Sforzi titanici, il cui prodotto di scarto non è il fiero sudore della fronte e la fatica della schiena ma il sudore delle mani che stringono il pad. Agitiamo una spada fatta di codice, che non potremo mai sguainare davvero, in una perenne nostalgia, nel rimpianto di una ruggine impossibile, di ferite che non potranno mai infettarsi. Solo una promessa di avventura, draghi e castelli, cavalli e cavalieri, storie millenarie e tradizioni, religioni che sorgono e tramontano, regni che cadono nel fragore o nell’indifferenza, monete arrugginite e benedizioni dimenticate.
Ti guardi intorno. Tutto tace nella stasi della tua cameretta, quei suoni sono solo tuoi, per questo li custodisci nella segretezza delle tua orecchie, nelle conchiglie auricolari senza che sfugga un fiato. Piegato davanti allo schermo, come antichi studiosi che copiano e trascrivono, la mano tremante, alla ricerca di una pista, una strada corretta, l’intuizione di uno svolgimento coerente. Logorati dalla distanza che separa l’agile movimento del fendente dal febbricitante schiacciare dei tasti, come bambini superstiziosi che modulano la pressione sul pad in base alla rabbia e al desiderio di vittoria, alla frustrazione del fallimento. Sei immobile, non ti muovi, nonostante continui a premere, con violenza i pulsanti sulla tua spada di plastica e luci, groviglio di fili e di schermi, scatole piene di sogni di pixel.
Senti i limiti, puoi quantificarli, in quella barra verde, misura delle possibilità prima di rimanere immobile. Quella barra verde è la tua vita che inizia a finisce all’infinito, un ciclo eterno, incessante. Come Sisifo, risospingi quella barra al suo ripristino solo per esaurirla ancora. E ricominci. La ricarichi solo per svuotarla, quella barra verde è il fegato prometeico divorato dalle aquile. Ti dà speranza solo perché sia combustibile per una disperazione più profonda, perché conseguenza dell’illusione. Ti dà possibilità solo per mostrarti i tuoi limiti.
Senti i limiti. Quelli della tua stanza, del tuo schermo rettangolare, che vorresti si allargasse fino a potervi cadere dentro, per espiare la colpa del tempo perduto, e vorresti che tutti ci cadessero e vi rimanessero, per dire “ve l’avevo detto”, per poter dire di avere ragione, per poter ritrovare quel tempo perduto. Meglio, farlo perdere a tutti gli altri per condividerne il peso.
Ma lo schermo rimane, e noi continuiamo ad assottigliarne i bordi, vogliamo far scomparire quel nero che lo circonda, come un fossato circonda un castello, separandolo dal mondo, insieme promemoria della sua solitudine e sicurezza dalla compagnia dei nemici. Chi sono i nemici? Quelli che ci vogliono fuori dalla fortezza, quelli che vogliono abbattere il castello. Noi eroici folli non ci accontentiamo di quel fossato nero, per quanto sottile. Non vogliamo restare a difenderci, vogliamo conquistare, vogliamo che tutto diventi parte del castello, che ci sia un unico fossato che coincide con i confini di tutto, un limite senza un esterno, uno schermo circolare e sferico. Eppure rimani immobile, a difendere il fossato, senza portelo spostare di un centimetro più in là. Senti i limiti.
Senti i limiti, l’attesa. Non puoi dare tutti i colpi che vuoi, devi aspettare il tuo turno, devi dosare le energie, curarti, stare lontano dalle spade che ti vogliono morto. Ti allontani dallo schermo per paura di essere colpito, giochi contratto, all’indietro, in una smorfia tesa, come se fossi tu stesso l’arco che tende una freccia, contorto. Vinci, esulti, dopo ore di tentativi, la gloria, la soddisfazione, il sollievo. Come se poteva andare diversamente. Stupido sciocco, eri destinato a vincere. Era l’unico modo in cui poteva andare, perché la storia è fatta per te e non per i tuoi nemici. Che beffa, ti avevano fatto credere che fosse reale, che la posta in gioco fosse vera, che era una battaglia all’ultimo sangue, che traeva la sua bellezza dal rischio della morte. Perché solo la morte è reale. Ma noi potevamo provare all’infinito. Morire e risorgere. Il nostro nemico può morire solo una volta, destino crudele. E noi godiamo di una vittoria grottesca e meschina, siamo noi i cattivi della storia, quelli che barano, tanto più crudeli perché restiamo appagati dalla furia che infierisce sul nemico che ha il destino segnato, come Achille su Ettore. Cosa volevamo dimostrare? La vera forza non è forse quella di chi non la ostenta? Il vero eroismo è quello del nostro nemico, della vittima che si sacrifica perché noi godiamo di quella effimera gioia, l’ebbrezza di una vittoria rubata. Umile, ritorna sempre lì, per assecondare la nostra sete di sangue, risorge con noi per darci la misura della nostra forza, e poi si fa trafiggere per espiare i nostri peccati, per alimentare la nostra rozza fierezza e distoglierci dalla nostra condizione umiliante e ridicola, che ci illudiamo di aver vinto i nostri limiti, di aver spostato i fossati, di aver allungato all’infinito quella barra verde, di aver toccato la luce al di là del lago.
Potrai avere la tua vittoria solo nel castello, e così i tuoi nemici, pietosi, te la concedono, perché sanno che fuori non c’è vittoria. La porta bussa, tua madre dice che è ora di cena, e che dopo dovrai fare i compiti. I sogni ti hanno tradito, perché esiste un tasto per spegnerli. Ma dovevi saperlo. La barra verde era lì a ricordartelo. Comincerai di nuovo domani, col pollice che duole.
Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C'è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia … e una bella mattina… Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.
(F.S. Fitzgerald, Il grande Gatsby)