In estetica (branca della filosofia che indaga l’arte, il nostro rapporto con essa e la sua codifica), una delle tesi più discusse, da Hegel a Heidegger, è stata quella della morte dell’arte, che afferma come essa non sia più in grado di assolvere ai suoi scopi specifici: a dare conto da sola della nostra idea di bellezza.
L’arte classica, grazie alla sua immediatezza, riusciva a dare un’esperienza estetica richiedendo soltanto intuizione al fruitore. Adesso la situazione è cambiata: si ha un’arte che richiede riflessione e che, quindi, necessita della filosofia per comunicare al suo più alto livello.
Ma tutto questo cosa c’entra con i videogiochi? Cercherò di esplicare come possano avere uno scopo centrale nella comprensione dell’arte contemporanea e come si adattino a dei modelli (alcuni oramai vetusti) d’interpretazione dell’arte. In particolare, vorrei proporre un discorso videoludico servendomi della prospettiva fornita dal seguente autore: Arthur Danto. È stato un filosofo e critico d’arte statunitense, e questo mio discorso è stato ispirato dal suo lavoro La destituzione filosofica dell’arte, dove individua tre modelli interpretativi nella storia di essa: quello progressivo, quello espressivo e quello cognitivo1. Li connetterò al videogioco per cercare di fornire una prospettiva inedita, riflettendo sui suoi possibili ruoli in relazione a questi temi.
IL MODELLO PROGRESSIVO
Il primo dei modelli individuabili, che si trova in Giorgio Vasari (XVI secolo) è quello progressivo secondo il quale, la storia dell’arte è una graduale conquista delle apparenze naturali; mi spiego meglio: quando guardiamo una scultura, ad esempio il David di Bernini, noi sappiamo che il momento rappresentato precede il suo scagliare la pietra, ma non vediamo effettivamente il movimento. Ci arriviamo tramite ragionamento2: guardiamo il posizionamento dei suoi arti, l’allungamento della corda o magari conosciamo la sua storia. Inoltre, per facilitare l’immaginazione, spesso gli autori utilizzano nelle loro opere, anche a seconda del medium, un codice condiviso (pensate alle nuvolette in successione indicanti il movimento nei fumetti).
Ecco, la storia dell’arte, secondo questo modello, consiste in una diminuzione progressiva di questi ragionamenti, fino alla loro scomparsa, che coinciderà con una capacità di rappresentazione completa di un certo campo sensitivo: a quel punto si potrebbero riprodurre tecnicamente tutte le sensazioni umane (visive, tattili, uditive, gustative e olfattive).
Un esempio concreto di progresso, ricollegandomi alla capacità rappresentativa del movimento, può essere l’invenzione del cinema: con esso lo vediamo direttamente (è vero, in realtà sono immagini statiche, ma sono riprodotte a una frequenza tale da non farci percepire il passaggio tra l’una e l’altra; di fatto non cerchiamo di ipotizzarlo). Questo intero discorso, si può facilmente applicare ad altre forme d’arte come la pittura o il disegno in generale, e si possono individuare altre tecniche, che fanno soltanto immaginare ciò che la rappresentazione vuole comunicare (non necessariamente un movimento): prima che fosse formulata una teoria prospettica, gli artisti riuscivano a dare l’idea di profondità con tecniche molto meno efficaci (dimensioni diverse, ombre ecc.). Con l’invenzione della prospettiva, invece, l’immaginazione deve fare un passaggio in meno, e questo è uno sviluppo del medium. Ma possono avvenire anche delle vere e proprie trasformazioni. La tecnica prospettica è soltanto un modo nuovo di utilizzare i materiali già posseduti; una trasformazione, invece, implica l’andare oltre le naturali limitazioni del medium, aggiungendo o modificando strumenti tecnici a disposizione. Nel cinema, l’introduzione del sonoro è una trasformazione (data l’aggiunta del Movietone sound system).
Ora, tenendo a mente questo quadro, come possiamo immaginare un futuro dell’arte?
Danto individua un possibile avanzamento tramite l’olografia in movimento: questa supera un problema del cinema che, avendo una prospettiva a punto fisso, non si adatta alla nostra posizione rispetto lo schermo, restituendoci un’immagine schiacciata. Con l’ologramma tridimensionale non accade: si potrebbe creare un cinema a tutto tondo. Volendo fare un avanzamento ulteriore, si potrebbe pensare di rendere tangibili questi ologrammi. Ovviamente si deve trovare il modo di narrativizzare queste tecniche e fare in modo che siano economicamente sostenibili, ma qui sto astraendo.
A questo punto, penso abbiate compreso il perché i videogiochi potrebbero avere un ruolo fondamentale per questo modello. Basta uno sguardo alla loro storia per accorgersi di come si sia ricercato continuamente uno sviluppo tecnico e di capacità rappresentativa, passando in meno di mezzo secolo, dalla bidimensionalità e dai pixel di Pong (uscito nel 1972), alla tridimensionalità e al fotorealismo di The Last of Us Parte II (uscito nel 2020): una lampante analogia con il modello progressivo. Ma ancora più interessante è l’attuale investimento del mercato sui dispositivi di realtà aumentata, come il Playstation VR (che rappresenta una trasformazione del medium). La direzione è veramente quella di un avvicinamento alla rappresentazione completa di un campo sensitivo. Immaginatevi le conseguenze di ciò all’ennesima potenza: ne deriverebbe l’Isekai alla Sword Art Online (opera in cui, mettendosi un visore, si entra in un videogioco che riesce a farci vivere le stesse sensazioni del mondo reale). A quel punto, tra videogioco e realtà, la differenza di ragionamento da fare sulla rappresentazione sarebbe nulla, esso costituirebbe la massima evoluzione dell’arte e con ciò cesserebbe il suo sviluppo, che, secondo questo modello, coinciderebbe con una morte dell’arte.
C’è chiaramente da chiedersi se questo risultato sarebbe esclusivamente applicabile ai videogiochi: anche un film tridimensionale potrebbe essere esperito tramite visore, ma a quel punto ci sarebbe da chiedersi a cosa potrebbe servire un senso come il tatto. Nel videogioco, invece, è facile immaginare come tutte le sensazioni potrebbero essere ben sfruttate (in fondo, molta della sua forza risiede nell’interazione con lo scenario offerto). Non a caso, è l’industria videoludica che sta attualmente puntando su questo tipo di progresso (considerando anche cose più banali come il DualSense, che cerca di simulare tattilmente certe sensazioni).
IL MODELLO ESPRESSIVO
A ragion veduta, starete pensando che l’arte non possa essere ridotta agli scopi del modello sopra analizzato: deve offrire altro. Danto concorda: considerare l’arte soltanto secondo il modello progressivo, è un paradigma morto nei primi anni del ‘900, epoca in cui il cinema stava evolvendosi emergendo sempre di più, mentre, a causa delle interpretazioni progressive dell’arte, lavori pittorici stavano venendo oscurati. Questo, fino a quando non subentrò il modello espressivo.
Matisse, nel 1906, dipinse un ritratto di sua moglie e, nel farlo, le colorò di verde il naso: alcuni critici pensarono fosse impazzito e che non sapesse più dipingere. Stava avvenendo un cambio di paradigma con una nuova teoria: gli artisti, più che rappresentare, esprimono. La linea verde è utilizzata da Matisse per esteriorizzare un sentimento, in questo caso verso il soggetto presentato: la moglie. Qui le ipotesi, differentemente dal modello progressivo, tornano a essere parte integrante dell’arte. Sulla base delle discrepanze tra rappresentazione e realtà, possiamo infatti pensare ai possibili significati di quel segno (in questo caso una descrizione del carattere della donna, plausibilmente). L’arte, dopotutto, è un linguaggio.
Pensando ai videogiochi e alla loro storia, possiamo constatare come essi non siano mai stati all’avanguardia rispetto il modello progressivo: la loro capacità di rappresentare un certo campo sensitivo, era infima agli albori e inferiore al cinema tutt’oggi, in alcuni aspetti3. Considerando invece il modello espressivo, una nuova risorsa veniva aggiunta alle possibilità dell’artista: l’interazione, la possibilità di dare al fruitore la capacità di modificare lo scenario, certe volte in modo guidato dall’autore (pensate ai giochi corridoio o a generi come il platform), certe volte in modo più libero (nel caso di prodotti che contemplano una maggiore possibilità di scenari particolari, come in un battle royale o in un open world). Ma cosa si può esprimere con questa nuova risorsa? Penso che, come mai prima del videogioco, l’artista possa comunicare una sua prospettiva o sensazione, ad esempio, facendoti identificare in un protagonista immergendoti così nella sua opera in un senso speciale.
Piccola annotazione prima di individuare casi concreti: in questa sezione non sto parlando della totalità dei videogiochi, ma di quelli passibili di questa particolare ottica. Ovviamente Fortnite o Wii Sports non sono stati fatti per esprimere nel modo qui descritto (attenzione! non sto dicendo che non possano essere considerati arte).
Ecco di seguito una lista di videogiochi in cui l’interazione esprime qualcosa in modo netto o comunque accentua una certa espressione:
Journey (eccentrico gioco del 2012 sviluppato da Thatgamecompany).
L’avatar da noi controllato potrà esprimersi soltanto attraverso suoni, non si ha una narrativa dispiegata verbalmente. Durante il viaggio, si ha la possibilità di incontrare altri avatar. Il comportamento di essi ci farà dopo poco capire come siano reali giocatori, di cui però non sapremo l’identità fino alla fine del gioco.
Perché è significativo? Perché si creerà un legame: vivere la stessa avventura; essere immersi nello stesso mondo con le stesse paure; potersi aiutare a vicenda; chiamarsi con un suono; combinare i propri poteri; perdersi e ritrovarsi, fa di Journey un’esperienza videoludica di prim’ordine, che riesce a sfruttare il medium comunicando necessariamente attraverso di esso.The Last of Us Parte I (Naughty Dog, 2013).
Il protagonista Joel, compirà dei gesti con i quali molti di noi non saranno d’accordo, ma impersonarlo ci costringerà a compierli (a patto di voler finire il gioco). Questo chiaramente è un esempio molto meno specifico; nei videogiochi spesso avviene qualcosa del genere, ma The Last of Us rappresenta una significativa e riuscitissima iterazione, soprattutto considerando il finale che ci pone davanti alla seguente scelta: Ellie o l’umanità?
Come Joel, ci siamo affezionati a Ellie, ma noi non siamo lui, non abbiamo i suoi traumi e non abbiamo la sua sensibilità. Tuttavia, non sta a noi decidere, ma sta comunque a noi agire, e questo, è un altro enorme potere del videogioco, che riesce a farti sentire il peso (con annesso disaccordo) di una scelta non tua.Celeste (platform del 2018 sviluppato da Maddy Thorson e Noel Berry, in collaborazione con MiniBoss).
Impersoniamo la protagonista, Madeline, alla quale dovremo far scalare il Monte Celeste. In contemporanea all’innalzamento d’altitudine e di difficoltà del gameplay, si manifesteranno anche concretamente (sottoforma di ostacoli fisici), le sue difficoltà e incertezze sul possibile prosieguo, date dalla sua condizione psicologica. Lo sforzo compiuto dal giocatore è lo sforzo compiuto da Madeline, in un esemplare caso di identificazione, dove il fare, comporta una funzione terapeutica per entrambi (soprattutto se si è in una condizione simile a quella della protagonista). Questo è un modo opposto di sfruttare il connubio gameplay-narrativa rispetto a quello di The Last of Us.
Cito un paio di opere analizzate da altri autori, data la loro eccellente esposizione e dato il fatto che non le ho giocate in prima persona:
Ikaruga (sparatutto a scorrimento verticale, uscito nel 2001 e sviluppato da Treasure).
Citando Wesa nella sua recensione: “Sembra non prestarsi a nulla di forte a livello narrativo; in realtà ci dischiude un’opera filosofica profondissima, la cui filosofia (che ci interessi o meno) assorbiremo e vivremo in prima persona. Non la sentiremo raccontare; non la studieremo; non la leggeremo su una pagina; non la vedremo su uno schermo; non la ascolteremo attraverso una musica; ma la vivremo sulla nostra pelle e, se arriviamo alla fine, la interiorizzeremo come nostra: quale modo migliore di esprimere un concetto se non quello di inocularlo nelle sinapsi e nei nervi di chi ci sta davanti?”.Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty (Konami, 2001).
Citando Marco Accordi nel suo Manuale di critica videoludica:
“Il protagonista impersonato (Raiden) è stato manipolato da forze più grandi di lui, che hanno orchestrato ogni sua azione e interazione. […] La genialità di Kojima sta nell’aver architettato un espediente di meta design autoreferenziale, con il giocatore che viene ingannato dal designer tramite l’interattività, esattamente come fanno i superiori di Raiden con lui, in una totale identificazione tra avatar e giocatore”.
Mi sono concentrato su aspetti ludo-narrativi, ma non è solo in ciò che possiamo individuare metodi espressivi unici: esistono videogiochi che non vogliono raccontare una storia, ma si esprimono comunque attraverso specificità del medium dando nuovi stimoli percettivi. Posso, in favore di questa tesi, citare i videogiochi non euclidei come Antichamber o Superliminal, o perlomeno le nuove possibilità che mostrano.
Sta in tutto ciò la potenza espressiva dei videogiochi. Prendendo questo modello, finché l’umanità continuerà a esistere e a evolversi, l’arte potenzialmente vivrà con essa: i videogiochi ne rappresentano una nuova linfa vitale.
IL MODELLO COGNITIVO
L’ultimo modello di cui scrivo è quello cognitivo: Danto individua nella storia dell’arte un certo modo di esporre delle tesi. Ogni movimento artistico lo fa, ed è succeduto da un altro con una controtesi. La Venere di Botticelli e l’alto Rinascimento ne propongono una, il Barocco contro-argomenta e così via. In questo caso, come una diatriba, l’arte potrebbe finire (e quindi, morire). Danto pensava di aver visto questa fine nel 1964, con l’esposizione delle Brillo Box di Andy Warhol, realizzate appositamente per assomigliare a delle scatole contenenti degli assorbenti che erano vendute nei negozi. Lo scopo di questo gesto? farci considerare quelle scatole come degne della nostra attenzione, per poter così mettere in discussione il concetto di arte:
Cosa significa arte? Cosa può essere classificato come tale? Perché dotiamo di questi significati certi oggetti e non altri, anche se identici nelle loro qualità sensibili? Le brillo box esposte in vendita non erano considerate arte, mentre le Brillo Box esposte in galleria da Warhol sì.
L’arte è in un certo senso morta (ha finito di adempiere al suo scopo più alto descritto all’inizio di questo articolo), perché ha lasciato posto alla filosofia dell’arte o a una meta-arte, ovvero un’arte che ha come oggetto la ricerca e la rappresentazione di sé stessa4.
Naturalmente, l’arte ordinaria si continuerà a fare comunque. Molti artisti contemporanei però, non cercano più di renderla interessante da guardare, ma da pensare. In conseguenza di ciò, attualmente ci troviamo in una forma di pluralismo: non vi sono correnti precise in cui inserire gli artisti, ogni direzione va bene, purché dia sfogo alla loro libertà creativa.
Citando Danto: “La decorazione, l’autoespressione e l’intrattenimento sono bisogni umani costanti. Ci sarà sempre un servizio che l’arte potrà offrire, se gli artisti lo vorranno”. Questa prospettiva mi sembra utile per capire l’arte contemporanea. Cosa dire volendo connetterla ai videogiochi? Per molti di noi, sicuramente soddisfano il bisogno di intrattenimento; per quanto riguarda l’autoespressione, invece, mi sembra sufficiente rifarsi a quanto detto per il modello espressivo; considerando poi il pluralismo, non mi sembra che nei videogiochi ci siano mai state correnti escluse a prescindere dalla critica (lo stesso concetto di “corrente” è probabilmente difficile da applicare alla storia dei videogiochi).
SULLA PRESERVAZIONE VIDEOLUDICA
Con questo testo, tra gli altri scopi, intendo argomentare a favore di una dignità artistica per il medium. L’insufficiente accordo intersoggettivo su questo, fa scorgere un orizzonte spaventoso che adesso riporterò.
Riprendendo la discussione su quali oggetti vengano investiti di valore estetico, mi sembra chiaro che nel caso dei videogiochi sia il codice a godere di questa attribuzione. Poco importa se non riusciamo a mantenere tutte le copie fisiche di un videogioco; non è quella l’opera d’arte o di intrattenimento.
Se vogliamo mantenere intatta la storia del medium, dobbiamo avere il codice a portata di mano, con la garanzia che non venga perduto. Attualmente, su questo fronte abbiamo un problema enorme: lo studio di Video Game History Foundation mostra come soltanto il 13% dei videogiochi usciti fino al 2010 siano facilmente reperibili oggi (cioè acquistabili ufficialmente). Sebbene poi non sia necessario conservare delle copie fisiche per mantenere il codice, il digitale rischia comunque di peggiorare la situazione: un videogioco non più supportato dai publisher potrebbe semplicemente scomparire. Le aziende produttrici, al momento, per una questione di tempo e di soldi, non stanno pensando alla preservazione. Per questo occorre che il videogioco venga riconosciuto come parte del patrimonio culturale e artistico, che si capiscano le sue possibilità particolari (e non), e che si colga come mostri lo sviluppo tecnico di un tempo e il pensiero di un autore.
Per chi volesse commentare quanto detto o per chi volesse dare un’occhiata ad altri miei progetti, ecco il video su YouTube tratto da questo articolo:
Danto non ha denominato quest’ultimo modello nella sua opera; l’ho fatto io per semplificare.
Inferenza, tecnicamente.
Nella riproduzione del movimento e nel rappresentare oggetti reali.
Non è facile trovare, in questo senso così generale, uno scopo specifico per il medium videoludico, né mi vengono in mente videogiochi che abbiano effettivamente calcato questa via. Tuttavia, non nego sia possibile per essi farlo. Spero in potenziali esempi dei lettori, alcuni dei quali sicuramente più esperti di me.