Tra la fine di agosto e gli inizi di settembre la Cina ha fatto molto parlare di sé per via di nuove e più stringenti restrizioni nei confronti dei videogiocatori. Restrizioni arrivate dopo dichiarazioni dei vertici del Partito Comunista cinese che descrivevano una certa categoria di videogiochi come “oppio spirituale”.
In Italia la stampa di settore si è subito espressa a riguardo, con analisi e commenti parziali, se non scorretti. Offrendo al loro pubblico una lettura degli eventi fatta di piagnistei e lamentele su come il governo cinese non sia ancora capace (nel 2021!) di comprendere “il valore del medium videoludico”. Vedendo in questa mossa, addirittura, una contraddizione di fondo, dato l’enorme mercato di utenti – centinaia di milioni – e i grossi investimenti fatti in Cina proprio nell’ambito dei videogiochi.
Tralasciando gli aspetti morali ed etici che gravitano intorno a questa vicenda, con questo articolo ho intenzione di mostrare a grandi linee i motivi strategici e geopolitici che si celano dietro queste misure, e spiegare quindi perché la Repubblica Popolare ha eccome compreso il valore del medium videoludico. E proprio per questo da una parte lo teme e dall’altra ne è attratta.
I temi che intendo toccare sono principalmente due. Il primo riguarda la questione della limitazione delle ore di gioco online per i minorenni. Il secondo è l’utilizzo strategico dei videogiochi, in termini di pedagogia nazionale e softpower, che la Repubblica Popolare sta attuando. Entrambe questioni che rientrano in uno scenario molto più ampio: la possibilità di una futura guerra con gli Stati Uniti d’America.
In tal senso mi sento di rassicurare gli amici videogiocatori che stanno leggendo: il governo cinese non è la riproduzione in scala di vostro zio analfabeta digitale, a cui dovete spiegare il valore del medium videoludico.
Sicuramente avrete sentito parlare della politica del figlio unico, oppure dei più recenti campi di rieducazione nello Xinjiang per la popolazione uigura. La stretta sui videogiochi, e di conseguenza sui videogiocatori, da parte del governo di Pechino rientra in questa decennale tradizione cinese di controllo della popolazione.
Se negli anni Settanta fu necessario introdurre severe politiche di controllo delle nascite – con una popolazione che passò dai 570 milioni circa del 1953 ai 695 del 1964 –, oggi il Partito Comunista cinese cerca di plasmare la popolazione, e in particolar modo i giovani, in vista delle sfide future. E proprio in questo scenario rientra il duro attacco nei confronti dei videogiochi senza fondo. Un termine che sicuramente non risulterà nuovo agli spettatori di WesaChannel; ma in caso contrario lascio il link al video:
Di fatti uno dei videogiochi presi di mira da Pechino è Honor of Kings. Un titolo MOBA, sullo stile di League of Legends; ovvero l’esempio perfetto di gioco senza fondo. Questo, al contrario di quanto è stato scritto in molti articoli, dimostra una spiccata sensibilità da parte degli apparati cinesi nel comprendere il medium.
Però vi starete chiedendo: perché la Cina non può permettersi che milioni di giovani si perdano dietro a questi buchi neri sotto forma di videogioco?
Pechino ha un obiettivo, nemmeno tanto celato: l’annessione di Taiwan entro il 2049 – 100esimo anniversario della Repubblica Popolare. Spiace dirlo, ma le possibilità che questo avvenga in maniera pacifica si stanno assottigliando sempre di più. La popolazione taiwanese è fieramente contraria al legarsi alla controparte comunista o ad adottare la politica di Hong Kong “un paese due sistemi”. In mancanza di questa disponibilità, a Pechino non resta che l’uso della forza.
Taiwan non è un’isola particolarmente ricca di risorse, ma ha un valore strategico enorme nel contenimento americano nei confronti della Cina. Situata a 140km dalla costa cinese e sotto protettorato statunitense, è una vera e propria spina nel fianco di Pechino. Per i cinesi, conquistare l’isola, significherebbe rompere l’assedio a stelle e strisce e aprirsi una via verso il Pacifico, e quindi minacciare l’egemonia di Washington sul globo. In virtù di ciò un attacco cinese all’isola comporterebbe inevitabilmente un intervento americano.
Una guerra di tale portata richiederebbe un enorme sacrificio dei giovani cinesi, a cui non va permesso di perdersi dietro a giochi senza fondo. Ed è proprio qui che entra in scena l’utilizzo dei videogiochi nella pedagogia nazionale. A dimostrazione – ancora – del fatto che Pechino è ben conscia del valore del medium videoludico.
Per farsi un’idea di come il governo della Repubblica Popolare si ponga nei confronti delle questioni di politica estera, consiglio di consultare il giornale online Global Times. Un quotidiano cinese, in lingua inglese, spesso e volentieri provocatore, ma capace di trasmettere in maniera schietta il punto di vista di Pechino.
Ve ne parlo perché nel loro sito sono apparsi diversi articoli riguardanti i videogiochi, tra cui uno che fa proprio al caso nostro. Intitolato “China game development studio honors Korean War heroes in new FPS”, riassume perfettamente come la Cina si stia muovendo in questo settore.
L’articolo denuncia i videogiochi stranieri, come Call of Duty e Battlefield, colpevoli di sminuire e distorcere l’immagine della Cina nel mondo, e prosegue parlando invece di una produzione cinese. Uno sparatutto FPS multiplayer, chiamato WuWeiZhengTu, dove i ragazzi potranno vestire i panni degli eroi della guerra di Corea.
Nell’articolo ci appare chiaro come Pechino abbia estrema contezza del valore dei videogiochi nella narrazione e nella divulgazione della storia. Questa, materia incandescente nelle dispute geopolitiche. Gli stessi sviluppatori di WuWeiZhengTu affermano che i giochi di guerra hanno un importante ruolo nel modo in cui le persone percepiscono la storia, e proprio da questa consapevolezza è nato il desiderio di svilupparne uno che raccontasse “l’aggressione statunitense alla Corea”.
Si tratta di uno dei tanti esempi che mostrano la tendenza, in Cina, ad aumentare la produzione di un intrattenimento sempre più incentrato sull’esaltazione delle grandi imprese militari cinesi. Non solo videogiochi, ma anche film e serie tv. Un chiaro tentativo di diffondere nella popolazione, specialmente giovane, narrazioni bellicistiche. E in questo i videogiochi, con la loro incredibile capacità d’immersione, possono svolgere un ruolo cruciale.
In sintesi: per Pechino i videogiochi, lungi dall’essere visti come un semplice passatempo, sono sia un valido strumento che un possibile pericolo.