Attenzione: questo non è un articolo sui videogiochi. O meglio, non parla solo di videogiochi. È un articolo sull’arte e la critica artistica, e quindi anche sui videogiochi e sula critica videoludica. Per quanto sia un discorso sull’arte in generale, però, penso che sia particolarmente rilevante nell’ambito dei videogame: non perché si tratti di un’arte “più arte” di altre, ma perché è un ambito ancora “giovane” soprattutto per quanto riguarda la dimensione della critica.
La cosiddetta “critica videoludica”, infatti, occupa ancora una dimensione dilettantesca (e non certo perché manchino “professionisti” stipendiati). Eccetto alcune (rare) eccezioni, il critico videoludico non si è formato su altri testi di critica, ma è solitamente una persona appassionata di videogiochi che esprime opinioni e giudizi su questo o quell’altro gioco. Certamente, i dilettanti non si trovano solo lì: soprattutto con la diffusione dei social network, si sono create diverse nicchie di utenti interessati a esprimere e ascoltare o leggere le “recensioni” di una certa opera, e questo vale tanto per quanto riguarda i videogiochi che per quanto riguarda cinema, teatro, e via discorrendo. Tuttavia, mentre in questi casi abbiamo una tradizione e spesso un vero e proprio canone di testi di critica, e quindi degli esempi da imitare o dei maestri da cui imparare, nel caso della critica videoludica non c’è niente del genere (almeno, non nella stessa quantità e rilevanza).
Pertanto, un discorso su cosa la critica sia e debba essere (nel senso che altrimenti non sarebbe “critica”) è, a mio avviso, necessario in un tale contesto. Questo mio contributo vuole essere una parte di questo discorso. In particolare, si tratta di un’analisi concettuale, vale a dire, che si concentra sul significato di alcuni concetti importanti: in questo caso, quello di “artista” e di “critico”. Non ne fornirò una definizione univoca, ma farò riferimento al modo in cui i due termini sono generalmente utilizzati nel linguaggio ordinario. Quindi, anche se possiamo dare una definizione minimale di “artista” come “colui (o colei) che produce qualcosa di bello”, non è questo il senso in cui userò il termine in questo articolo. Farò piuttosto riferimento a quel senso della parola che emerge in espressioni del tipo: “Wow, lui sì che è un’artista!”, quel senso per cui il dire “io sono un artista” (come in questo caso) risulta spesso ridicolo. Ovvero, lo considererò come un concetto dalla forte componente valutativa (e lo stesso vale ovviamente per il termine “critico”). Semplificando, possiamo dire che userò i termini “arte” e “critica” nel senso in cui li usa una persona appassionata di arte e che ritiene molto importante la critica. Inoltre, userò spesso espressioni come: “un critico deve fare questa cosa”. Ci tengo a chiarire sin da subito che in questi casi il “deve” non è un dovere morale ma è piuttosto una necessità concettuale: vale a dire, se l’artista o il critico che stiamo considerando non soddisfa una certa condizione, allora non rientra a pieno nel concetto di “artista” o “critico” che stiamo considerando.
Dunque, fatte le dovute premesse, che cosa contraddistingue l’artista e il critico?
Simili tra loro, diversi dagli altri
Per quanto possano apparire l’uno contro l’altro, artista e critico condividono un “nemico” comune: il conformismo. Entrambi, infatti, hanno il compito di far emergere la propria voce individuale contro la tendenza all’omologazione (non solo nel messaggio, ma anche nello stile). In questo senso, allora, l’anticonformismo che caratterizza l’artista e il critico altro non è che onestà intellettuale: ciò che conta è dire quello che penso, indipendentemente da cosa gli altri si aspettano da me. Questo non solo li accomuna artista e critico, ma allontana entrambi dalle rispettive caricature: in un caso, l’"artista” engagé, ovvero l’attivista; e nell’altro caso, il “critico” engagé da qualcuno, ovvero l’influencer.
L’artista e il critico, a differenza del militante e dell’influencer, non parlano in nome di nessun altro: la loro voce è solo la loro. Danno il loro personale contributo perché sentono di doverlo dare, non perché qualcuno (il partito, o lo sponsor) glielo chiede.
Ma allora un autore sottoposto, per esempio, a censura da parte di un governo autoritario non sarà mai un artista? E un artista che lavora su commissione? Virgilio che dona mitiche origini alla stirpe di Augusto e Michelangelo che dipinge e scolpisce per il Papa non sono artisti? Sarebbe assurdo sostenere una tesi simile: si tratta di (grandi) artisti perché l’artista è colui che nonostante le varie censure riesce comunque a fare qualcosa di bello e nuovo, qualcosa che consiste nel far passare la propria voce personale anche attraverso le fessure della censura. Se Virgilio e Michelangelo sono grandi, non è semplicemente nonostante i limiti politici, ma è proprio per la creatività che hanno mostrato nell’agire all’interno di quei limiti. Se le loro opere hanno ancora valore ai nostri giorni è probabile che in esse vi sia qualcosa in esse che va oltre la mera piaggeria per i potenti di turno (che comunque è presente). Bisognerebbe però anche considerare precise circostanze storiche come la conservazione delle opere, spesso legata alla considerazione che si aveva di esse (chissà quanta arte non ci è arrivata perché non piaceva a chi avrebbe potuto trasmetterla): si tratta tuttavia di un lavoro storico che va eseguito caso per caso e non è questo il contesto adeguato.
La questione è diversa nel caso del critico: se il lavorare su commissione non impedisce all’artista di produrre arte, impedisce però al critico di produrre critica. Questo ha a che fare principalmente con il carattere valutativo di un testo di critica: mentre l’artista può rimanere silente o ambiguo riguardo eventuali giudizi su certi aspetti dell’opera, il lavoro del critico sta proprio nell’esaminarli onestamente e così offrirne una valutazione. Tuttavia, nel momento in cui egli opera sotto compenso da qualcuno che ha interesse nel successo dell’opera, allora non può esaudire quell’esigenza di onestà che il suo ruolo gli impone. Il discorso non si limita all’aspetto più esplicitamente valutativo, ma riguarda la totalità del lavoro di critica: tuttavia, nella dimensione valutativa emerge maggiormente la particolarità del singolo individuo, e, di conseguenza, la sua assenza nel momento in cui essa è soppiantata dall’omologazione. Dunque, entrambi devono mantenere una certa indipendenza, ma per il preteso critico è molto più facile perderla.
In altri termini, l’artista ha un maggiore spazio di libertà rispetto al critico: è possibile produrre arte su commissione, ma non è possibile produrre critica. Ciò non esclude che anche l’arte possa essere usata come propaganda o pubblicità" (si pensi ai magnifici ritratti di re e regnanti di tutte le epoche): tuttavia, se un’opera d’arte può mantenere un valore (dato, per esempio, da una certa innovatività nello stile o dall’originalità del soggetto) nonostante il suo impiego “politico”, un testo che si vuole critico ma che nasconde un conflitto d’interessi risulta invece poco più di un consiglio per gli acquisti. Può certamente avere un qualche valore come buona pubblicità, ma rinuncia a essere critica.
Tuttavia, nonostante questa differenza tra artista e critico, ciò che mi interessa sottolineare è che entrambi condividono lo stesso tipo di indipendenza: ovvero artista e critico condividono una certa libertà rispetto alle pretese altrui. La libertà che contraddistingue l’artista e il critico non è solo una questione politica o economica: come nota John Stuart Mill in On Liberty, il nemico principale delle democrazie moderne non è la censura politica, ma il conformismo (e lui scriveva nell’800, figuriamoci oggi). Il conformismo è la paura di dire la propria opinione, di far emergere la propria voce. L’artista e il critico (autentici) sono liberi nel senso che danno la loro versione oltre ogni conformismo, dicono “è così, punto” (per esempio: questa storia va così, e non cosà; in questa scena la luce adatta è questa; questo personaggio manca di spessore; etc. etc.). Alla domanda “Ma chi lo dice che è così?” l’unica risposta che possono dare è: io. “Questa storia va così, non perché sia basata su fatti reali e i fatti reali sono questi, ma va così perché l’autore sono io e io voglio che vada così”. Sono liberi nel senso che l’unica autorità che davvero conta per loro è quella della propria creatività.
Questo è ciò che distingue l’artista e il critico dallo scienziato: artista e critico non devono dimostrare niente. L’artista produce un’opera che rispecchia la sua visione (si pensi, banalmente, al poeta che descrive il modo in cui lui vede la luna al crepuscolo: non sta spiegando i motivi ottici per cui appare così, ma ci sta mostrando come appare a lui), e il critico osserva il modo in cui ciò avviene, valuta se e come il messaggio viene trasmesso, e quindi la riuscita dell’opera. Dunque, al massimo – e non è poco –artista e critico possono mostrare attraverso esempi e ragionamenti la coerenza o la veridicità del loro discorso, ma non c’è altra fonte di autorità oltre se stessi. Non c’è un teorema, una formula, un esperimento a cui appellarsi per dire: “visto? avevo ragione io!”. Non c’è altra autorità se non l’autorevolezza dell’autore[1].
Nel caso della critica, tuttavia, ci si potrebbe ancora appellare a un’altra forma di autorità, e cioè quella della logica: il critico, quando parla di un’opera, produce una argomentazione che dà sostegno alla sua interpretazione, ed essa può essere fallace, contraddittoria, inconsistente. Bisogna però fare attenzione a non confondere questa argomentazione con una dimostrazione di qualcosa: la critica non è una scienza “dimostrativa” – come per esempio la matematica – ma è un ambito del discorso dalla forte componente valutativa. I valori che essa esprime possono certamente essere sostenuti da «buone ragioni», ma non possiamo pretendere da un testo di critica la stessa oggettività della scienza: ci sono ragioni migliori di altre, argomentazioni strutturate meglio e altre peggio, formulazioni più persuasive di altre, ma non c’è un test definitivo, un esperimento che indichi con inequivocabile certezza chi ha ragione. Per questo artista e critico non mi possono dimostrare che una certa cosa è fatta in un certo modo, tuttavia, mi possono mostrare il modo in cui loro vedono qualcosa.
E questa differenza, lungi dal rendere l’artista più limitato dello scienziato, lo rende anzi più libero: è vero che non potrà arrivare a conclusioni altrettanto oggettive sulla realtà, ma è proprio questo che gli garantisce una maggiore indipendenza. Umberto Eco ha notato più volte che un enunciato della scienza, come per esempio le leggi della gravitazione universale di Newton, può sempre essere rivisto e riformulato nel momento in cui emerge qualche fatto nuovo; al contrario, una verità letteraria, come “Superman è Clark Kent”, rimarrà vera in eterno e non potrà essere confutata da nessuno. Che genere di “fatto” potrebbe mettere in discussione una tale verità?
il patriarca di Costantinopoli (disposto ad azzuffarsi col papa sul “filioque”) sarebbe d’accordo col papa (almeno spero) nel dire che è vero che Sherlock Holmes abitava in Baker Street e che Clark Kent è la stessa persona di Superman.
Certo, ancora una volta nel caso della critica non è nemmeno così semplice: c’è sempre un testo (l’opera criticata) che oppone le sue resistenze e impedisce al critico di dirne qualunque cosa possibile. Allo stesso tempo, però, lo spazio per le interpretazioni “non sbagliate” è sufficientemente ampio da avvicinare il critico più all’artista che allo scienziato. Inoltre, se il testo oppone resistenze per quanto riguarda l’interpretazione, non penso possa opporle per quanto riguarda la valutazione di un’opera: è vero che non posso dire (coerentemente con il testo) “Ulisse viene ucciso dalle Sirene”, ma posso dire (o negare) che “Omero racconta l’episodio di Ulisse e le sirene in modo molto avvincente”. In questo caso, ancora una volta, l’unica autorità a cui appellarsi è la mia: qualcun altro potrebbe aver trovato l’episodio estremamente noioso, ma chi ha ragione? Non posso certo “dimostrare” che il racconto è “oggettivamente” avvincente.
Allo stesso tempo, però, non è solo una questione soggettiva: se si riduce tutto a un “io faccio questo perché mi piace”, “questa è bella, quella è brutta”, allora o il conformismo sarà destinato a vincere sempre (se è bello ciò che piace, l’artista farà solo quel che piace al pubblico e il critico esprimerà solo i gusti della maggioranza); oppure ognuno se ne resterà isolato nelle sue convinzioni e non disputa de gustibus. Tuttavia, sta di fatto che noi de gustibus ne disputiamo eccome: pur non possedendo criteri “oggettivi” di cosa conti come bello e cosa no, quando esprimiamo un giudizio su un’opera pretendiamo una qualche concordanza con gli altri (pur ammettendo ovvie differenze idiosincratiche). Se così non fosse, non solo non faremmo arte né critica, ma non perderemmo nemmeno tempo nel consigliare agli altri di leggere un certo libro, guardare un certo film, giocare un certo gioco, e così via.
Anticonformismo ed esemplarità
La situazione sembra paradossale: da un lato non abbiamo criteri oggettivi, e dall’altro non è nemmeno tutto soggettivo. Che si fa? non ci resta che sperare con Kant in una qualche universalità delle facoltà conoscitive o affidarci all’ideale interpretante logico finale à la Peirce[2] che stabilisca alla fine della storia chi aveva ragione?
Non credo: pretendere una qualche concordanza nei giudizi “di gusto” implica, sì, l’esclusione di un soggettivismo radicale, ma ciò non significa pretendere un’oggettività assoluta che escluda ogni elemento soggettivo o idiosincratico. Al contrario, significa includere e valorizzare la propria soggettività: non pretendiamo di rendere i nostri giudizi universalmente validi in nome di un qualche criterio assoluto; ma pretendiamo che i nostri giudizi siano (se si vuole, inter-soggettivamente) esemplari.
Riprendo questo concetto di esemplarità da Ralph Waldo Emerson, il quale, nel saggio “Self-Reliance”, si scaglia contro il conformismo, visto come uno spreco di umanità: ognuno di noi è un rappresentante di ciò che l’umanità può essere, un modo di essere umani, una possibilità; tuttavia, il conformismo riduce la diversità di “esemplari” umani, e quindi le maniere di essere umani. L’esemplarità non è dunque un qualche “dovere”, è piuttosto una conseguenza dell’anticonformismo: in breve, se sei “te stesso” – e cioè, se agisci onestamente – sei un esempio per gli altri. Certo, spetta poi agli altri la decisione di come valutare questo esempio, ed è proprio questo che ci spaventa. Questa paura di essere deludenti è il grande motore del conformismo: preferiamo piegarci alle aspettative altrui perché non farlo significherebbe rischiare di non piacere, e quindi di restare soli.
Chiaramente, questa deformazione di noi stessi che compiamo per piacere agli altri avviene in modo diverso a seconda di chi siano questi “altri”: gli alleati politici dell’artista “impegnato”; i fan di quello popolare; i colleghi e i propri pari; e così via. Certo, ci sono anche – e non sono da sottovalutare – buone motivazioni economiche per omologarsi: un artista senza pubblico fa la fame, e un critica senza lettori è un rompipalle frustrato. Tutto vero, ma è interessante notare che oltre alla ricompensa economica il conformismo offre anche una ricompensa “fisica”: si fa meno fatica così. Ma se, invece, ci si limita a imitare i comportamenti, i giudizi, le espressioni altrui, rinunciamo alla nostra unicità e così non abbiamo nulla da esemplificare.
Al contrario, pretendere che i nostri giudizi, le nostre azioni, le nostre opere siano “esemplari” significa dire: sto facendo (o dicendo) qualcosa di nuovo, che conta, che potrebbe interessarvi, nel quale potreste riconoscervi. Umberto Eco esprime una concezione simile, quando scrive che senza Dante non ci sarebbe stato un italiano unificato non perché Dante abbia deciso che la lingua parlata in Italia dovesse essere la sua, il che sarebbe impossibile, ma perché con la sua poesia ha dato l’esempio di cosa una simile lingua possa essere:
È vero che per diventare lingua parlata da tutti, il volgare dantesco ha impiegato alcuni secoli, ma se ci è riuscito è perché la comunità di coloro che credevano alla letteratura ha continuato a ispirarsi a quel modello.
- Umberto Eco, “Su alcune funzioni della letteratura”, in Sulla Letteratura, p.9.
Se Dante ha ispirato e diffuso l’italiano il merito è stato non tanto del De vulgari eloquentia, trattato (in latino) nel quale si propone proprio di valorizzare un nuovo volgare illustre, ma della Commedia, un poema. Dante ha vinto con l’arte, non con la critica; con un esempio, non con una dimostrazione. E questa è una differenza da non sottovalutare.
Come confessa rassegnato il grande critico culinario Anton Ego verso la fine del film Ratatuille, « la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che nel grande disegno delle cose anche l’opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale »
Ma questa differenza non esclude però quella comunione di intenti di cui parlavo. Lo stesso Ego, infatti, immediatamente aggiunge che « ci sono occasioni in cui un critico rischia davvero, ad esempio nello scoprire e difendere il nuovo: il mondo è spesso avverso ai nuovi talenti e alle nuove creazioni ». E questo è l’aspetto fondamentale: l’esemplarità implica coraggio.
Ergersi a esempio di qualcosa significa assumersi la responsabilità delle proprie azioni, metterci la faccia. In questo senso, l’artista e il critico sono liberi: non hanno paura del loro agire, di risponderne. Spesso però si preferisce delegare questa responsabilità ad altri, rinunciando quindi alla propria esemplarità e limitandosi ad ammirare quella altrui. Questo definisce il fan, il quale rinuncia alla propria voce individuale per far parlare un altro al posto proprio. Ma anche i fan, forti della numerosità, possono finire per imporre la loro inespressività al loro idolo, se quest’ultimo non ha il coraggio di mantenere la propria esemplarità. In questo modo, cioè, l’autore diventa “impiegato” (engagé) dai suoi fan così come l’influencer lo è dall’azienda.
Lo scrittore e critico letterario Walter Siti, nel suo Contro l’impegno, critica la tendenza nella letteratura recente alla militanza, alla pretesa di migliorare la realtà. L’impegno politico nell’arte non è certo una grande novità; tuttavia, a differenza dall’engagement classico, caratterizzato da un sovvertimento continuo dell’ordine (si pensi per esempio ad autori come Brecht, Sartre o Pasolini), il “neoimpegno” di cui parla Siti ha spesso a che fare con il rassicurare e con il cristallizzare l’ordine: distingue nettamente i buoni dai cattivi, chiede il lieto fine per l’eroe e la punizione per il nemico, dice con chiarezza dove sta il bene e dove il male. L’autore sente cioè il dovere di compiacere il lettore tanto su un piano stilistico (per esempio: frasi brevi e poco articolate, termini “semplici” e che facilitino la lettura, una frase a effetto qui e là, ecc.) quanto su quello contenutistico (niente di troppo tragico e in ogni caso se va male all’inizio poi finisce bene, i buoni vincono e i cattivi perdono, ecc.).
L’attore neoimpegnato dà in pasto ai suoi lettori un prodotto che essi possono consumare senza troppe difficoltà, che li conferma nella loro visione del mondo e che li faccia sentire dalla parte giusta. A differenza dell’impegno classico,
Il compito che il nuovo impegno si pone è invece più semplice e concreto: aiutarci a vivere, favorire il nostro adattamento alle mutazioni e/o farci sentire nel giusto, dalla parte degli emarginati e dei sofferenti: è, come scrive a un certo punto Gefen con sintesi fulminante, “una macchina per fabbricare rassicurazione”.
- Walter Siti, Contro l’impegno, p.40.
La tendenza a plasmare il prodotto finale sulle richieste del pubblico, esaudendole senza strane sorprese, ovviamente non è presente solo in ambito letterario. Si pensi ai continui remake che si sono visti negli ultimi anni al cinema: invece di creare film nuovi, che potrebbero piacere o non piacere, si preferisce investire sul rifacimento – con al massimo qualche rara modificazione per apparire ancora più buoni e inclusivi –di storie che già hanno riscosso successo in passato e che si pensa garantiranno lo stesso successo in futuro. Il videogame ovviamente non ne è esente, ma se nel caso di cinema e letteratura questa tendenza a rassicurare il “lettore” è, appunto, una tendenza recente, non sono sicuro che lo stesso valga per i videogiochi: mi sembra, cioè, che la costruzione di saghe e di giochi simili tra loro se non per lievissime differenze sia una costante del medium videoludico. Delego però a qualcuno più esperto di me nella storia dei videogiochi un giudizio più definitivo.
Ciò che mi interessa notare è il meccanismo alla base di questo processo, quella “macchina di rassicurazione” che ho chiamato qui conformismo, l’avversione al quale accomuna artisti e critici. Nel suo libro, Siti si concentra sul versante dell’autore, ma è facile notare come lo stesso si applichi a chi recensisce: guai a parlare bene di un’opera di cui tutti parlano male, o – ancora peggio – parlare male di una di cui tutti parlano bene.
In altri termini, è più conveniente per un “artista” dare in pasto ai propri fan il prodotto che si aspettano, invece che sforzarsi di produrre qualcosa di nuovo e quindi potenzialmente deludente; è più conveniente per un “critico” parlare male di un’opera considerata negativamente (dagli altri) e parlare bene di una considerata positivamente (sempre dagli altri). Ma, come detto a inizio articolo, penso che i termini “artista” e “critico” non siano adeguati per coloro che scelgono questa via più conveniente: nel loro uso ordinario, si tratta di termini carichi di valore, mentre il conformismo è negazione di ogni valore, perché lo sopprime alla nascita.
Nessun “dover essere”
Ma allora, se l’anticonformismo non conviene, perché praticarlo? Chi me lo fa fare? Nessuno, è questo il punto: nessuno ti “fa fare” niente. L’anticonformista è tale non per un qualche senso del dovere, ma perché non può essere altrimenti (il processo non è “decido di essere anticonformista, quindi mi comporto in un modo diverso”, ma “mi comporto in un modo diverso, quindi sono anticonformista”).
Certamente ci sono dei limiti al nostro agire – limiti fisici, economici, politici, di qualsiasi genere – ma all’interno di quei limiti possiamo scegliere di essere l’autore delle nostre azioni, e non rimanere l’avatar di qualcun altro. Non c’è una ricetta per l’anticonformismo, né per l’artista né per il critico: sarebbe paradossale dire come fare qualcosa che consiste nel non farsi dire dagli altri cosa fare. Non è possibile chiedere (non la si chieda quindi a me con questo articolo) una motivazione del perché dovremmo rifiutare il conformismo. Ripeto che NON si tratta di un imperativo etico: quando dico che l’artista non può essere un conformista non sto imponendo all’arte un “dover essere”, ma sto dicendo che l’anticonformismo è un tratto fondamentale di ciò che intendiamo quando diciamo “artista” – almeno nell’uso ordinario del termine (che poi è quello che conta). L’artista e il critico devono essere anticonformisti, cioè non possono non esserlo, perché altrimenti sarebbero qualcos’altro.
Tornando al discorso iniziale, quindi, sottolineo l’importanza del riconoscimento di questo aspetto in un contesto – come quello videoludico – in cui (probabilmente anche grazie ai media su cui tale contesto si sviluppa) il conformismo mi sembra essere particolarmente forte. In un tale contesto è allora più difficile che un (autentico) artista e un (autentico) critico emergano.
Quindi? Che fare? Ripeto che non spetta a me dirlo, e che probabilmente non spetta a nessuno. Sicuramente, però, liberarsi dai limiti superflui (il dover piacere, il non poter deludere, il dover rassicurare) è un buon punto di partenza.
[1] Solo scrivendo e leggendo questa frase mi sono reso conto della radice comune di queste tre parole (probabilmente il latino auctor ?). Non credo nell’etimologia come fonte privilegiata di verità e quindi il discorso finisce qui, ma trovo curiosa questa somiglianza.
[2] C.S. Peirce, A Survey of Pragmatism (CP 5.464-5.494), trad. it. “L’interpretante logico finale”, in Peirce, Opere, a cura di Massimo A. Bonfantini (Bompiani, 2003/2011) pp.255-277.