L’arte del world building e l’importanza di uno scenario adeguato
L’ambientazione come strumento del racconto e della trasmissione dei messaggi
Ogni storia ha bisogno di un palcoscenico e saper creare quello più efficace è a sua volta un'arte e una tecnica. Il world building, come intuibile dal nome, è la progettazione del mondo in cui avranno luogo gli eventi ma riguarda anche molto da vicino quelle che, durante il racconto, saranno le regole del gioco. All’interno di questo confine, narratore e spettatori stringono il tacito accordo del trovarsi in un altro luogo e di esperirne le vicende. La cosa assume un’evidente rilevanza nel caso delle opere fantasy e fantascientifiche - non ambientate nella nostra stessa realtà - in quanto la credibilità stessa di ciò che accade si fonda sul fatto che siano plausibili sulla base di ciò che è dichiarato essere possibile in quell’universo. Si tratta di un tema più complesso di quanto si possa pensare e anche autori affermati possono inciampare clamorosamente.
Il genere fantasy per come è conosciuto oggi è spesso caratterizzato da un’attenzione particolare alla costruzione dei mondi, al punto che un videogioco viene comunemente lodato quando la sua mappa è estesa. Non importa che sia densa di eventi che danno spessore al tutto oppure ricolma di side-quest tutte identiche e inutilmente numerose, il poter macinare chilometri sulle gambe del nostro avatar è frequente motivo di vanto per gli sviluppatori e di entusiasmo da parte dei giocatori.
Esistono varie possibilità che si aprono di fronte a uno scrittore in fatto di world building: si tratta di una scelta importante legata alle finalità dell’opera che la modellerà nella sua interezza, evidenziando ciò che nell’universo narrativo è importante e ciò che non lo è, quindi ciò che dovrà esserlo per il videogiocatore.
In letteratura
Quando Tolkien scriveva Il Signore degli Anelli e le altre opere del suo “Legendarium” intendeva dare alla sua patria, l’Inghilterra, una mitologia altrimenti assente; per questa ragione con la sua Arda mostra un mondo dettagliato nei concetti più che nei luoghi, riproponendo i capisaldi del suo pensiero dalla cosmogonia fino alle vicende più terrene: l’epica e la musicalità del racconto, le parole con le quali il Professore comunicava la grandezza delle sue entità superiori e la fatica delle imprese dei suoi eroi alla testa dei loro eserciti non richiedono calcoli strategici né interpretazioni minuziose del funzionamento della magia, al punto che ogni discussione su quale essere superiore o pericolo sia più grande risulta del tutto inconsistente, risolvibile solo ragionando volta per volta in termini di filosofia dell’autore. Queste opere sono colme di dettagli, anche se non strettamente “geografici”: non è tanto rilevante come è fatto il mondo quanto il motivo per il quale esiste e in che modo trovano “applicazione” i principi che lo sostengono.
Spostandoci ai nostri tempi, George R. R. Martin narra invece delle cronache. I suoi personaggi, le sue casate, si muovono di dettaglio in dettaglio attraverso articolate macchinazioni che sfruttano il carattere delle persone, le istituzioni delle diverse città e dei diversi regni, le tradizioni che danno origine a modi di fare, convinzioni e valori etici trasmessi per generazioni. Questo richiede un’estrema attenzione nel definire ogni singola dinamica presente e passata finendo per produrre una storia che, nella sostanza, è assai simile a quella del nostro mondo: il momento presente è sfaccettato, complesso e intrecciato, difficilmente leggibile poiché se ne ha solo una visione parziale, il futuro recente è in fase di rilettura e di definizione, magari oggetto di propaganda, mentre degli eventi ormai remoti si conserva solo memoria in merito agli eventi salienti.
Ci sono poi soluzioni più semplicistiche, come quella di J.K. Rowling con Harry Potter. In questo caso abbiamo una formula simile a quella delle fiabe e delle storie brevi: non è così importante sapere in quale punto dell’Inghilterra si trovi Hogwarts e si tralascia spesso e volentieri il rapporto fra il mondo dei maghi e quello di chi è privo di magia. Questa ricetta semplice, si noti, è sostenibile fintantoché le storie sono altrettanto semplici: funziona perfettamente nelle prime fasi del racconto, ma appena si elabora oltre il previsto i fan cominciano a porsi domande e a individuare tutte le falle di una costruzione improvvisata.
Sapkowski è un caso ancora diverso, con il suo The Witcher: pur ponendosi problemi cosmogonici descrivendo per sommi capi l’evento che ha portato le razze e la magia nel suo Continente, si confronta anche con le problematiche politiche e, soprattutto, sociali. Lo strigo Geralt si muove in genere fra gli sfortunati e le minoranze (risultando ironicamente ancor più sfortunato e minoranza egli stesso) interfacciandosi più volte con realtà dimenticate di tempi antichi. Per quanto la costruzione dell’ambientazione e la credibilità di alcuni elementi storici o geopolitici non sia del tutto convincente, questo connubio dona sia ai racconti che alla saga videoludica quel mood “folkloristico” che probabilmente l’autore ricercava, un mondo sporco e perso in affari mondani ma con alle spalle una dimensione soprannaturale varia e bizzarra, con la sensazione di qualcosa che sta appena oltre la propria realtà e in cui ci si imbatte se solo si osa mettere i piedi fuori dal sentiero.
Nei videogiochi
Il fantasy videoludico è tradizionalmente caratterizzato da world building a dir poco elaborati (pur con notevoli eccezioni). Il genere JRPG, ad esempio, che per molte generazioni è stato accompagnato da vere e proprie world map percorribili, non ha mai potuto fare a meno di disegnare i propri scenari in modo accurato e li ha spesso usati per creare le giuste atmosfere. La serie di Final Fantasy è l’esempio più tipico, Midgar, il Garden, Lindblum, Kilika, sono scenari che parlano da soli grazie alla loro estetica e ai loro legami con gli altri luoghi dello stesso mondo. Nel filone dei Final Fantasy si sono innestati molti altri JRPG, accomunati non solo dalla portata solitamente cosmica della minaccia e degli antagonisti (legati non di rado alle origini stesse del mondo di gioco) ma anche da una grande varietà di luoghi che interagiscono fra loro in base alle necessità del racconto e che ne fanno riecheggiare atmosfere e messaggi. Uscendo dalla scuola giapponese abbiamo mondi clamorosamente vasti come il Thedas di Dragon Age, descritto fin nelle più insignificanti leggende con cura maniacale. Un lavoro così esteso è molto di aiuto nell’immersione in quanto il nostro avatar è, di per sé, una scatola vuota che noi giocatori riempiamo. Non essendo possibile fondare l’esperienza di gioco su un personaggio inesistente, in Dragon Age è il mondo a contenere la sostanza della narrazione e a fornire credibilità e contesto a ogni sorta di individuo che lo popola. Il Thedas meraviglia perché è enorme, grande al punto che in ogni capitolo ne vediamo solo la minor parte e così vario da far risaltare tutti quei personaggi nati e cresciuti in culture diverse. Anche il nostro personaggio, però, è imbevuto di questo lavoro mastodontico e, chiunque lui sia, esistono aspetti dell’universo narrativo utile a conferirgli un’identità: nel corso dell’esperienza di gioco, assume nella nostra mente fattezze sempre più definite e una psicologia sempre più precisa, punti di vista nei confronti di ogni elemento di quel vasto scenario. Un personaggio che si costruisce in questo modo non è certo un capolavoro di scrittura da parte dell’autore (di fatto non è scritto in nessuna delle sue parti), ma rimane un notevole successo per un game designer che, conscio di come l’estetica del suo prodotto sia interamente nelle mani del giocatore, anziché dettargli una linea gli apre tutte le possibilità per averne una quanto più “sua” possibile.
Che dire, invece, delle storie che non richiedono il world building? Abbiamo esempi eccellenti anche in questo caso: i titoli di Fumito Ueda presentano lande e castelli posti in mondi indefiniti, vengono spiegate solo le premesse e tutto è lasciato all’atmosfera e alle azioni dei personaggi. NieR e i tioli del suo franchise raccontano molto delle sorti del mondo, eppure non ne chiariscono l’estensione e limitano gli eventi e le location a porzioni ridotte dello stesso: Yoko Taro è più interessato al creare interrogativi sui significati dell’esistenza e non ha quindi ragione di disperdere la narrazione lontano dal suo cuore pulsante. Dark Souls, dal canto suo, ha sì un suo world building ma fondato sulla natura del mondo, non sulla sua morfologia (spesso volutamente confusa e lacunosa) né sul ruolo attivo di regni e regnanti spesso menzionati solo per comunicare l’esistenza di molte cose al di fuori delle avventure del nostro avatar; si tratta quindi di un mondo molto più vasto di ciò che vediamo con i nostri occhi, qualcosa che esiste al fine esclusivo di non essere esperito e conosciuto.
La domanda che sorge spontanea è quindi: quando il world building serve e come deve essere fatto? Il mondo attorno alla storia è un elemento fondamentale, un valore aggiunto? Oppure è un orpello accessorio nel quale non vale la pena investire tempo ed energie? La risposta, come spesso accade, è: “dipende”.
Non tutte le storie hanno bisogno di un world building approfondito, a volte bastano pochi riferimenti per raccontare una vicenda che funziona e che va a segno. L’esempio delle fiabe è indicativo: non ha nessuna importanza sapere di quale regno sia erede il principe di Cenerentola o in quale modo la strega di Hansel e Gretel ha costruito la casa di dolci, gli elementi che costituiscono il racconto sono altri, il punto è la morale, non la geopolitica né la descrizione delle streghe o i loro poteri. D’altro canto, sarebbe affrettato ritenere lo scenario un semplice sfondo: tanto quanto i personaggi, questo può essere la concretizzazione dei principi che lo scrittore vuole esporre, un’applicazione del principio “show, don’t tell”: più vediamo accadere nel mondo davanti ai nostri occhi, meno avremo bisogno di spiegoni. In altre parole, affinché il mondo costruito serva a qualcosa è necessario che esso abbia un proprio arco narrativo alla stregua dei personaggi che lo abitano, se non di più. All’interno di una storia, ogni elemento deve avere un proprio significato, una propria ragion d’essere e costituire interesse per la vicenda. Tutto ciò che non assume un significato agli occhi del fruitore dell’opera, ovvero tutto ciò che non partecipa ad arricchirne il messaggio, è inutile e diventa facilmente dannoso in quanto “inquinante”, fonte di evitabile confusione e dispersione. Volendo stiracchiare il concetto potremmo dire che, quando si vuole inserire un mondo grande e articolato, questo debba quasi essere trattato come un personaggio a sé e attraversare trasformazioni tanto quanto un eroe che supera le sue sfide per superare ciò che gli preclude il successo. La filosofia dietro a Il Signore degli Anelli riguarda la sorte delle razze all’interno di un grande disegno, la ricerca di un’appartenenza e l’accettazione della propria natura rifuggendo da ciò che la perverte: la vittoria, in questo universo, è ottenuta quando prevalgono quei singoli che decidono di non ambire a un potere non fatto per loro, quelli che comprendono il proprio posto nel mondo capendo chi siano davvero. Cronache del Ghiaccio e del Fuoco è la storia della bassezza umana che, dimenticando la propria storia e lasciando radicare i propri difetti, si condanna all’autodistruzione mentre si affanna nell’afferrare qualcosa di vuoto e privo di significato: soltanto trovando la sintesi fra le realtà conflittuali che lo compongono (o risolvendo quei conflitti perdendo meno forza possibile) potrà sopravvivere.
Un altro aspetto da tenere a mente, inoltre, è che in ogni opera caratterizzata da un esteso world building è pressoché certo che il mondo creato sia molto più vasto di ciò che il giocatore (o il lettore) si troverà di fronte: molto di quanto viene scritto non sarà poi esperito dal fruitore dell'opera (a meno che non vada ad approfondire per proprio interesse). Un lavoro di questa portata per opere che non ne necessiterebbero è quindi un errore notevole: non solo sporca la fruizione del lavoro da parte dell’utente finale, ma è anche una pessima gestione economica del lavoro da parte di chi scrive. Un buon mondo sostiene la storia con le sue informazioni, con la sua atmosfera e/o con tutte quelle realtà che saranno appena intuite. Anche dove il destinatario del racconto non vede, deve percepire l’esistenza, lo spessore e la coerenza di ciò che è attorno a lui benché fuori dalla sua vista. Dove un Tolkien costruisce Arda orchestrando migrazioni e fusioni di popoli, definendo così diversamente i punti di vista di personaggi appartenenti a diverse stirpi e sfaccettando l’esperienza del lettore in modo coerente, così un David Gaider con il suo team differenzia le culture del Thedas e il loro approccio al lyrium, ai Flagelli e alla Chiesa di Andraste definendo come e perché quelle culture sono nate: anche il giocatore meno curioso potrà così godere di un universo narrativo con le spalle larghe che gli fornirà una realtà solida e credibile nella quale muoversi. Un bravo autore sa di che cosa ha bisogno e di che cosa no, sa che cosa deve fare e dire affinché il suo arazzo risulti completo, non bucato ma non inutilmente pesante, e decide quali aspetti e componenti del proprio universo narrativo dovranno contenerne il messaggio. Quanto è importante, vivendo il racconto, conoscere ciò che non riguarda direttamente i personaggi ma che "circonda" la storia principale e le si muove attorno? Quali aspetti influenzano i personaggi e il loro carattere, quali esperienze li hanno definiti e quanto non potrebbero essere ciò che sono avendo vissuto altri eventi in altri luoghi? Più in generale, quanto influisce sugli eventi il luogo in cui questi si svolgono? Se lo scenario che stiamo costruendo non sarà visto, non rende coerenti e solide le parti che saranno viste e non dà consistenza e atmosfera, comincia a diventare opportuno chiedersi quanto utile sia versare così tanto sudore in un lavoro che, alla fine dei conti, risulterà in uno sterile applaudirsi da soli (oppure nel pubblicare in un secondo momento un compendio per i fan).
Il world building è un’attività impegnativa, lunga e facilmente causa di inciampi e di incongruenze, usarlo per riempire spazio può portare un’opera un passo più vicina alla sua fine, ma nelle mani di autori capaci diventa parte integrante della “firma” del racconto contribuendo a consegnarci il suo messaggio e a scolpirci nella mente un viaggio immaginato.