ICO: la tortuosa strada della redenzione
A 20 anni esatti dalla sua uscita, il lavoro di Ueda continua a essere un'opera unica nell'intero panorama dei videogiochi
Non voglio fare come tanti che se ne restano a bruciare senza fiamma, di una combustione incompleta. Anche se solo per un secondo… voglio bruciare con una fiamma rossa e accecante! E poi… quello che resta è solo cenere bianchissima… nessun residuo… solo cenere bianca.
(Joe Yabuki, Ashita no Jo)
C'è una storia che vale la pena raccontare se si vuole parlare di ICO. Specialmente ora, in occasione del ventesimo anniversario della sua release, ricaduto questo 6 dicembre. È la storia di un giovane uomo e di come la sua vita è cambiata per sempre, e con essa quella di molte altre persone e dell'intero medium del videogioco.
Quando era bambino, a questa persona piaceva leggere storie affascinanti che riguardavano valorosi cavalieri, draghi giganteschi o abili combattenti che sfidavano forze misteriose e ancestrali. Divorava quelle storie a dozzine, ma spesso si imbatteva in delle barriere quando leggeva una parola di cui non comprendeva il significato; eppure non si dava per vinto, e anziché abbandonare la lettura o mettersi a cercare cosa volessero dire tutte quelle strane parole, preferiva immaginarsi il loro significato profondo semplicemente inserendole nel contesto della lettura. Era un modo molto personale e originale per dare ogni volta nuova vita alle storie che leggeva e rileggeva: grazie al mistero che quegli oscuri passaggi esercitavano su di lui, quelle avventure assumevano ogni volta un diverso colore, e dischiudevano immaginari sempre nuovi.
Un giorno, dopo essersi laureato in scienze sociali, venne assunto da una grossa compagnia di informatica. Cosa desiderare di più? Giovane, con un titolo in mano e un lavoro stabile, che bisogno c'era di nutrire particolari ambizioni o prendere dei rischi che non valesse davvero la pena correre? Eppure era come se aspettasse un'occasione, l’occasione della vita. Il tempo passava, in attesa di quell'ora di gloria che continuava ad allontanarsi, non solo temporalmente ma anche dai desideri del suo animo. Tutto, però, sarebbe presto cambiato.
Un giorno incontrò un vecchio amico, e i due si misero a parlare e ricordare i tempi dell'università, quando passavano le giornate a giocare ai videogiochi. L'amico gli nominò poi un gioco uscito da poco, consigliandogli di provarlo. Lui lo fece, ma si trattava di un'opera molto particolare: ti trovavi in uno strano castello e non dovevi fare altro che aprire una porta dopo l'altra nel tentativo di scappare, accompagnato nella fuga da una ragazza canuta e misteriosa. Ciò che gli rimase impresso di quel gioco fu il suo silenzio: era così muto ed evocativo che non poteva che ricordargli le storie che leggeva da piccolo e i vuoti che si producevano quando non riusciva a comprendere il significato di qualche parola, generando quella marea di possibilità interpretative. Fu come se dentro di lui si fosse accesa una fiamma rossa: con grande stupore dei colleghi, lasciò il lavoro e uno stipendio sicuro, liberandosi dalle sue catene per inoltrarsi in un rischio mai corso prima – d'altro canto, chi corre i tuoi rischi se non lo fai tu stesso? Decise che era il momento di provare a vivere davvero, di bruciare: riuscì a farsi assumere da una compagnia non troppo importante, e da lì ebbe inizio la storia che l'avrebbe portato non solo a diventarne il presidente, ma a creare uno dei videogiochi più importanti del decennio e, forse, della storia del medium: Dark Souls.
Si alza il vento! . . . bisogna provare a vivere!
(P. Valéry, Il cimitero marino)
Questa è la storia di Hidetaka Miyazaki, ma in questa sede non discuteremo di lui o dei suoi videogiochi, quanto del videogame al centro dell'incontro che ha cambiato la sua vita e perché sia stato così fondamentale1. È l'incontro con ICO, il videogioco che accese in Miyazaki come una scintilla che ripristinò la sua umanità, e che ancora oggi, a vent’anni esatti dalla sua uscita, è in grado di dirci qualcosa di più su cosa siamo, e come solo il videogioco sia in grado di rappresentare in maniera unica, attraverso il suo equilibrio tra narrativa e gameplay, la propulsione escapista insita dentro ognuno di noi.
IL RAGAZZO CON LE CORNA
Perché ICO è così importante per l'industria videoludica e perché Miyazaki fu tanto colpito da quel gioco, al punto tale che le sue opere possono dirsi dirette emanazioni del titolo d’esordio di Fumito Ueda? Pur essendo un'opera difficile da penetrare e di non facile fruizione, esistono in ICO delle idee, delle ambizioni, dei concetti che lo rendono unico ancora oggi, a vent'anni esatti dalla sua pubblicazione, nonché un'opera fondamentale che ha segnato un importante snodo sulle possibilità del videogame; possibilità che, per l'appunto, Miyazaki intercettò al punto tale da usarlo come una delle fonti primarie non solo per l'aspetto narrativo e misterico delle sue opere, ma - come vedremo - anche per il loro level design. Cerchiamo allora di capire perché ICO rappresenti un unicum nel panorama del medium, concentrandoci in particolare su alcuni elementi del suo impianto di gioco che l’hanno reso, nel lontano 2001, uno dei punti di partenza della legittimazione definitiva del videogioco come forma espressiva.
In ICO ci troviamo a guidare un ragazzino, Ico appunto, che a causa delle corna sulla propria testa è stato cacciato dal suo villaggio e costretto all'esilio. Delle persone lo conducono sino a un castello agli estremi del mondo, in un luogo etereo e distante, dove verrà imprigionato in modo che la sua malformazione fisica, sintomatica di una maledizione ancestrale, non trovi ulteriore sfogo. Qualcosa, però, non va come sperato: Ico si libera dalla gabbia e incontra una ragazza, poco più grande di lui e che emana una strana luce nivea. La ragazza, come muta, è ammantata da un'aura di tale purezza che sembra incapace persino a muoversi: sarà compito di Ico, allora, condurla per mano attraverso i meandri del castello, dove proprio grazie al suo aiuto potrà farsi strada tra gli enigmi che bloccano il suo cammino.
TRA OCCIDENTE E ORIENTE
A un primo sguardo la storia di Ico sembra niente più che una semplice fiaba: un protagonista maledetto, una ragazza magica e incantata e il tentativo di salvarla e di salvare se stesso. C'è però qualcosa, in questo racconto così muto ed evanescente, in grado di dirci di più su chi siamo e sul nostro stare al mondo. La storia del giovane Ico è la storia di un protagonista rigettato, marginalizzato dal mondo a causa di una colpa non propria, il fatto di essere fisicamente diverso. Questa deformità apre degli interrogativi sulla sua stessa natura: si tratta di una malformazione o di una lenta metamorfosi? Perché, se la natura di Ico è quella di avere le corna, viene marginalizzato soltanto adesso dal suo villaggio? Se queste domande accompagnano sin dall'inizio il giocatore, che avrà così il compito di decretare le proprie sentenze a riguardo, ciò che sarà meno evidente è come la storia personale di Ico affondi le proprie radici nella tradizione orientale e in molti dei temi a essa cari: all'esilio, all'esclusione, all'emarginazione si accompagna l'indicibile impurezza fisica di Ico, cui fa da contraltare l'assoluta perfezione metafisica e corporea della principessa Yorda. Ciò che però colpisce è come temi orientali vengano veicolati con una sensibilità spesso occidentale: si pensi ad alcuni dei topoi letterari presenti nell'opera, quali la strega cattiva e la principessa da salvare, nonché l'ambientazione cavalleresca del castello, praticamente estranea al gusto e alla storia orientale; ma questo conflitto estetico tra Oriente e Occidente continua e va più a fondo, sino al suo design narrativo, dove ICO è in grado di rilevarci tutta la potenza di un racconto che, pur vivendo dell'eterna commistione del tutto orientale e quasi irriducibile tra bene e male, puro e impuro, riesce a utilizzare simboli occidentali e, anche per questo, toccare corde universali.
Scegliamo di concentrarci su un simbolo in particolare, che rappresenta non solo il cuore pulsante del racconto metafisico di Fumito Ueda ma anche della sua ambientazione pura e del suo level design: il castello. Attraverso il ruolo simbolico giocato dall'imperscrutabile roccaforte di ICO è possibile carpire tutto il suo intimismo e la sua matrice (anche) occidentale.
ICO E IL LABIRINTO KAFKIANO
Spesso è più sicuro essere in catene che liberi.
(F. Kafka, Il processo)
Nel 1922 Franz Kafka scrive uno dei suoi romanzi più noti, Il castello, che lascerà incompiuto e non pubblicato, dando all'amico Max Brod il compito di bruciarlo dopo la sua morte. Brod sceglie invece di pubblicarlo. Nel racconto il protagonista, di nome K., viene invitato al castello ai margini del villaggio, ma la strada che vi conduce è irta e interminabile: per quanto K. si sforzi, è come se il castello si allontani da lui, e ogni strada non fa che condurre a un luogo diverso. Il castello è un luogo di enigmi, di meccanismi intricati e burocratici che a fatica si sbloccano (il titolo originale, Das Schloss, significa letteralmente “serratura”), attraverso il quale muoversi risulta dispendioso, quasi impossibile. La fatica - assieme fisica e metafisica2 - generata dal castello sull'uomo tende a emarginarlo3, a renderlo solo e diverso, mutato e impossibilitato a comunicare davvero alcunché.
Proprio come in ICO, dove il castello è per antonomasia il luogo agli estremi del mondo, sospeso al di fuori dello spazio e del tempo, così in Kafka esso è il luogo degli estremi umani e dell'esperienza del limite: ogni tentativo di fuga, di lotta, è sfiancato da una missione successiva, un onere più grande e complicato, così come sempre più grandi sono le porte della Legge che l'uomo si ritrova man mano ad affrontare nella parabola conclusiva de Il processo – l'altro grande romanzo dello scrittore praghese – e proprio così come più grandi sono di volta in volta le porte che Ico dovrà superare per andare avanti e concretizzare il suo tentativo di fuga.
La vita è, per Kafka come per Ueda, contrassegnata da un eterno scappare, una fuga assieme letterale e simbolica, che entrambi sintetizzano nella figura metaforica del castello come luogo entro il quale l'uomo esperisce i limiti della propria esistenza, la precarietà insita della nostra natura; una precarietà che Kafka estende al punto tale da definire la scrittura “soltanto una cosa provvisoria”4, come se scrivere (e quindi produrre opere, produrre letteratura in ogni forma, compreso il videogioco) sia solo ciò che si fa in funzione del raggiungimento della vita stessa. La letteratura tende alla vita, pur non raggiungendola mai, tipico scenario kafkiano: questa “cosa provvisoria” può durare una vita intera.
ICO E LA FORTEZZA BASTIANI
Anche all'interno della letteratura italiana è possibile rintracciare un esempio, sulla scia della produzione romanzesca di Kafka, nel quale il castello (anche se a voler essere precisi si parla di una fortezza) rappresenta un luogo estremo e che contrassegna i limiti del nostro essere. Chiamato alla Fortezza Bastiani, il protagonista de Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, Giovanni Drogo, attenderà per una vita l'invasione del nemico, e passerà la sua intera esistenza all'interno di quelle mura. Scandita da giornate che sempre più si somigliano, dove il tempo finisce per annullarsi e dove l'abitudine diventa l'imperativo burocratico dell'esistenza, la vita di Drogo sarà segnata per sempre da una condizione di attesa. Proprio come il giovane Ico, Drogo è uno straniero, uno xenos, qualcuno che da lontano giunge alla Fortezza e che da qui non riuscirà più a fuggire: nonostante il suo desiderio iniziale di andarsene, al momento opportuno è come se la sua mente operasse una rinuncia volontaria, come se la Fortezza Bastiani abbia preso vita e stia esercitando su di lui una forza attrattiva e misteriosa che neppure egli stesso riesce a comprendere. L'eterno tentativo di fuga, per Drogo, sarà allora fatto mentale più che fisico: quel luogo, contenitore di anime vacue e disumanizzate, come il castello di ICO che ospita le ombre di tutti gli emarginati che hanno preceduto il nostro protagonista, diventa un ricettacolo di esistenze sprecate, un buco nero dentro il quale è ormai impossibile riconoscere se stessi, il mondo che ci circonda e la nostra dimensione temporale di uomini. Impossibile non vedere in ciò quello che Buzzati stava per sua stessa ammissione vivendo in prima persona:
[…] tutto è nato nella redazione del “Corriere della Sera”, dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se la grande occasione sarebbe venuta o no. Molto spesso avevo l’idea che quel tran-tran dovesse andare avanti senza termine e che mi avrebbe consumato così inutilmente la vita.
La lotta esistenziale e psicologica di Giovanni Drogo non può che condurre alla disillusione, all’incapacità di spezzare le proprie catene, di provare a vivere:
[…] a più di quarant’anni, senza aver fatto nulla di buono, senza figli, veramente solo nel mondo, Giovanni si guardava attorno sgomento, sentendo declinare il proprio destino.
(D. Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano 2021, p. 180)
DESIGN E COERENZA
Esiste poi un altro aspetto – questa volta un fattore puramente tecnico – relativo al castello di ICO che merita di essere sottolineato, vale a dire la sua coerenza in termini di design. Quando uscì nel 2001, attraverso la sua unità di luogo ICO dimostrò a tutti quale fosse il valore di una mappa compatta: in uno dei primi esempi nella storia del medium, il castello di Ueda possedeva una verosimiglianza tale da rendere l'ambiente non solo evocativo e tetro, ma era un esempio perfetto di coerenza topografica. Attraversando il castello, spostandoci da una sala all'altra o salendo sui bastioni e osservandolo da fuori, era possibile da un lato comprendere meglio come affrontare e risolvere gli enigmi, dall'altro realizzare come quell'opera di puro design avesse così tanto da dirci attraverso la sua semplice architettura che era come se il castello stesso divenisse un personaggio vivo e parlante, che se interrogato avrebbe potuto dirci di più su quel mondo. Un altro dei leimotiv, quello della coerenza topografica, da cui Miyazaki avrebbe attinto dichiaratamente a piene mani per creare le sue opere un decennio più tardi.
VINCITORI O VINTI?
Tutto questo ci porta al nodo della questione: come ha scelto di usare questo elemento narrativo Fumito Ueda? Data la presenza di un setting e narrativo e di design così forte, come si compie la sua personale visione poetica e letteraria? Se negli autori sopra citati a prevalere è un messaggio di pura disillusione, di attesa, di perdita di valore delle cose, la vena di Ueda è redentrice, e come un’epifania rivela in ciò una dimensione che, come detto in precedenza, possiede una sensibilità non solo orientale ma universale: una fuga deve essere possibile, e per quanto illusorio possa apparire affidarsi a una visione escatologica della propria esistenza, ciò che distingue chi soccombe da chi sopravvive è l'atteggiamento a lottare, a non farsi sopraffare, a prendere in mano le redini della propria vita e scegliere di lottare, di bruciare. In questo senso, pur mantenendo una simbologia in continuità con Kafka e Buzzati, la bestia mitologica di ICO, il suo castello, può essere affrontato, può essere vinto e da esso si può fuggire. Un messaggio e un atteggiamento, quello della disposizione a lottare forte che non a caso Ueda riprenderà nel suo successivo Shadow of the Colossus. C'è una ragione se il messaggio di Ueda possiede un afflato di speranza in confronto alle opere dei due autori europei, e questa ragione risiede in Yorda: oltre al valore simbolico della purezza rappresentato dalla ragazza, in maniera molto più immediata e fiabesca c'è da intendere la sua presenza per il ruolo che essa gioca come semplice compagna di viaggio, come controparte che, al contrario di K. e di Giovanni Drogo, rende Ico meno solo. Il castello, entità suprema che accerchia e aliena, nella visione di Ueda è destinato a crollare.
Proprio in occasione del ventesimo anniversario di ICO, Hidetaka Miyazaki ha dichiarato: “Da un punto di vista personale, dopo essermi laureato all’università e aver cominciato un nuovo lavoro, sono rimasto lontano dai videogiochi per un po’ quando mi è capitato su suggerimento di giocare a ICO a casa di un amico. Fu un’esperienza bellissima e silenziosa, una storia che non mi sarei mai immaginato, e mi dispiace per il mio amico, ma rimasi placidamente commosso e silenzioso. Fu così che lasciai l’azienda per la quale lavoravo all’epoca e cominciai a lavorare per From Software. Non esagero quando dico che fu il gioco che cambiò la mia vita, e sono fiero che si trattò di ICO e del gioco del signor Ueda. Congratulazioni per il 20esimo anniversario di ICO, signor Ueda. Da fan, aspetto con attenzione i tuoi nuovi giochi. La mitologia che scorre attraverso i tuoi giochi, incluso ICO, è sempre stata un mio obiettivo”. Da notare che, in occasione dell’anniversario, altre importanti figure del mondo dei videogiochi e del cinema si sono unite nel tesserne le lodi per il suo ruolo visionario: da Neil Druckmann, che lo ha definito il suo gioco preferito di sempre, a Yoko Taro, passando per il regista Guillermo Del Toro.
Seppure con una sfumatura di significato diversa, vale la pena ricordare come una delle più grandi fonti d’ispirazione visive ed evocative di Fumito Ueda sia stata, appunto, la pittura metafisica, con particolare riferimento a opere di Giorgio De Chirico come Piazza d’Italia (1913), Mistero e melanconia di una strada (1914) o La nostalgia dell’Infinito (1913), chiara fonte ispiratrice della copertina di ICO. Oltre alla cover art, è possibile rinvenire l’influenza delle opere del pittore italiano anche nelle logiche espositive e proporzionali del castello di ICO: gli enormi spazi vuoti, l’architettura imponente, la presenza di esseri non-umani.
Sulla tendenza a emarginare in Kafka è possibile rintracciare un altro punto in comunione con l’opera di Ueda: ne La metamorfosi (1915), il processo di annichilimento e marginalizzazione del protagonista Gregor ha avvio dal momento in cui la sua forma fisica è mutata, rendendolo un insetto; allo stesso modo Ico viene messo agli estremi, come detto, a causa della sua malformazione fisica.
F. Kafka, Lettere a Max Brod, in Lettere, Milano 1988, p. 400.