Kingdom Come Deliverance, o la difficoltà del realismo
L'opera di Warhorse Studio ci aiuta a capire cosa rende realistico un videogioco, e perché così pochi giochi lo sono. Ma a che prezzo?
La nozione di realismo è molto complessa, e assume significati diversi in contesti diversi. Quando si parla di “realismo” in riferimento ai videogiochi, spesso si fa riferimento al fotorealismo della grafica: i personaggi sembrano attori, l’ambiente sembra fotografato piuttosto che ricostruito al computer, tutto è sufficientemente tridimensionale e nitido come ci sembra tridimensionale e nitida la realtà ai nostri occhi. In generale, un gioco è tanto più realistico quanto più sembra un film.
Questo senso di realismo non ha niente a che vedere con la verosimiglianza o la plausibilità della storia: non importa che sia ambientato nello spazio, nel futuro, o in un universo parallelo; se “sembra un film” allora un gioco è “realistico”.
Si tratta di un senso della parola “realismo” tipico dei videogiochi: non avrebbe senso parlare di fotorealismo nel cinema, tantomeno nella musica o nella letteratura. Si può discutere invece di fotorealismo nel caso della pittura e forse della scultura, in cui esiste un problema di “rispecchiare la realtà” così com’è, e ricreare “artificialmente” qualcosa che sembra reale: i dipinti di Ralph Goings e Richard Estes sono forse gli esempi più noti di pittura fotorealista.
Tuttavia, vista la maturità del medium (e della critica), la connotazione di “(foto)realismo” in pittura non ha lo stesso valore che ha nell’immaturo medium del videogioco. In generale, è abbastanza riconosciuto che un quadro “più realistico” di un altro non è in virtù di ciò migliore. Nel caso dei videogiochi, invece, il fotorealismo è generalmente visto come un punto di forza di un gioco.
Da un lato questo ha anche le sue ragioni: in fondo, da un videogioco solitamente chiediamo (anche) immersività, e un personaggio che sembra un essere umano con le sue espressioni e movimenti tende a facilitare l’immersione maggiormente rispetto a un pupazzo che parla senza muovere la bocca.
Il problema è che l’attenzione al fotorealismo spesso trascura altri elementi forse più rilevanti. Ci sono altre cose, oltre alla grafica, che rendono un gioco “più realistico” e più immersivo.
Cosa rende un’opera “realistica”
Cerchiamo di chiarirci sui termini. Come il paragone con le altre arti suggerisce, esistono vari sensi di realismo. Alla base c’è però un nucleo più o meno condiviso, e che ritorna infatti nell’uso comune del termine: qualcosa è realistico se rappresenta la realtà senza troppe distorsioni e variazioni. Per questo, tendenzialmente una storia ambientata in una città contemporanea risulta più realistica di una ambientata nel Medioevo magico.
È importante però tenere a mente che, da spettatori (o da “lettori” di un’opera) il grado di realismo è misurato in base all’immagine che ciascuno di noi ha della realtà. Ognuno conosce alcune situazioni meglio di altre, nessuno ha accesso diretto e completo a tutta la realtà così com’è, e quindi, quando valutiamo il realismo di una rappresentazione artistica, il paragone con la realtà è fatto comunque con una “realtà” immaginata. Di conseguenza, la stessa opera può risultare più realistica a qualcuno e meno a qualcun altro. Per esempio, se non sono un esperto di medicina, potrei trovare sufficientemente realistica una storia ambientata in un ospedale, mentre un medico con anni di esperienza ne riconoscerebbe più facilmente gli elementi “costruiti” e fantasiosi.
Tuttavia, sarebbe superficiale fermarsi qui, perché il realismo non è limitato all’ambientazione. Un altro elemento centrale, soprattutto se parliamo di opere narrative, è il modo in cui la storia si svolge e in cui agiscono i personaggi. Una storia che procede secondo movimenti più o meno coerenti, con personaggi che si comportano come normalmente ci aspetteremmo che si comportassero in quelle situazioni, senza troppi eventi assurdi o improbabili, risulta più realistica - anche se ambientata in un mondo fantastico - rispetto a una ambientata ai giorni nostri ma in cui tutto sembra andare proprio come deve andare, i personaggi fanno delle cose “perché devono farle”, e parlano tra di loro come nessuno ha mai parlato nella realtà. In questo senso, La Metamorfosi di Kafka è più realistico (per quanto surreale) rispetto a un romanzetto qualsiasi ambientato nella New York contemporanea.
C’è quindi un senso generale di realismo che è dato non tanto dalla verosimiglianza grafica né limitabile alla vicinanza del mondo raccontato a quello reale. Si tratta di un realismo che ha a che fare con la sensatezza di ciò che accade sulla scena (sia essa rappresentata al cinema o a teatro, scritta su una pagina, o giocata su uno schermo).
E un videogioco?
Questo senso di realismo è molto raro nei videogiochi. È difficile creare un’opera realista, per vari motivi: oltre a quelli condivisi con altre forme di narrazione come letteratura e cinema (quindi l’abilità nella scrittura, una conoscenza sufficiente degli esseri umani per poterli descrivere correttamente, un certo sviluppo dell’immaginazione, etc.), ve ne è uno in particolare in cui il videogioco deve fare i conti.
I videogiochi sono, prima ancora che opere espressive, giochi. E una caratteristica che molti ricercano nel gioco è innanzi tutto il divertimento. Ma realismo e divertimento non sempre vanno d’accordo: anzi, solitamente, il realismo è noioso, ordinario, banale e poco intrattenente. Un realismo troppo esasperato può rendere il gioco lento, frustrante o poco accessibile. Banalmente, uno sparatutto in cui le armi si inceppano e richiedono tempo per essere ricaricate probabilmente non sarebbe troppo apprezzato. Non a caso solitamente nei videogiochi si sceglie di semplificare o esagerare certe dinamiche per mantenere il gameplay più dinamico e coinvolgente.
Ci sono però delle (rare) eccezioni. Kingdom Come: Deliverance (Warhouse Studios, 2018) è un tentativo, parzialmente riuscito, di realismo. Se non altro, è sufficientemente coraggioso da assumersene i rischi.
Il realismo di Kingdom Come Deliverance
Di che realismo si tratta? Innanzi tutto, di un realismo storico. L’ambientazione è sì medievale, ma non quel Medioevo generico a cui siamo abituati nelle opere di fantasia. Non ci troviamo, cioè, in un momento qualsiasi e non meglio precisato di quei mille anni che vanno dalla caduta dell’Impero Romano alla scoperta dell’America, né ci troviamo in una zona non meglio definita d’Europa. L’ambientazione è molto precisa, e viene raccontata dall’inizio: ci troviamo nel Regno di Boemia nel 1403, durante una guerra tra il legittimo erede al trono Venceslao IV (figlio dell’Imperatore Carlo IV) e suo fratello Sigismondo. Skalica, la città natale del protagonista Henry, viene rasa al suolo e molti dei suoi abitanti (tra cui i genitori di Henry) brutalmente uccisi.
Le città sono ricreate sulla base di quelle storicamente esistite, con le mura costruite in un determinato modo, i negozi posizionati in certi luoghi, le chiese fatte così e non cosà, le locande al centro della vita cittadina, e così via. Ma il realismo storico si rivela anche in altri elementi: i rapporti tra le persone sono altamente codificati da regole sia religiose che civili, e nel gioco le interazioni con i personaggi sono limitate di conseguenza, favorendo le situazioni più probabili e scoraggiando le altre.
In generale, i rapporti di potere, di classe, di rango, e di genere, sono quelli che possiamo immaginare come reali in quel contesto. Tutto ciò ha conseguenze concrete nel gioco: per esempio, un qualche asservimento al signorotto locale sarà favorito in vari modi, così come anche una maggiore prepotenza verso i nostri sottoposti; sarà incoraggiato un certo atteggiamento di rispetto e riverenza (che nella vita quotidiana contemporanea potremmo non sentire) verso ciò che in quel contesto conta come giustizia, onore, coraggio, e così via.
Ancora una volta, il paragone è con una realtà immaginata: nessuno di noi, credo, ha vissuto nel Medioevo, e immagino che in pochi siano sufficientemente esperti della vita quotidiana nella Boemia del 1403 per valutare con accuratezza ogni singolo dettaglio. Tuttavia, per quelle cose che una persona non particolarmente esperta può ragionevolmente aspettarsi da una storia ambientata in quel contesto, KCD risulta sufficientemente realistico da non spezzare l’immersione.
C’è poi un certo realismo grafico: pur non avendo la grafica altamente fotorealistica dei più sofisticati tripla-A recenti, KCD mira comunque a un realismo grafico dato dalla tridimensionalità delle figure e dal naturalismo delle textures. In altri termini, si capisce che i limiti al fotorealismo completo sono limiti di budget, più che una scelta artistica. Artisticamente, il gioco mira al realismo anche nella grafica.
È importante il fatto che il realismo grafico possa essere una scelta. Trovo interessante, a riguardo, fare un paragone con un altro gioco recente ambientato nel Medioevo: Pentiment (Obsidian Entertainment, 2022). In Pentiment l’immersione nell’Europa medievale è realizzata rinunciando al realismo grafico e optando anzi per un’estetica 2D ispirata ai disegni e alle illustrazioni dell’epoca. A differenza di Kingdom Come: Deliverance, un gioco come Pentiment non mira a essere un’opera realistica. La storia – fondamentalmente un thriller investigativo – è fantastica, e l’opera è più simile a un racconto filosofico sulla memoria e la trasmissione di cultura che a un libro di storia medievale.
Tuttavia, pur essendo una storia completamente inventata, senza particolari riferimenti a personaggi realmente esistiti, il gioco è comunque costruito con una certa cura per i dettagli e le ambientazioni: il monastero in cui si svolge gran parte della storia è ricostruito sulla base dei principali monasteri europei dell’epoca; il tempo non è scandito precisamente in ore, minuti, e secondi; il cibo consumato è diverso a seconda del rango sociale e del ruolo dei personaggi; e anche il modo di parlare varia a seconda dei casi, con il font delle scritte dei dialoghi che varia al variare dello status dei personaggi (per esempio, i monaci parlano in calligrafia amanuense, mentre i dialoghi degli stampatori vengono prima visualizzati una lettera per volta al contrario e poi “stampati” unitariamente: quest’ultimo è un aspetto che ho particolarmente apprezzato, uno di quei dettagli teoricamente superflui ma che invece rivelano la cura nel prodotto). Un certo grado di realismo è quindi ottenibile indipendentemente dal fotorealismo della grafica, ma non abbastanza da rendere realista l’opera.
Fino a qua, però, non sembra esserci niente di straordinario in Kingdom Come: Deliverance. Sono molti i giochi che prestano attenzione ai dettagli nel worldbuilding, e anzi forse KCD non è nemmeno tra quelli che lo fanno meglio (per esempio, la possibilità di sviluppare storie romantiche con vari personaggi, anche indipendentemente dal sesso e dal rango, potrebbe essere visto come un difetto di realismo – anche se questo è un problema generale dei videogiochi, di cui ho già parlato).
Tuttavia, a differenza di molti altri giochi, KCD è sufficientemente coraggioso da accettare la sfida del realismo assumendosene anche i rischi di cui parlavamo prima.
Ridurre il divertimento
Si tratta soprattutto di rischi nel compromesso con il divertimento. Un primo esempio riguarda gli spostamenti. KCD è sostanzialmente un open world (per quanto limitato: la mappa è una piccola regione della Boemia, che include varie cittadine a una certa distanza l’una dall’altra) ma senza teletrasporto. Come si faceva nel Medioevo, prima dell’invenzione del teletrasporto, a spostarsi da una zona all’altra? Si camminava o, per chi poteva permetterselo, si andava a cavallo. Di conseguenza, in KCD si cammina o si cavalca. Molto. Come si può intuire, quindi, parte considerevole del tempo è passata a spostarsi da una zona all’altra. C’è un’opzione di “spostamento rapido” che, similmente alla meccanica del teletrasporto in molti giochi, ti permette di spostarti da un punto all’altro senza dover effettivamente camminare; ma, diversamente dal teletrasporto (e diversamente da come suggerisce quel “rapido”), in questi casi noi vediamo il segnalino del personaggio spostarsi sulla mappa – invece di spostare noi il personaggio “manualmente” – mentre il tempo continua a scorrere alla stessa velocità che nello spostamento normale (e in certi casi il passare del tempo è rilevante alla riuscita o al fallimento di una missione). Questo permette di smorzare quei “punti morti” in cui l’unica attività è mandare avanti il personaggio seguendo una direzione sulla bussola; ma non li elimina: l’opzione trasporto rapido è infatti disponibile solo in alcuni punti specifici della mappa, e vanno comunque prima sbloccati arrivandoci “a piedi”.
Inoltre, non stiamo parlando di un mondo nuovo e interessante come la Hyrule di Breath of the Wild, in cui girovagare per il mondo è proprio il punto del gioco. Come già detto, KCD è ambientato nella normalissima Boemia medievale, e difficilmente ci sposteremo per il gusto di farlo. Le fasi di spostamento non sono quindi le più adrenaliniche che un gioco possa offrire, ma eliminarle (o ridurle artificialmente) sarebbe un privilegiare il divertimento a scapito del realismo.
Ma l’esempio più lampante del compromesso tra realismo e divertimento è forse quello del combat system.
Rispetto ad altri giochi con ambientazioni medievaleggianti, in cui spesso ci si ritrova a combattere solitamente con scudo e spada (o magari con arco e frecce), spesso sconfiggendo i nemici comuni con un solo colpo, i combattimenti in KCD sono così realistici da essere quasi sempre disincentivati. Ma non sono disincentivati nel senso in cui i nemici sono molto più forti di te e se perdi rischi di dover ricominciare daccapo (c’è anche questo, ma non è questo il punto). Sono disincentivati nel senso in cui sono estremamente brutti.
Il combat system è macchinoso, lento, difficile. A differenza di un Dark Souls, in cui affrontare anche vari nemici uno dopo l’altro è spesso gratificante, in KCD il conflitto è quasi sempre qualcosa da evitare: sei tu giocatore a non voler sfidare direttamente i nemici, perché non vuoi avere a che fare con quelle meccaniche.
Solitamente ci aspettiamo una certa fluidità da un gioco, proprio perché ne va dell’immersione: normalmente, per sentirci “dentro” un mondo di gioco, non vogliamo che ci venga ricordato di stare dentro un gioco. Non a caso consideriamo “difetti” cose come i muri invisibili, NPC che si ripetono, script forzati, e cose simili: sono tutti elementi che spezzano l’immersione, in quanto ci segnalano che il mondo in cui siamo immersi è finto, virtuale, artefatto. Un combat system particolarmente macchinoso potrebbe essere considerato un elemento anti-immersività del genere.
Infatti, tra le varie recensioni che ho letto su Steam prima di comprare il gioco, quelle negative (non mi interessano quasi mai quelle positive) sottolineavano il combat system come principale – e spesso unico – difetto, al punto da aver portato molti a droppare il gioco dopo poche ore. Nella mia visione, invece, proprio per la sua sgradevolezza, macchinosità e difficoltà, il combat system è qualcosa che aggiunge valore al gioco proprio per il suo realismo.
Perché realismo? Perché Henry non è un combattente. È il figlio di un fabbro, che ci viene presentato come appassionato di spade ma assolutamente principiante nel loro impiego. Perché mai dovrebbe saper combattere come se fosse un cavaliere esperto? È solo lentamente nel corso del gioco che Henry impara a combattere e infatti si passerà da scazzottate ubriache fuori da una locanda a tornei cavallereschi con duellanti esperti e battaglie con interi eserciti. A mano a mano che, per motivi giustificati narrativamente, Henry diventa più forte, anche il giocatore inizia ad abituarsi alle meccaniche del combattimento nel gioco, che a tratti diventerà quasi divertente.
Va bene il realismo, ma i difetti restano difetti
Reinterpretando alcune delle critiche mosse al gioco come scelte artistiche finalizzate al realismo, potrei aver dato l’impressione di considerare il gioco praticamente privo di difetti. Se è normale (anzi, giusto e ammirevole) perdere tempo negli spostamenti e frustrarsi con combattimenti poco gratificanti, allora ogni critica al gioco è delegittimata in quanto ogni “errore” era voluto? Assolutamente no. Sebbene abbia considerato KCD un ottimo esempio di realismo in un videogioco, rimangono degli elementi che, tanto sul piano ludico quanto su quello narrativo, devono essere criticati.
Innanzi tutto, alcuni semplici errori nella progettazione della fisica di alcuni oggetti. Un esempio: se, camminando in un bosco, mi fai passare attraverso alcuni rami o cespugli – perfettamente comprensibile, visto che normalmente sarebbe un po’ ridicolo doversi fermare davanti a un ramo di fronte al quale basterebbe abbassare la testa – questa regola deve valere per tutti i rami e cespugli (almeno quelli di dimensioni simili). Non è possibile che mi fai camminare senza problemi attraverso nove cespugli per poi mettermi davanti a un ostacolo insormontabile rappresentato dal decimo. E lo stesso vale per il cavallo: si cavalca senza problemi, sia in salita che in discesa, sia in spazi ampi che in luoghi ristretti, ma ogni tanto si cade dal cavallo perché si è passati troppo vicini a un alberello.
Un altro elemento, che ormai è talmente diffuso nei videogiochi da non essere quasi mai considerato un difetto, ma che invece secondo me è tra quelli che spesso più di altri spezzano il realismo e l’immersione, è il seguente: se io devo assolutamente entrare in un edificio (perché è in fiamme e devo salvare qualcuno, perché dentro vi si nascondono dei nemici che devo eliminare, o per qualsiasi altro motivo), e in mano ho un’ascia, una spada, o un qualsiasi altro oggetto utile, non è possibile che una semplice porta di legno mi impedisca di proseguire. Nella “vita reale” prenderei l’ascia e butterei giù la porta o una parete; invece, nel gioco, devo procurarmi la chiave chissà come, aspettare che qualcuno la apra, fare il giro dell’edificio ed entrare dalla finestra, o altre cose simili che nessuno farebbe mai.
Fortunatamente, però questi difetti, per quanto restino tali, non hanno grandi conseguenze sulla storia e sul gioco. Dopo averli trovati in moltissimi giochi, siamo ormai abituati ad accettarli come parte del medium, o al massimo come un bug, chiudere un occhio, e andare avanti. La conseguenza è solo un calo momentaneo dell’immersione, e al massimo qualche imprecazione.
C’è un altro genere di problemi, invece, che portano il gioco a essere a tratti ingiocabile. Si tratta di difetti legati al funzionamento e alle regole del gioco, sui quali non si può sorvolare “chiudendo un occhio”. Mi riferisco soprattutto a quei combattimenti obbligatori quasi impossibili (siano essi delle “boss-fight” o delle imboscate di banditi per strada) e in generale di tutte quelle morti pressoché inevitabili che però ti costringono a rigiocare considerevoli parti di gioco. Il problema qui non è tanto della “difficoltà” di alcune parti del gioco – che comunque a tratti è molto squilibrata – quanto piuttosto del sistema di salvataggio.
I salvataggi nel gioco sono principalmente automatici, ma non periodici: cioè, il gioco salva autonomamente, ma solo in certe situazioni (per esempio, quando accetti una side quest, e, a volte, quando ne completi una). Ci sono anche dei modi per salvare “a comando”, per esempio mettendosi a dormire su un letto (il che, però, significa sprecare del tempo, anche se solo un’ora nel gioco), e c’è anche la possibilità di salvataggi manuali “extra”. Questi ultimi, però, sono limitati. C’è un oggetto consumabile nel gioco, la “grappa del salvatore”, che ti permette di salvare praticamente in ogni istante. Essendo l’oggetto un consumabile, la quantità di salvataggi manuali disponibili dipende dal numero di “fiaschette” possedute, e potrebbe rapidamente ridursi a zero. Ora, questo non sarebbe tanto un problema di per sé (se non altro, è abbastanza facile comprare delle fiaschette di scorta), ma evidentemente disincentiva alcune precauzioni standard come il salvataggio poco prima l’inizio di una missione che si sa essere difficile o subito dopo il completamento di attività che non vorremmo dover rifare.
La conseguenza di questo sistema di salvataggi qual è? È che potremmo giocare anche diverse ore consecutive – e quindi proseguire nel gioco, raccogliere oggetti e risolvere problemi, esplorare zone e portare a compimento missioni – senza che i nostri progressi vengano salvati. Quindi? Quindi se da un momento all’altro un’imprevedibile imboscata di banditi uccide Henry (cosa che può accadere molto facilmente, visto che come abbiamo detto il protagonista non è un grande combattente per gran parte del gioco e quindi difficilmente riuscirà a sconfiggere più nemici contemporaneamente al primo tentativo), tutti quei progressi non salvati svaniscono in fumo, e siamo costretti a ripetere quelle ore di gioco semplicemente per tornare al punto dov’eravamo prima di morire. Se si percepisce una certa frustrazione in queste parole, è perché mi è successo più volte di dover ripetere delle quest, spesso noiose, per motivi del genere. A volte ho semplicemente rinunciato alla missione (se parliamo di una missione secondaria), altre sono stato davvero tentato di droppare il gioco (dopo qualche confronto non proprio amichevole con alcune divinità di diversi pantheon).
Riprendendo un minimo di compostezza, va detto che – proprio come la difficoltà nel combattimento – il timore di perdere tutto per delle imboscate imprevedibili potrebbe essere visto come un elemento di realismo e di immersione: soprattutto in tempi di guerre e saccheggi, non era raro nel Medioevo vedersi deprivati di tutto (spesso anche della vita) da bande armate per strada. Ma questo è secondo me un esempio di come il compromesso tra realismo e giocabilità possa essere eccessivamente sbilanciato a favore del realismo. Sto pur sempre giocando.
Conclusione
Complessivamente, pur tenendo conto dei suoi difetti (e anzi, forse proprio in virtù di questi), Kingdom Come: Deliverance rimane un’opera molto interessante dal punto di vista estetico. Come spero di aver mostrato con questo articolo, è esemplificativa di vari aspetti di quell’insieme di caratteristiche che chiamiamo “realismo”. Certamente non è perfetto nemmeno in questo, e non si può certo dire che rappresenti uno standard o un modello di come fare un gioco realistico. Eppure, rappresenta un paragone rilevante, un esempio di coraggio artistico dato proprio dal sacrificio di alcune caratteristiche tipiche dei giochi in nome di un approccio più coerente e immersivo con la realtà. Come abbiamo visto, KCD non punta a compiacere il giocatore, ma a coinvolgerlo in un mondo che funziona secondo logiche proprie, spesso ostili e a volte imperfette, ma anche per questo più credibili.