In Giappone esiste una collana, della casa editrice Hayakawa, chiamata “i libri che hanno creato Hideo Kojima”, che raccoglie appunto i testi che Kojima considera i più importanti nella sua formazione. Nel suo libro, Il gene del talento e i miei adorabili meme, Kojima approfondisce il legame che sin da piccolo ha con la letteratura, e il modo in cui quest’ultima si riflette sulla sua produzione artistica.
Ciò che segue è una riflessione personale su alcune delle idee espresse da Kojima nel suo libro e sulla luce che gettano sul suo progetto creativo. Non si tratta, quindi, di una recensione né di una valutazione dei suoi giochi, che saranno solo accennati qui e lì. Ciò che mi interessa è la visione del mondo, dell’arte, e di sé, che emerge dalle pagine di Kojima.
Il libro consiste essenzialmente in una raccolta di recensioni di altri libri, ma l’interesse non sta tanto nei testi di cui parla (si tratta soprattutto di gialli, thriller, e racconti di fantascienza, molti dei quali mai tradotti dal giapponese), quanto piuttosto nel rapporto che traspare tra il Kojima lettore e il Kojima autore.
Nel mio caso, se dovessi fare la lista delle sostanze nutritive che mi hanno alimentato in questi quarantatré anni, direi nell’ordine “film”, “musica” e “libri”.
Solitamente, interrogati sulle opere che maggiormente li hanno influenzati, molti sviluppatori di videogiochi tendono a nominare altri videogiochi. Il fatto che Kojima abbia un tale rapporto con la letteratura (oltre che con il cinema) è già un segno di originalità, e che non stupisce chi è familiare con la sua opera. Kojima sottolinea più volte l’importanza della letteratura (in senso ampio):
Leggere libri e guardare film forniscono esperienze che, per quanto indirette, sono comunque importanti.
Considero tutto ciò di cui farò esperienza in questa vita fino al giorno in cui morirò come di estrema importanza.
Il concetto attorno al quale ruota il libro è quello di meme, centrale già nel suo Metal Gear Solid 2. Non si tratta, ovviamente, del senso “internettiano” del termine ma di quello sociobiologico, introdotto da Richard Dawkins: così come il gene è l’unità di trasmissione di informazioni genetiche, il meme è l’unità di trasmissione di informazioni culturali. Molte cose diverse possono costituire un meme: un certo modo di abbigliarsi o di mangiare, concezioni politiche o religiose, parole e numeri, immagini, musiche, e storie.
Sul tema, appunto, Kojima ha già scritto Metal Gear Solid; ma mentre lì il focus era sulla dimensione “sociale” (il ruolo dei memi nel dare forma a una società) in questo libro si concentra su quella “individuale” (e quindi il ruolo dei memi nel dare forma a una persona). Kojima parla dei suoi adorabili memi: i memi sono ciò attraverso cui trasmettiamo cultura, e quindi ciò attraverso cui la assorbiamo. Le storie sono un tipo di meme, e l’incontro con le storie, al pari dell’incontro con persone, è qualcosa che arricchisce l’esperienza individuale.
L’obiezione più comune a questo genere di visione è quella che sottolinea la differenza tra letteratura e mondo reale: l’esperienza di scalare una montagna non è la stessa del leggere le storie degli scalatori. E su questo non ci piove, ma ciò su cui insiste Kojima è sopratutto il valore di questa esperienza:
C’è sempre chi criticherà le esperienze indirette acquisite leggendo un libro, giudicandole inferiori a quelle della vita reale, dato che è impossibile restarne feriti. È chiaro che non c’è nulla di più falso. Entrare in contatto con i meme chiamati libri e film è un’esperienza insostituibile, che ci fornisce la saggezza e la conoscenza necessarie per affrontare la realtà.
Il valore educativo della letteratura sta nell’allenare il lettore alla realtà attraverso l’immaginazione. Il fatto che l’esperienza vissuta e quella letta non abbiano lo stesso statuto “ontologico” non significa che la seconda non possa avere un valore addirittura superiore alla prima nella vita di una persona.
Umberto Eco diceva che i libri allungano la vita nel senso che chi non legge vive una volta sola mentre chi legge vive più volte. Tuttavia, oltre a essere la consolazione ideale del topo di biblioteca, questa (ormai famosa e iper-inflazionata) citazione è forse troppo generica. Sembra mettere tutti “i libri” sullo stesso piano: ognuno è una vita diversa e di pari valore rispetto agli altri. Inoltre, sembra mettere il valore della letteratura sul piano quantitativo, trascurando quello qualitativo. Il punto, però, non è semplicemente di “fare molte esperienze leggendo molti libri”, ma di viverle nel modo corretto. E per poter trasmettere un’esperienza nel modo adeguato, un’opera deve essere fatta in un certo modo. Per fortuna o purtroppo non esiste una ricetta unica, un insieme di regole da seguire per realizzare una buona opera, e, con buona pace di chi vorrebbe il potere di esprimere un giudizio assolutamente oggettivo, non esiste un insieme preciso di caratteristiche che un’opera deve avere per riuscire nel suo intento.
Ma allora come si discerne un’opera buona da una meno buona? Con il gusto. Attenzione però: questo non significa banalmente che “bello è solo ciò che piace”. Il gusto infatti può essere affinato, sviluppato, coltivato. Ancora una volta, però, ciò non richiede l’esistenza di criteri universali e assoluti del “gusto raffinato”. Il criterio è interno al proprio percorso di crescita individuale, e, quindi, inter-soggettivo: dipende, cioè, dalle esperienze proprie e altrui, dalla condivisione e dalla discussione critica, dalla capacità di analizzare cosa “ci piace” e perché.
Lo sviluppo di un senso estetico, passi per libri, poesie, film, serie tv o videogiochi, consiste nell’arrivare ad acquisire un senso di ciò che è vivo e profondo, ciò che è superficiale, sentimentale, cheap, e così via. Mettiamo in relazione diverse opere tra di loro, facciamo confronti e paragoni con altre opere e con la vita reale, e a mano a mano arriviamo a conoscere quali sono le ragioni del nostro interesse in certe cose, dell’importanza che diamo loro. Nei casi migliori, impariamo a supportare i nostri giudizi con argomenti, o esempi, descrizioni, e spiegazioni. Cos’è tutto ciò se non un modo di imparare a pensare? Ecco in che senso la letteratura gioca un ruolo essenziale nell’educazione del carattere: le opere letterarie (in senso ampio) possono invitare a una riflessione critica di sé unica, non raggiungibile con altri metodi.
Dato il suo potere nello sviluppo intellettuale di una persona, il rapporto che abbiamo con la letteratura (ma, con Kojima, potremmo dire i memi in generale) non può che riflettersi in quello che facciamo. Nel caso di Kojima, infatti, lo stesso lavoro di perfezionamento del senso estetico del lettore sembra guidare la tecnica dell’autore:
È ovvio che libri, film e musica, in quanto opere dell’uomo, non possono fare tutte centro; anzi, il novanta per cento di esse manca il bersaglio. Tuttavia, nel restante dieci per cento si trovano autentici capolavori. Anche io, come creatore, vorrei poter continuare a dar vita a opere che rientrino in quel dieci per cento.
Emerge qui un tema ricorrente nelle riflessioni seguenti, che riguarda il particolare perfezionismo di Kojima. È un perfezionismo che si applica non solo ai suoi prodotti, ma anche a se stesso. Dalle pagine di Kojima emerge una concezione della propria vita come un progetto, qualcosa su cui lavorare e da raffinare costantemente. L’ideale è quello di fare della propria vita un’opera d’arte, un “bello e nobile oggetto di contemplazione”, come scrive John Stuart Mill in On Liberty.
Se si vedono i memi che incontriamo come ciò che dà forma a quello che siamo, non stupisce la ricerca quasi ossessiva di quel “dieci per cento” di opere valide: se siamo ciò che mangiamo, vorremo mangiare cose buone; e se siamo ciò che leggiamo allora vorremo leggere le cose migliori. Ritorna così il tema dell’affinamento del gusto, legato all’impegno che richiede:
selezionare il dieci per cento di libri validi fra l’enorme, schiacciante massa di volumi contenuti in una libreria è qualcosa che richiede un allenamento e una pratica quotidiani.
Entrambi i tipi di lavoro, quello su se stessi e quello su un’opera, hanno per Kojima un elemento al tempo stesso di casualità (potremmo dire serendipità) e di allenamento: casualità perché non possiamo prevedere né determinare i contesti e i memi che ci formeranno, e allenamento perché possiamo (e forse dobbiamo) sforzarci di impiegare al meglio ciò che abbiamo all’interno di questi limiti.
C’è però una ovvia ma importante differenza, tra l’autore e il lettore, che dipende da cosa c’è in gioco in caso di fallimento:
Con un libro potete semplicemente dire: “Be’, non era interessante”, ma se parliamo di un lavoro o un progetto in cui siete coinvolti c’è la possibilità che si riveli un disastro per molte persone. Un conto è viaggiare con la fantasia tra le pagine di un libro, ma quando il viaggio avviene nel mondo reale un fallimento può costare molto caro.
Lasciando momentaneamente da parte il discorso sul Kojima autore della propria vita (sul quale solo lui potrà giudicare) e restringendo il campo al Kojima autore di videogiochi, penso sia inevitabile riconoscere il profondo investimento personale dell’autore, evidente in elementi come la cura e la precisione dei dettagli che caratterizzano la sua opera.
Indipendentemente da ciò che si pensa sulla riuscita delle sue opere, questo investimento di tutto se stesso è ciò che, a mio avviso, rende Kojima degno dell’appellativo di artista. La dimensione esistenziale della produzione artistica emerge più volte nel corso del libro. Per esempio, parlando di La vetta degli dèi di Baku Yumemakura e Jirō Taniguchi, Kojima riflette sull’immagine della montagna da scalare come metafora della vita di una persona:
ognuno di noi ha la propria montagna personale da scalare, il proprio “lì” da raggiungere.
La metafora è calzante, vista la difficoltà dell’impresa. La difficoltà nel vivere non è tanto (non sempre almeno, anzi quasi mai) una difficoltà puramente fisica, di sopravvivenza. Per fortuna, almeno nel mondo largamente “occidentale” (nel senso del termine che include anche l’estremo oriente del Giappone) questo non è più un problema per la maggior parte delle persone. La difficoltà, proprio in questo contesto socio-economico, sta piuttosto nel vivere una vita che sia la propria: è troppo facile, infatti, rimettersi al conformismo del lasciarsi vivere seguendo la corrente determinata da altri; ben più difficile è invece farsi carico del proprio percorso e assumersi la responsabilità della propria esistenza.
Kojima riporta una frase del libro che l’ha particolarmente colpito:
Così ripercorrerei semplicemente le azioni già compiute da qualcun altro. No, il mio percorso è l’ascesa diretta fino alla cima, qualcosa che nessuno ha ancora fatto. È tutto ciò che posso incidere in quella parete di roccia.
e poi commenta:
Sono certo che, per quel che mi riguarda, il mio “lì” sia lo stesso di Habu. Anche io ho fatto cose che nessuno aveva mai fatto prima, e ci sono riuscito prima di chiunque altro. Per di più, ho scelto di imboccare un sentiero pericoloso che nessuno prima di me aveva intrapreso. Tale era la mia montagna.
Kojima appare qui molto sicuro di sé, e convinto della riuscita del suo progetto. Questi toni vengono però attenuati poche righe dopo, pensando al contesto più generale dell’industria videoludica:
Il mio “lì” è “creare videogiochi”. Proprio come coloro che sono rimasti ossessionati dalle montagne, io sono stato salvato da quel “lì” che mi ha spinto a lasciare il cammino già battuto.
Detto questo, però, i tempi sono cambiati. La montagna chiamata “creare videogiochi” che stavo scalando sta subendo una scossa tettonica e sta cambiando gradualmente forma. Io, però, non smetterò di scalare. E non lo faccio solo “perché è lì”. Piuttosto, d’ora in poi continuerò l’ascesa proprio “perché non è più lì”.
Ciò che spinge l’artista Kojima è un bisogno fisico (e spirituale) di trovare il proprio “lì”, quella parte di realtà che si possa considerare propria. Come per molti artisti, questa scoperta consiste in una creazione: cosmopoliti quasi per natura (gli arbitrari confini nazionali tendono sempre a stare stretti a chi non può evitare di trascenderli con l’immaginazione), questi individui non si accontentano del mondo così com’è ma nemmeno cercano di cambiarlo con la forza, come i rivoluzionari politici, bensì di migliorarlo con l’immaginazione. Si tratta, ancora una volta, di accettare le inevitabilità e i limiti della realtà, per agire creativamente all’interno di essi. Nelle parole di Kojima,
io non sono occidentale, non sono orientale, non sono giapponese. lo sono Hideo Kojima. I giochi che creo trascendono i confini nazionali e culturali, e sono spesso considerato un cittadino del mondo. E in fondo non c'è nemmeno bisogno di lasciarsi distrarre da questi pensieri oziosi: posso sempre crearmi un mondo tutto mio, il "mondo di Hideo Kojima"; condividerlo con tutti gli altri, poi, è il mio destino.
Ecco perché non ho bisogno di raggiungere l'illuminazione. Ho deciso di vivere la mia vita in balia del destino.
Si tratta di un tema già affrontato nella Metal Gear saga (penso, per esempio, a Solid Snake e al suo non voler essere un semplice “cane” da guerra ma un essere umano, o a Raiden nel finale di MGS 2 che si libera della targhetta con il nome del giocatore come segno dell’indipendenza raggiunta). Si potrebbe anzi dire che il filo conduttore della saga sia proprio quello di trovare una propria autonomia e del lasciare traccia della propria esistenza.
Anche in questo, Kojima risulta molto Echiano. In un suo scambio con il cardinale Carlo Maria Martini, Eco – convintamente ateo – parla di una “religiosità laica” che consiste nella speranza del futuro e di una forma di immortalità dell’anima che consiste nella possibilità di trasmettere qualcosa di sé agli altri, producendo cultura. La cultura, di qualunque tipo siano i segni o i memi che la trasmettono, è vista da entrambi come qualcosa che sfugge alla finitezza e alla solitudine dell’individuo. Così Kojima:
Connettendo i nostri cuori e le nostre anime con le future generazioni, possiamo liberarci dalla battaglia contro la solitudine.
Anche il tema della solitudine è costante nell’opera di Kojima, dal primo Metal Gear a Death Stranding. L’idea di superarla creando cultura è forse la speranza di tutti gli artisti, inevitabilmente “freak” e quindi, se non soli, comunque unici.
Il produrre qualcosa, un’opera, un meme, può servire a trovare qualcuno di affine. Questo qualcuno, di rimando, proverà una sensazione simile a quella che il solitario Kojima racconta di aver provato vedendo per la prima volta Taxi Driver da adolescente:
Attraverso lo schermo riuscii a rivivere la solitudine avvertita da Travis, e scoprii che c’erano altre persone che condividevano la mia stessa sofferenza, là fuori.
“Non sono l’unico che pensa di essere tutto solo, a questo mondo!”
Un uomo che prova il mio stesso senso di isolamento stava guidando un taxi, da qualche parte. Pensandoci, la mia solitudine si è acquietata.
C’è sicuramente, come dice Eco, qualcosa di “religioso” nell’idea di immortalizzarsi con la creazione. Nelle pagine di Kojima, però, questo viene ricondotto a qualcosa di molto più “naturale”: prima alla necessità di trovare un proprio simile per sentirsi meno soli, e poi al rapporto tra padre e figlio (anch’esso centrale nella Metal Gear saga).
Credo sia stato dopo che ho avuto i miei figli che ho praticamente smesso di sentirmi isolato. Ora ero più preoccupato per il presente della mia famiglia e il futuro della società di cui avrebbero fatto parte; prima ancora di accorgermene, avevo smesso di essere Travis. E penso che iniziare a creare videogame abbia dato uno scossone decisivo al giogo di quella sofferenza: all’improvviso ero così impegnato che non avevo il tempo di sentirmi solo, il che si è rivelato una mossa vincente. Oggi persone in ogni angolo del mondo, di cui neppure conosco nomi e volti, giocano ai videogiochi che ho immaginato. Non appena l’ho realizzato, la solitudine è fuoriuscita di colpo dal mio corpo, come uno spirito che è stato esorcizzato. C’è differenza fra il bisogno di compagnia e la solitudine. Nasciamo da soli e moriamo da soli, è vero… ma finché siamo vivi, siamo collegati con il resto del mondo.
Connettendo, solitamente, gene e meme, il rapporto genitoriale è raccontato come qualcosa di molto intenso da parte di Kojima, tanto nel libro quanto nelle sue opere videoludiche. Se il desiderio di tramandare se stessi nella storia oltre la propria morte è qualcosa di “religioso”, ben più modeste risultano invece le ambizioni di chi vuole insegnare e condividere qualcosa con il figlio. Se poi si tratta di una persona particolarmente originale e, nel fare ciò, produce qualcosa di valore per il resto dell’umanità, tanto meglio per tutti.
La creazione di qualcosa può rappresentare il tentativo di “lasciare una traccia” del proprio passaggio tra i vivi, e ciò rappresenta per molti un bisogno esistenziale. Solitamente chiamiamo queste persone “artisti”, o “artigiani”, ma ovviamente sarebbe un errore limitare questa esigenza a un mestiere. Ci sono diversi modi di rispondere all’esigenza di creare qualcosa: lo si può fare dipingendo un quadro o componendo una sinfonia, costruendo un edificio o fondando un’azienda (si pensi, per esempio, a cosa rappresenta nell’imprenditoria una figura come quella di Steve Jobs: l’investimento quasi ossessivo di tutto se stesso nel prodotto). Quella che potremmo chiamare l’artigianalità di Kojima consiste proprio nell’importanza esistenziale che la sua opera ha per lui.
Cosa serve a un lavoratore, più del suo titolo? Senza alcun dubbio una forte identità, una bussola nella vita, la coscienza di sé. Il nome datogli dai propri genitori. E poi, il valore che quel nome ora possiede. Fra parentesi, il mio attuale (questo articolo è stato scritto nel 2008) biglietto da visita recita quanto segue:
“Hideo Kojima, regista presso Kojima Productions, direttore esecutivo e creativo presso Konami Digital Entertainment Co., Ltd.”
Non voglio essere ricordato per i miei titoli, ma per ciò che ho creato. Voglio usare il resto della mia vita per perseguire la mia missione, non per inseguire un titolo.
Ecco perché, quando scambio il mio biglietto da visita con qualcuno, dico così:
«Io sono Hideo Kojima, e faccio il game designer».
Il culmine dell’artigianalità sarà poi raggiunto circa 8 anni dopo, quando Kojima, insieme ad altri sviluppatori, esce da Konami e dà nuova vita alla Kojima Productions come casa di sviluppo autonoma e indipendente, e viene rilasciato Death Stranding:
Non è facile per le persone crederci quando diciamo che siamo stati in grado di creare qualcosa come studio indipendente lavorando in simili circostanze.
Può sembrare paradossale, ma ci siamo riusciti proprio perché non abbiamo diviso il nostro lavoro o appaltato a compagnie terze. Dividere il lavoro e fare outsourcing in nome dell’efficienza è diventato un fatto normale non solo per le grandi produzioni cinematografiche hollywoodiane, ma anche per chi fa videogiochi. Eppure, non posso appoggiare completamente un simile metodo di lavoro.
Questa posizione nasce da uno stile, che ormai fa parte di me, che prevede che io faccia uso dei miei occhi, della mia testa e del mio corpo per accertarmi dei meriti e dei demeriti del lavoro, puntando a quel dieci per cento di cui parlavo.
A mio avviso, le opere di Kojima rientrano sicuramente in quel “dieci per cento” di opere valide all’interno dello scenario videoludico (pur non essendo prive di difetti). Qui entra ovviamente in gioco un elemento inevitabilmente soggettivo che dipende da cosa si cerca in un’opera. Personalmente, infatti, dopo un’infanzia da nintendaro, ho riscoperto il videogioco solo in età “adulta” o comunque “matura”: solo dopo, cioè, essermi ormai abituato al confronto con alcuni dei testi letterari e filosofici più importanti di sempre (colpa soprattutto della mia educazione umanistica). Non a caso trovo molto consonanti le parole di Kojima sulla letteratura, così come la sua visione dei memi che plasmano una cultura sociale e individuale. Personalmente, poi, condivido con lui quella visione perfezionista che consiste nel (tentare di) fare della propria vita un’opera d’arte, un progetto creativo, e quindi nel tentare di migliorarsi costantemente (senza arrivare però a strani tipi di fanatismo). Questo passa soprattutto – nel mio caso, e, pare, in quello di Kojima – per quell’educazione del carattere in cui la letteratura (in senso ampio) ha un ruolo centrale. Do meno importanza, invece, alla dimensione “religiosa” dell’immortalizzarsi attraverso la creazione, ma poco importa.
Ciò che mi interessa è la considerazione dei videogiochi (alcuni, pochi, pochissimi) come un corpus di testi degno di entrare in comunicazione con gli altri, parte delle produzioni umane che abbiamo imparato a chiamare arte (ma che potremmo anche chiamare altrimenti), e a cui diamo valore in quanto strumento di comprensione di noi stessi e degli altri. Il motivo per cui gioco, e mi interesso al discorso intorno ai videogiochi, è dunque lo stesso per cui leggo e studio. Vedendo le opere videoludiche, al pari di quelle letterarie e filosofiche, come un potenziale strumento di crescita e arricchimento, ricerco in esse quelle caratteristiche “letterarie” che solo raramente hanno. Non nascondo che questo mi rende estremamente esigente dal punto di vista estetico (qualcuno potrebbe dire snob), e non escludo che quella che per me è esigenza potrebbe essere considerata da altri come un limite: per esempio, faccio fatica ad apprezzare giochi che mancano di una qualche componente narrativa, come la maggior parte dei giochi “di sport”, quelli simulativi, quasi tutti gli sparatutto, e molti arcade; ovviamente ne riconosco l’elemento intrattenente e adrenalinico, e non escludo che alcuni di essi siano estremamente raffinati e “di pregievole fattura”, ma – ripeto, sarà un limite mio – non suscitano in me alcun fascino se non temporaneo.
Oltre a questo elemento propriamente “soggettivo” ce ne è però un altro più “oggettivo” e quasi matematico. Anche per ovvi motivi storici, a differenza dei libri, i videogiochi che corrispondono a questo criterio sono estremamente pochi. Di conseguenza, quei pochi (Kojima parla di un 10%, io credo di essere più pessimista) acquisiscono un valore ancora maggiore. Per questo penso sia importante parlarne, e riconoscere – senza però idealizzare – il valore artistico di chi li crea.
Il libro di Kojima è uscito nel 2019 (come revisione ampliata di un testo del 2013), e nel corso degli ultimi 5 anni molte cose potrebbero essere cambiate. In effetti, si parla molto poco – se non nel passaggio citato sopra – del suo rapporto con l’industria videoludica in particolare conseguentemente alla (ri)nascita della Kojima Productions, e non si fa alun riferimento alla ricezione – generalmente non troppo positiva – di Death Stranding. In ogni caso, Il gene del talento fornisce un approfondimento nella filosofia di un autore centrale del movimento videoludico, e spero che questo articolo riesca a renderne parte dello spessore.
Come recita il detto, “Truth is stranger than fiction”, la verità è più strana della fantasia. A questo mondo ci sono un sacco di storie che, seppur basate su fatti reali, non possono che risultare bizzarre.